Autore José Saramago
Titolo Alabarde alabarde
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014, I Narratori , pag. 112, cop.fle., dim. 12x19,5x1,2 cm , Isbn 978-88-07-01883-1
OriginaleAlabardas, alabardas, Espingardas, espingardas [2014]
PrefazioneFernando Gómez Aguilera, Roberto Saviano
TraduttoreRita Desti
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe narrativa portoghese












 

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Indice


   7   Un libro incompiuto, una volontà tenace
       di Fernando Gómez Aguilera

  27   Alabarde alabarde

  79   Note dal diario di José Saramago

  85   Anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo
       di Roberto Saviano


 

 

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Pagina 29

1.



L'uomo si chiama artur paz semedo e lavora da quasi vent'anni nei servizi di fatturazione di armamento leggero e munizioni di una storica fabbrica d'armi conosciuta con la ragione sociale di produzioni bellona s.a., nome che, conviene chiarirlo giacché sono ormai pochissime le persone che s'interessano di queste inutili conoscenze, era quello della dèa romana della guerra. Niente di più appropriato, bisogna riconoscerlo. Altre fabbriche, mastodontici imperi industriali di armamenti di peso mondiale si chiameranno krupp o thyssen, ma queste produzioni bellona godono di un prestigio unico, quel prestigio che deriva loro dall'antichità, basti dire che, nell'opinione autorevole di alcuni esperti in materia, certe attrezzature militari romane che troviamo nei musei, scudi, corazze, elmi, punte di lance e gladi, ebbero origine in una modesta fucina di trastevere che, com'era voce corrente all'epoca, era stata impiantata a roma proprio dalla dèa in persona. Ancora non molto tempo fa, un articolo pubblicato su una rivista di archeologia militare arrivava al punto di sostenere che alcuni resti di una frombola baleare scoperti recentemente provenivano da quella mitica fucina, tesi che immediatamente sarebbe stata contestata da altre autorità scientifiche le quali hanno affermato che, in tempi così remoti, la temibile arma d'assalto cui si diede il nome di frombola baleare o catapulta non era ancora stata inventata. A chi possa interessare questo artur paz semedo non è né celibe, né sposato, né divorziato, né vedovo, è semplicemente separato dalla moglie, non perché lui lo avrebbe voluto, ma per decisione di lei che, essendo una militante pacifista convinta, ha finito per non sopportare più di vedersi legata dai vincoli dell'obbligata convivenza domestica e del dovere coniugale a un fatturatore di un'azienda produttrice di armi. Questione di coerenza, semplicemente, aveva spiegato allora. La stessa coerenza che l'aveva già portata a cambiarsi il nome, infatti, essendo stata battezzata come bertha, che era il nome della nonna materna, passò a chiamarsi ufficialmente felícia per non doversi portare appresso per tutta la vita l'allusione diretta al cannone ferroviario tedesco che è rimasto famoso nella prima guerra mondiale per aver bombardato parigi da una distanza di centoventi chilometri. Tornando ad artur paz semedo, c'è da dire che il grande sogno della sua vita professionale è di essere nominato responsabile della fatturazione di una delle sezioni di armi pesanti e non di quella minutaglia delle munizioni per materiale leggero che è stata, sino ad ora, la sua quasi esclusiva area di lavoro. Gli effetti psicologici di questa inveterata e non soddisfatta ambizione s'intensificano fino all'ansia nelle occasioni in cui l'amministrazione della fabbrica presenta nuovi modelli e porta gli impiegati a visitare il campo delle prove, eredità di un'epoca in cui la gittata delle armi era molto minore e ora impraticabile per qualsiasi esercizio di tiro. Contemplare quei lucenti pezzi d'artiglieria di svariati calibri, quei cannoni antiaerei, quelle mitragliatrici pesanti, quei mortai dall'imboccatura aperta verso il cielo, quei siluri, quelle cariche di profondità, quei lanciarazzi ribattezzati organi di stalin, era il piacere più grande che la vita potesse offrirgli. Nel catalogo della fabbrica si notava l'assenza di carrarmati, ma era ormai pubblico che si stava preparando l'entrata delle produzioni bellona s.a. nel rispettivo mercato con un modello ispirato al merkava dell'esercito d'israele. Non avrebbero potuto scegliere meglio, lasciatelo dire ai palestinesi. Tante e tanto forti emozioni facevano quasi perdere i sensi al nostro uomo. Sull'orlo del deliquio, o almeno così credeva lui, balbettava, Acqua, per favore, datemi dell'acqua, e l'acqua compariva sempre, infatti i colleghi stavano ormai in guardia e lo soccorrevano immediatamente. Era più che altro una faccenda di nervi, artur paz semedo non è mai arrivato a svenire del tutto. Come si vede, il soggetto in questione è un interessante esempio delle contraddizioni tra il volere e il potere. Amante appassionato delle armi da fuoco, non ha mai sparato un colpo, non è neanche un cacciatore della domenica, e l'esercito, a fronte delle sue evidenti carenze fisiche, nei ranghi non l'ha voluto. Se non lavorasse nella fabbrica di armamenti, è più che sicuro che oggi vivrebbe ancora, senz'altre aspirazioni, con la sua pacifista felícia. Non si pensi, tuttavia, che si tratta di un uomo infelice, amareggiato, scontento della vita. Al contrario. L'uscita di un film di guerra gli provoca una frenesia quasi infantile, mai del tutto ricompensata, questo è vero, giacché tutto quel che vede a lui pare poco, siano raffiche di mitragliatrice, combattimenti corpo a corpo, bombe da demolizione, carrarmati che sparano e schiacciano tutto ciò che trovano sulla strada, e persino qualche esemplare fucilazione di disertori. Per la verità, davanti al convulso e tumultuoso schermo, con il sonoro al massimo dei decibel, artur paz semedo è, almeno nello spirito, e scusate la contraddizione in termini, la perfetta incarnazione della dèa bellona. Quando non ci sono film bellici in proiezione nei cinema, ricorre alla sua varia collezione di video, la quale va dall'antico al recente, e il cui gioiello è la grande parata del millenovecentotrenta, con john gilbert, quel damerino con i baffi cui il sonoro distrusse la carriera, giacché aveva la voce acuta, quasi stridula, tipo un pessimo tenore leggero da operetta, tutt'altro che adatta a un eroe da cui ci si aspetta che sollevi un battaglione dalle trincee solo gridando All'attacco. La maggior parte dei film della collezione sono americani, sebbene ve ne siano pure alcuni francesi, giapponesi e russi, come nel caso di, rispettivamente, la grande illusione, ran e la corazzata potemkin. Anche così, la produzione di hollywood è maggioritaria nella collezione, dove balzano all'occhio, ad esempio, titoli come apocalypse now, il giorno più lungo, la sottile linea rossa, i cannoni di navarone, lettere da iwo jima, la battaglia di midway, trenta secondi su tokyo, patton, pearl harbor, la battaglia dei giganti, salvate il soldato ryan, full metal jacket. Un vero e proprio corso di stato maggiore.

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Pagina 79

Note dal diario
di José Saramago



15-8-2009

È possibile, chissà, che magari io scriva un altro libro. Una mia antica preoccupazione (perché non c'è mai stato uno sciopero in una fabbrica di armi) ha fatto strada a un'idea complementare che, proprio per questo, consentirà di trattare il tema a livello romanzesco. Non me lo aspettavo, ma è successo, mentre ero qui, seduto, a girarci intorno o mentre lei mi girava intorno. Il libro, se arriverà a essere scritto, si intitolerà Bellona, che è il nome della dea romana della guerra. L'aggancio per iniziare la storia ce l'ho già e ne ho parlato tante volte: quella bomba che non esplose nella Guerra civile di Spagna, come racconta André Malraux ne L'Espoir.


1-9-2009

La memoria mi ha ingannato, l'episodio non è ne L'Espoir. E neppure in Per chi suona la campana di Hemingway. L'ho letto da qualche parte, ma non ricordo dove. Per mia fortuna, Malraux fa un riferimento (brevissimo) nel suo libro a certi operai di Milano fucilati per aver sabotato degli obici. Al mio scopo è quanto basta.


2-9-2009

La difficoltà maggiore sta nel costruire una storia "umana" che funzioni. Un'idea sarebbe di far tornare felícia a casa quando si rende conto che il marito comincia a farsi trascinare dalla curiosità e da una certa inquietudine di spirito. Se ne andrà via di nuovo quando l'amministrazione "compra" il marito mettendolo a capo della contabilità di una sezione che si occupa di armi pesanti.


16-9-2009

Credo che potremo arrivare ad avere il libro. Il primo capitolo, rimescolato, non riscritto, è venuto bene, indicando già alcune direzioni per la famosa storia "umana". I personaggi di felícia e del marito appaiono abbastanza definiti.

Il libro terminerà con un sonoro Vai a cagare, proferito da lei. Una conclusione esemplare.


24-10-2009

Dopo un'interruzione dovuta al lancio di Caino e alle sue tempestose conseguenze, sono tornato a Bellona S.A. Ho corretto i primi tre capitoli (è incredibile come quello che prima sembrava buono non lo è più) e lascio qui la promessa di lavorare al nuovo libro con maggiore assiduità. Uscirà al pubblico l'anno prossimo se la vita non mi viene a mancare.


26-12-2009

Due mesi senza scrivere. Di questo passo il libro ci sarà nel 2020... Intanto, l'epigrafe sarà: Alabardas, alabardas, Espingardas, espingardas.

È di Gil Vicente, dalla tragicommedia Exortação da Guerra.

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Pagina 85

Anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo
di Roberto Saviano



"Di tutte le cose che poteva fare José Saramago morire è quella più inaspettata. Se conoscevi José proprio non lo mettevi in conto. Sì, certo, muoiono anche gli scrittori. Ma lui non ti dava proprio alcuna possibilità di pensare a un corpo stanco di vita, di respirare, di mangiare, di amare. Si era consumato negli ultimi anni, tra la carne e le ossa sembrava esserci sempre meno spessore, la sua pelle era sottile mantello che ricopriva il teschio. Ma diceva: 'Potessi decidere, io non me ne andrei mai'."

Scrissi queste parole quando seppi che José invece era andato via e per un po' mi rassegnai all'idea di una distanza che potevo ridurre solo rileggendo i suoi libri. Ora mi accorgo di non aver concesso vera fiducia alla sua ostinata volontà di tornare. Eccolo di nuovo qui di carne e sangue nelle pagine di questo nuovo libro.


[...]


Anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo. Non lavorava nei servizi di fatturazione di armamento leggero e munizioni della Bellona S.A. e non ha avuto una ex moglie pacifista. Non viveva in Italia. Probabilmente non ha mai preso in mano una pistola, figuriamoci se ha mai pensato di sparare un colpo. Ma anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo e il suo nome era Tim Lopes. La sua arma era la passione. Una bruciante passione.

Tim Lopes nasce in una favela di Rio. Con un'idea, un talento e un problema. L'idea era che scrivere dei problemi che affliggevano il Brasile e farli conoscere al mondo fosse il primo passo per risollevare il paese. Il talento era la sua capacità di stanare le storie migliori dagli angoli delle strade e riportarle alla luce. Il problema era il nome. "Te la immagini la faccia del lettore quando vede in fondo all'articolo Arcanjo Antonino Lopes do Nascimento? Come minimo scoppia a ridere e passa all'oroscopo," gli disse un giorno il suo primo editore. Del cognome conservò solo Lopes, per il nome ci pensò la sua somiglianza con il cantante Tim Maia. Negli anni novanta comincia a inanellare premi per i suoi reportage. Tim si traveste, assume false identità, introduce microcamere nascoste nei vicoli più pericolosi di Rio. Parla con tutti, senza mai perdere il sorriso e la passione febbricitante per le cose belle della vita, come correre sul lungomare o ballare la samba. Da una parte ci sono il sole, le spiagge, il rumore delle onde. Dall'altra il nero del suo lavoro. Quel nero, anche se fai finta di niente, anche se hai un combustibile di indefessa moralità che ti spinge sempre avanti, alla fine ti corrode. I primi sintomi Tim li percepisce quella volta che si traveste da venditore ambulante di acqua e nasconde una microcamera nel frigo portatile. Vuole riprendere le gang di strada che braccano i passanti. Succede tutto in un lampo. Un ragazzino avvicina una coppia, estrae un coltello, un tassista che si accorge della rapina tira fuori una pistola e si mette a sparare per spaventarlo e farlo scappare, il ragazzino si invola nel traffico ma non riesce a evitare un autobus che lo prende in pieno.

Tim filma tutto quanto, inebetito, e quella domanda che tutti i giornalisti a un certo punto si fanno e che in passato lo aveva solamente sfiorato diventa un assillo: ne vale la pena? Tutto questo rischio per cosa? Gli abitanti delle favelas vivono forse meglio dopo tutti i miei reportage?

Sente il bisogno di andarsene, Tim, ritirarsi in qualche posto sperduto a pensare. Per una volta fregarsene dei problemi che nemmeno lo Stato riesce a risolvere. Ma riceve un grido di aiuto. Gli abitanti della favela Vila Cruzeiro, sotto il giogo del Comando Vermelho, non sanno più di chi fidarsi. Chi sono i buoni? Chi sono i cattivi? Di certo quelli del Comando non sono buoni, e lo stesso si può dire della polizia, inerte o spesso corrotta e connivente con i gruppi criminali. Rimane Tim. Lui è buono. Di lui ci si può fidare, anche se, come dicono quelli della favela, appartiene "all'asfalto", cioè vive dove le strade sono appunto asfaltate, non come lì a Vila Cruzeiro dove tutto è sconnesso e bisogna fare lo slalom tra le pietre. Il comportamento dei trafficanti di Vila Cruzeiro è ormai intollerabile. Passi per lo spaccio alla luce del sole che ormai è triste consuetudine, ma quelli del Comando hanno messo gli occhi sulle ragazze minorenni della favela. Chi si rifiuta di fare sesso con loro durante le feste funk la pagherà cara. Tim deve documentare le barbare usanze del Comando e spiattellarle all'opinione pubblica. Sceglie la tecnica ormai collaudata: individua una boca de fumo, si assicura di non avere con sé oggetti come cellulare e documenti che potrebbero identificarlo nel caso qualcuno si insospettisse (ormai a Rio è un volto noto e deve proteggersi anche dalla fama) e si munisce della solita microcamera che camuffa nella cintura. Ma quella sera proprio le precauzioni e il curriculum tradiscono Tim.

André da Cruz Barbosa detto "André Capeta" ("Diavolo") e Maurício de Lima Bastos "o Boizinho" ("Il piccolo bue"), due del Comando, si avvicinano a quello strano tipo appoggiato al bancone del bar.

"Che cazzo è quella luce?"

"Sono un giornalista, posso spiegare."

Ma senza documento come possono credergli? E anche se gli credessero, Tim rimarrebbe sempre un maledetto infame. Meglio condurlo dal capo, da Elias Pereria da Silva, detto "Maluco" ("Il pazzo"). Il Pazzo si trova a Grota, la stessa favela che Tim aveva portato alla ribalta in uno dei suoi reportage più famosi, che, oltre a ottenere i consueti premi, si era rivelato fondamentale per l'arresto di diversi narcos. Il Pazzo avrà pensato a un dono del cielo quando ha visto arrivare i due scagnozzi che trascinavano il giornalista ficcanaso.

Quello che segue è un elenco di torture e umiliazioni dopo un processo farsa improvvisato su una collina abbandonata del Complexo do Alemão. Il "tribunale criminale" dei narcos si riunisce per deliberare una decisione già presa: Tim deve morire. Per quelli del Comando è una spia e c'è un rituale preciso da seguire per le spie. I preliminari possono variare molto – nel caso di Tim furono usate sigarette per bruciargli gli occhi e una spada ninja per mutilarlo – ma il finale è sempre uno: il microonde. È un cilindro composto da pneumatici impilati al cui centro viene infilata la vittima. Poi la si innaffia con la benzina e si dà fuoco. Una pira narcos. Di Tim Lopes sappiamo tutto, o quasi. Purtroppo non sapremo mai che cosa si nasconde nelle scaffalature cariche di scatole di cartone che Artur Paz Semedo guarda preoccupato. La verità o la punizione per avere osato troppo?


Anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo. Non lavorava nei servizi di fatturazione di armamento leggero e munizioni della Bellona S.A. e non ha avuto una ex moglie pacifista. Non viveva in Italia. Probabilmente non ha mai preso in mano una pistola, figuriamoci se ha mai pensato di sparare un colpo. Ma anch'io ho conosciuto Artur Paz Semedo e il suo nome era Rodolfo Rincón Taracena, il suo nome era Valentin Valdés Espinosa, il suo nome era Luis Horacio Nájera, il suo nome era Alfredo Corchado. Il suo nome era un settimanale di Tijuana: "Zeta". L'arma? Il senso del dovere.

È senso del dovere quando ami di un amore infuocato il tuo mestiere e davanti a un aut aut scegli secondo coscienza. Da una parte la vita protetta da un silenzio imposto, dall'altra la morte preceduta da un ultimo grido di verità.

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