Copertina
Autore José Saramago
Titolo Lucernario
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2012, I Narratori , pag. 326, cop.fle., dim. 14x22x2,2 cm , Isbn 978-88-07-01886-2
OriginaleClaraboia [2011]
TraduttoreRita Desti
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe narrativa portoghese
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Pagina 17

1



Tra i veli oscillanti che popolavano il suo sonno, Silvestre cominciò a udire rumori di stoviglie e avrebbe quasi giurato che dalle trame larghe dei veli trasparissero dei chiarori. Stava per irritarsi, ma all'improvviso si rese conto che si stava svegliando. Strizzò gli occhi più volte, sbadigliò e rimase immobile, mentre sentiva il sonno allontanarsi lentamente. Con mossa rapida si sedette sul letto. Si stiracchiò, facendo schioccare le articolazioni irrigidite delle braccia. Sotto la maglia, i muscoli del dorso si tesero e vibrarono. Aveva il torace robusto, le braccia grosse e dure, le scapole ricoperte da muscoli incordati. Aveva bisogno di quei muscoli per il suo mestiere di calzolaio. Le mani, le aveva come pietrificate, la pelle delle palme tanto ispessita che avrebbe potuto anche infilarci un ago, senza sanguinare.

Con un movimento di rotazione più lento tirò le gambe fuori dal letto. Le cosce magre e le rotule imbianchite dalla frizione dei calzoni che gli diradava i peli rattristavano e avvilivano profondamente Silvestre. Era orgoglioso del suo torace, senza dubbio, ma quelle gambe gli facevano rabbia, tanto gracili che non parevano neppure appartenergli.

Contemplando sconfortato i piedi scalzi poggiati sul tappeto, Silvestre si grattò il capo brizzolato. Poi si passò la mano sul viso, tastando le ossa e la barba. Controvoglia si alzò e fece qualche passo in camera da letto. Aveva un aspetto un po' donchisciottesco, appollaiato su quelle gambe lunghe come trampoli, in mutande e maglia, il ciuffo di capelli sale e pepe, il naso grande e adunco, e quel torace possente che le gambe sorreggevano a stento.

Cercò i calzoni e non li trovò. Allungò il collo verso la porta, urlò:

– Mariana! Ehi, Mariana! Dove sono i miei calzoni?

(Voce da dentro:)

– Ora vengo!

Dal modo di camminare s'indovinava che Mariana era grassa e non poteva arrivare in fretta. Silvestre dovette aspettare un bel pezzo e aspettò con pazienza. La moglie comparve sulla soglia:

– Eccoli qui.

Aveva i calzoni ripiegati sul braccio destro, un braccio più grosso delle gambe di Silvestre. E aggiunse:

– Non so cosa ci fai con i bottoni dei calzoni, che spariscono tutte le settimane. Mi sa che dovrò cucirli con il fil di ferro...

La voce di Mariana era grassa come la sua padrona. E franca e benevola proprio come i suoi occhi. Era lungi dal pensare di aver detto una spiritosaggine, ma il marito sorrise con tutte le rughe che aveva sul viso e i pochi denti che gli restavano. Prese i calzoni, se li infilò sotto lo sguardo compiaciuto della moglie e si ritenne soddisfatto, ora che gli abiti rendevano il suo corpo più proporzionato e regolare. Silvestre era tanto orgoglioso del proprio corpo quanto Mariana distaccata da ciò che la Natura le aveva dato. Nessuno dei due si faceva illusioni sull'altro e sapevano bene che il fuoco della gioventù si era spento per sempre, ma si amavano teneramente, proprio come trent'anni prima, quando si erano sposati. Oggi il loro amore era forse più grande, perché non si nutriva più di perfezioni reali o immaginate.

Silvestre seguì la moglie in cucina. S'infilò nel bagno e ne uscì dieci minuti dopo, lavato. Non si era pettinato perché era impossibile domare quella chioma che gli dominava (proprio così, dominava) il capo – quella "ramazza da barca", come diceva Mariana.

Le due tazze di caffè erano lì sul tavolo fumanti e in cucina c'era un odore buono e fresco di pulito. Le guance rotonde di Mariana risplendevano e tutto il suo corpo obeso tremolava e si agitava muovendosi tra i fornelli.

– Sei sempre più grassa, moglie!...

E Silvestre rise. Anche Mariana rise. Né più né meno che due ragazzini. Si sedettero a tavola. Bevvero il caffè caldo a lunghe sorsate rumorose, come un gioco. Ciascuno voleva superare l'altro nel risucchio.

– Allora, che decidiamo?

Ora Silvestre non rideva più. Anche Mariana si era accigliata. Persino le sue guance sembravano meno imporporate.

– Io non lo so. Sei tu che decidi.

– Te l'ho già detto ieri. Le suole sono sempre più care. I clienti si lamentano che chiedo troppo. Sono le suole... Certo è che non posso fare miracoli. Vorrei proprio sapere se c'è qualcuno più economico di me. Eppure si lamentano...

Mariana interruppe quel suo sfogo. Di quel passo non avrebbero risolto niente. Piuttosto, bisognava vedere quella faccenda dell'inquilino.

– In effetti, ci farebbe comodo. Ci aiuterebbe a pagare l'affitto e, se fosse un uomo solo e tu volessi occuparti della biancheria, potremmo far quadrare i conti.

Mariana si scolò le ultime gocce di caffè zuccherato in fondo alla tazza e rispose:

– Per me, non è un problema. Θ sempre qualcosa in più...

– Infatti. Ma ritrovarci di nuovo con degli inquilini, dopo che ci eravamo liberati di quella tizia che se n'è andata...

– Che si può fare? Se è una brava persona... Io mi trovo bene con tutti, se si trovano bene con me.

– Ci si riprova... Un uomo solo, che venga solo a dormire, sarebbe la cosa migliore. Poi, nel pomeriggio, andrò a mettere l'annuncio. – Ancora masticando l'ultimo boccone di pane, Silvestre si alzò e dichiarò: – Bene, vado a lavorare.

Rientrò in camera da letto e si avvicinò alla finestra. Scostò la tenda che fungeva da paravento che lo isolava dalla stanza. C'era una pedana alta e, sopra, il banco di lavoro. Lesine, forme, pezzi di filo, barattoli di chiodi, ritagli di cuoio e pelle. In un angolo, il pacchetto di tabacco francese e i fiammiferi.

Silvestre aprì la finestra e diede un'occhiata fuori. Niente di nuovo. Per strada passava poca gente. Non molto lontano, una donna offriva a squarciagola le sue fave secche. Silvestre non capiva come faceva quella donna a sopravvivere. Non conosceva nessuno che mangiasse fave secche, e lui stesso non le assaggiava da più di vent'anni. Altri tempi, altri usi, altri sapori. Concluso così l'argomento in poche parole, si sedette. Aprì il pacchetto, pescò le cartine nella baraonda di oggetti che sovraccaricavano il banco e si fece una sigaretta. L'accese, si gustò una boccata di fumo e si mise al lavoro. Aveva delle tomaie da mettere, un lavoro in cui applicava sempre tutto il suo sapere.

Di tanto in tanto lanciava uno sguardo alla strada. Il mattino cominciava pian piano a rischiararsi, anche se il cielo era coperto e nell'aria un impercettibile velo di nebbia sfumava i contorni delle cose e delle persone.

Nella molteplicità dei rumori che ormai popolava il palazzo, Silvestre cominciò a distinguere un picchiettio di tacchi sui gradini della scala. Li identificò immediatamente. Aprì la porta che dava sulla strada e si affacciò:

– Buongiorno, signorina Adriana!

– Buongiorno, signor Silvestre.

La giovane si fermò sotto la finestra. Era piuttosto bassa e portava un paio di occhiali dalle spesse lenti che le trasformavano gli occhi in due palline minuscole e inquiete. Era a metà strada fra i trenta e i quarant'anni, e già qualche capello bianco le striava la pettinatura semplice.

– Allora, al lavoro, eh?

– Eh, sì. Arrivederci, signor Silvestre.

Era così tutte le mattine. Quando Adriana usciva di casa il calzolaio era già lì alla finestra del piano terra. Impossibile sgusciare via senza vedere quella capigliatura arruffata e senza udire e ricambiare gli inevitabili saluti. Silvestre la seguì con lo sguardo. Vista da lontano pareva, nell'accostamento pittoresco del calzolaio, un "sacco di patate". Giunta all'angolo della strada, Adriana si voltò e accennò un saluto verso il secondo piano. Poi scomparve.

Silvestre posò la scarpa e girò la testa verso la finestra. Non era un pettegolo, ma le vicine del secondo piano gli piacevano, buone clienti e belle persone. Con la voce alterata per la torsione del collo, salutò:

– Salve, signorina Isaura! Come va il tempo, oggi?

Dal secondo piano, attutita dalla distanza, giunse la risposta:

– Non c'è male, no. La nebbia...

Non si riuscì a sapere se la nebbia pregiudicasse, o meno, la bellezza del mattino. Isaura mise fine al dialogo e chiuse la finestra lentamente. Non è che il calzolaio non le piacesse, con quella sua aria riflessiva e, insieme, allegra, ma quel mattino non era in vena di chiacchiere. Aveva un mucchio di camicie da finire entro la settimana. Sabato doveva consegnarle, a ogni costo. Fosse stato per lei, avrebbe finito di leggere il romanzo. Le mancava solo una cinquantina di pagine ed era nel punto più interessante. Quegli amori clandestini, portati avanti tra mille peripezie e contrarietà, l'avvincevano. Il romanzo, poi, era ben scritto. Isaura era una lettrice abbastanza esperta per giudicarlo. Esitò. Ma sapeva benissimo di non avere neppure il diritto di esitare. Le camicie l'aspettavano. Udiva un rumore di voci provenire dall'interno: la madre e la zia stavano parlando. Parlavano tanto quelle due donne. Cosa avevano mai da dirsi tutto il santo giorno, che non fosse già stato detto mille volte?

Attraversò la camera dove dormiva con la sorella. Il romanzo era lì sul comodino. Gli lanciò uno sguardo vorace, ma proseguì. Si fermò davanti allo specchio dell'armadio che la rifletteva da capo a piedi. Aveva indosso un grembiule da casa che le modellava il corpo snello e magro, ma flessuoso ed elegante. Con la punta delle dita si sfiorò le guance pallide su cui le prime rughe aprivano dei solchi sottili, più immaginati che visibili. Sospirò all'immagine che lo specchio le mostrava e ne sfuggì.

In cucina, le due vecchie continuavano a parlare. Molto simili, i capelli tutti bianchi, gli occhi castani, gli stessi vestiti neri di fattura semplice, parlavano con voci acute e rapide, senza pause e senza intonazioni:

– Te l'ho già detto. Il carbone è pieno di terra. Bisogna andare a reclamare dal carbonaio – diceva una.

– Va bene – rispondeva l'altra.

– Di che parlate? – domandò Isaura mentre entrava.

Una delle vecchie, quella con lo sguardo più vivace e il capo più eretto, rispose:

– E il carbone che fa pena. Bisogna reclamare.

– Va bene, zia.

Zia Amélia era, per così dire, l'economa di casa. Era lei che cucinava, faceva i conti e distribuiva le razioni nei piatti. Candida, la madre di Isaura e Adriana, si occupava delle faccende domestiche, della biancheria, dei centrini che ornavano a profusione i mobili e dei vasi con fiori di carta che nei giorni di festa venivano sostituiti con fiori veri. Candida era la maggiore e, proprio come Amélia, vedova. Due vedove che la vecchiaia aveva ormai pacificato.

Isaura si sedette alla macchina per cucire. Prima di cominciare il lavoro, guardò il fiume che si stendeva ampio, con l'altra sponda occultata dalla nebbia. Pareva l'oceano. I tetti e i comignoli rovinavano l'illusione, ma, sforzandosi di non vederli, l'oceano sorgeva comunque nei pochi chilometri di acqua. L'alta ciminiera di una fabbrica, a sinistra, macchiava il cielo bianco con sbuffi di fumo.

A Isaura piacevano sempre quei momenti in cui, prima di chinare il capo sulla macchina, lasciava vagare gli occhi e il pensiero. Il paesaggio era sempre uguale, ma lei lo trovava monotono solo in quei giorni d'estate ostinatamente azzurri e luminosi in cui tutto è evidente e definito. Una mattina di nebbia come quella, di una nebbia sottile che non impediva del tutto la visuale, copriva la città di imprecisioni e sogni. Isaura si gustava tutto questo. Prolungava il piacere. Sul fiume stava scivolando un'imbarcazione, soavemente, come se fluttuasse su una nuvola. La vela rossa sembrava rosata attraverso le garze della nebbia. All'improvviso s'immerse in una nuvola più spessa che lambiva l'acqua e, nel momento in cui stava per riemergere negli occhi di Isaura, scomparve dietro il pignone di un edificio.

Isaura sospirò. Era íl secondo sospiro quel mattino. Scosse il capo come chi riaffiori da un'immersione prolungata e la macchina prese a ticchettare con furia. Il tessuto correva sotto il piedino e le dita lo guidavano meccanicamente come se facessero parte dell'ingranaggio. Rintronata dal rumore, parve a Isaura che qualcuno le parlasse. Bloccò la ruota bruscamente e il silenzio refluì.

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Sul banco c'erano delle scarpe sfondate che reclamavano di essere riparate, ma Silvestre finse di non vederle e prese il giornale. Lo leggeva dalla prima all'ultima riga, dall'articolo di fondo ai disordini e alla cronaca nera. Si teneva aggiornato sugli avvenimenti internazionali, ne seguiva l'evoluzione e faceva le sue previsioni. Quando sbagliava, quando, se aveva previsto bianco, veniva fuori nero, dava la colpa al giornale, che non pubblica mai le cose importanti, che travisa o dimentica le notizie, lo sa il diavolo con quali intenzioni! Oggi, il giornale non era né meglio né peggio del solito, ma Silvestre non riuscì a sopportarlo. Di tanto in tanto, guardava l'orologio, impaziente. Si prendeva in giro da solo e tornava al giornale. Cercò di interessarsi alla situazione politica della Francia e alla guerra in Indocina, ma gli occhi scivolavano sulle righe stampate e il cervello non coglieva il senso delle parole. Posò il giornale, bruscamente, e chiamò la moglie.

Mariana comparve sulla porta, quasi ostruendola con la sua mole. Si stava pulendo le mani, aveva appena finito di rigovernare.

– Quell'orologio va bene? – domandò il marito.

Con una lentezza snervante, Mariana valutò la posizione delle lancette:

– Credo di sì...

– Uhm...

La moglie aspettò che lui dicesse qualcosa, visto che quel borbottio non aveva apparentemente alcun significato. Silvestre prese il giornale, questa volta con rabbia. Si sentiva osservato e si rendeva conto che la sua ansia era anche un po' ridicola o, quantomeno, un po' puerile:

– Stai tranquillo, il ragazzo ora viene... – sorrise Mariana. Silvestre alzò la testa, bruscamente:

— Quale ragazzo? Questa poi! Me ne importa assai di quel ragazzo...

– Allora perché sei così nervoso?

– Nervoso, io? Questa è bella!

Il sorriso di Mariana era adesso più palese e più divertito. Silvestre si riprese, rendendosi conto che la sua indignazione era eccessiva e priva di un motivo che la giustificasse, e sorrise pure lui:

– Quel diavolo di un ragazzo!... Mi ha stregato!

– Via, via, ti ha stregato!... Ti ha preso nel punto debole, la partitina a dama... Sei perduto! – e tornò in cucina, a stirare un po' del bucato.

Il calzolaio si strinse nelle spalle, armato di buone intenzioni, guardò ancora una volta l'orologio e si arrotolò una sigaretta per ingannare l'attesa. Passò mezz'ora. Erano quasi le dieci. Silvestre pensava ormai di non poter fare altro che mettere mano alle scarpe quando suonò il campanello. La porta della sala da pranzo, dov'era lui, dava sul corridoio. Prese il giornale, assunse un'espressione concentrata, si finse indifferente a chi entrava. Ma, in cuor suo, sorrideva di contentezza. Abel passò nel corridoio:

– Buonasera, signor Silvestre – e proseguì nel corridoio, verso la sua camera.

– Buonasera, signor Abel – rispose Silvestre, e immediatamente mollò, ancora una volta, il travagliato giornale e corse a preparare la vecchia scacchiera.

Abel, subito dopo essere entrato in camera, si mise in libertà. Infilò un paio di vecchi calzoni, sostituì le scarpe con dei sandali e si tolse la giacca. Aprì la valigia in cui teneva i libri, ne scelse uno che posò sul letto e si preparò per lavorare. Nessun altro lo avrebbe definito lavoro, ma era così che Abel lo considerava. Aveva davanti a sé il secondo volume di una traduzione francese de I fratelli Karamazov, che stava rileggendo per approfondire alcuni giudizi scaturiti da una prima lettura. Prima di sedersi, cercò il tabacco. Non lo trovò. Lo aveva fumato tutto e si era dimenticato di comprarlo. Uscì dalla camera, pronto a bagnarsi di nuovo pur di non rimanere senza. Passando davanti alla porta della sala da pranzo, sentì Silvestre che gli domandava:

– Sta uscendo, signor Abel?

Sorrise e gli spiegò:

– Non ho più tabacco. Faccio un salto in trattoria a vedere se ne hanno.

– Ne ho io. Ma non so se le piace. Θ tabacco sfuso...

Abel non fece complimenti:

– Per me, va bene qualsiasi cosa. Sono abituato a tutto.

– Prego, prego! – esclamò Silvestre, allungandogli il tabacco e il pacchetto delle cartine.

Quel movimento lasciò vedere la scacchiera che fino ad allora aveva nascosto. Abel lanciò una rapida occhiata al calzolaio e colse nei suoi occhi un velo di amarezza. Arrotolò prontamente una sigaretta sotto lo sguardo critico di Silvestre e l'accese. Per orgoglio il calzolaio cercava, ora, di nascondere la scacchiera con il corpo. Abel vide che la fruttiera di vetro, solitamente al centro del tavolo, era stata spostata da un lato e che davanti al posto di Silvestre c'era una sedia vuota. Capì che la sedia era destinata a lui. Mormorò:

– Avrei voglia di una partitina. Le andrebbe, signor Silvestre?

Il calzolaio sentì un formicolio sulla punta del naso, indubbio segnale di commozione. In quel momento, ebbe la certezza di essere ormai diventato molto amico di Abel, senza saperne bene il motivo. Rispose:

– Stavo quasi per proporglielo...

Abel andò in camera, posò il libro e tornò da Silvestre.

I1 calzolaio aveva già disposto le pedine e posizionato il posacenere in modo che Abel ci arrivasse agevolmente, era stato quasi sul punto di spostare il tavolo così che la luce, proveniente dal soffitto, non trovasse sul suo cammino ostacoli che creassero ombre sulla scacchiera.

Cominciarono a giocare. Silvestre era raggiante. Abel, meno eloquente, rifletteva la contentezza dell'altro, ma continuava a osservarlo con attenzione.

Mariana finì quel che aveva da fare e se ne andò a letto. Loro due si trattennero. Verso mezzanotte, terminando una partita in cui era stato particolarmente sfortunato, Abel dichiarò:

— Per oggi, basta! Lei gioca molto meglio di me, signor Silvestre! Come lezione, per ora è sufficiente!...

Silvestre accennò una smorfia di delusione, ma non si spinse oltre. Riconobbe che la partita era durata abbastanza, che era il caso di smettere. Abel prese il tabacco, si preparò un'altra sigaretta e, mentre rimirava la stanza in cui si trovavano, domandò:

— Abita qui da molto tempo, signor Silvestre?

— Da vent'anni buoni. Sono l'inquilino più antico del palazzo.

— Quindi, conosce tutti gli altri inquilini ovviamente?!...

— Certo, certo.

— Θ brava gente?

— Alcuni migliori, altri peggiori. Come ovunque, in fin dei conti...

— Sì, come ovunque.

Distrattamente, Abel cominciò a impilare le pedine, alternando le bianche e le nere. Poi, disfece la pila e domandò:

— Questo qui accanto, a quanto pare, non è dei migliori?

— Non è un uomo cattivo. Taciturno... A me non piacciono gli uomini taciturni, ma questo non è cattivo. Θ lei che è una vipera. E galiziana, per giunta...

— Galiziana? Ma che c'entra?

— Silvestre si pentì del tono dispregiativo con cui aveva pronunciato quella parola:

— Si fa per dire. Ma lei conoscerà quel detto: "Con Spagna nozze e venti son sempre patimenti...".

— Ah, sì! Le sembra, quindi, che non vadano d'accordo?...

— Ne ho la certezza. Lui si sente appena, ma lei urla come una paz..., cioè, parla a voce molto alta...

Il giovane sorrise all'imbarazzo di Silvestre e alla sua cautela nella scelta della terminologia:

— E gli altri?

— Al primo piano a sinistra abita della gente che non capisco. Lui lavora al "Notícias" ed è uno zoticone. Scusi, ma è proprio così. Lei, poverina, da quando la conosco sembra che stia per morire. Ogni giorno che passa è più sciupata...

— Θ malata?

— Θ diabetica. Θ quello che ha detto alla mia Mariana. Ma lì, o io mi sbaglio della grossa, o è tubercolosi garantita. La figlia è già morta di meningite. Da allora, pare che la madre sia invecchiata di trent'anni. Deve essere gente infelice, secondo me. Lei... Quanto a lui, l'ho già detto, è una bestia. Gli risuolo le scarpe perché ho bisogno di guadagnarmi da vivere, ma avrei voglia...

— E dall'altro lato?

Silvestre accennò un sorriso malizioso: credette di capire che l'interesse dell'ospite per i vicini era un pretesto per sapere "qualcosa" della vicina di sopra. Ma restò di stucco quando lo udì soggiungere:

– Be', quella già lo so. E quelli dell'ultimo piano?

Il calzolaio pensò che fosse una curiosità eccessiva. Eppure Abel, anche se faceva domande, non sembrava molto interessato...

– All'ultimo piano... A destra abita un tipo che mi fa incavolare. Anche rovesciandolo a gambe all'aria non ne uscirebbe fuori un centesimo, eppure, a guardarlo, la gente lo prenderebbe per... un capitalista...

– A quanto pare, signor Silvestre, i capitalisti non le piacciono – sorrise Abel.

La diffidenza fece fare marcia indietro a Silvestre. Articolò, lentamente:

– Non mi piacciono... né mi dispiacciono... Si fa per dire... Abel non diede mostra di aver sentito:

– E il resto della famiglia?

– La moglie è una scema. Il mio Anselmo qui, il mio Anselmo lì... La figlia, a mio modesto modo di vedere, procurerà un bel po' di grattacapi ai genitori. E siccome loro sbavano per lei, peggio...

– Quanti anni ha?

– Sarà sulla ventina. Nel palazzo la chiamano Claudinha. Speriamo che mi sbagli...

– E dall'altro lato?

– Dall'altro lato abitano quattro signore. Gente di tutto rispetto. Pare che in passato fossero benestanti. Poi, dei rovesci... Persone educate. Non le trovi mai sui pianerottoli a parlare male degli altri, e già questo è da ammirare. Riservate...

Abel si concentrava ora a disporre le pedine sulla scacchiera. Siccome il calzolaio aveva smesso di parlare, alzò gli occhi su di lui, in attesa. Ma Silvestre non era disposto ad aggiungere altro. Gli pareva che avessero un secondo fine quelle domande dell'inquilino e, sebbene in ciò che aveva detto non ci fosse nulla di compromettente, si era già pentito di aver parlato tanto. Gli tornavano in mente i suoi primi sospetti e si biasimava per la sua buonafede. L'osservazione di Abel sui capitalisti gli pareva capziosa e piena di trappole.

Il silenzio disturbava Silvestre e questo lo preoccupava, tanto più che l'inquilino appariva perfettamente a suo agio. Le pedine erano adesso allineate su tutta la lunghezza del tavolo, come passatoie sulla corrente di un fiume. La puerilità del passatempo irritava Silvestre. Quando il silenzio era ormai divenuto insopportabile, Abel radunò le pedine sulla scacchiera con una precisione snervante e, di colpo, sparò una domanda:

– Perché, signor Silvestre, non ha preso informazioni su di me?

La domanda era così in sintonia con i pensieri di Silvestre che questi, per qualche istante, rimase lì sbalordito e senza risposta. Per guadagnare tempo non trovò di meglio che prendere da una credenza due bicchieri e una bottiglia e domandare:

– Le piace la ginja?

– Sì.

– Con le amarene o senza?

– Con.

Mentre meditava sulla risposta, riempiva i bicchieri, ma siccome l'estrazione delle amarene catturava tutta la sua attenzione arrivò alla fine dell'operazione senza sapere cosa rispondere. Abel annusò la grappa e disse innocentemente:

– Non ha ancora risposto alla mia domanda...

– Ah! La sua domanda!... – Il disorientamento di Silvestre era evidente. – Non sono andato a informarmi perché ho pensato... perché ho pensato che non fosse necessario... Diede a queste parole un'intonazione tale che un orecchio attento avrebbe capito che insinuava un sospetto. Abel lo capì:

– E lo pensa ancora?

Sentendo che stava per ritrovarsi con le spalle al muro, Silvestre tentò di passare all'attacco:

– Sembra che lei, signor Abel, indovini i pensieri altrui...

– Ho l'abitudine di ascoltare tutte le parole che mi vengono dette e prestare attenzione al modo in cui sono pronunciate. Non è difficile... Insomma, è vero o no, che diffida di me?

– Ma perché dovrei diffidare di lei?

– Sto aspettando che me lo dica. Le ho dato un'opportunità di sapere chi sono. Non ha voluto coglierla... – Bevve la grappa, fece uno schiocco con la lingua e domandò, con gli occhi ridenti fissi su Silvestre: – O preferisce che sia io a dirglielo?

Di colpo ridestata la curiosità, Silvestre non poté reprimere il movimento in avanti che la manifestò. Con la stessa aria maliziosa, Abel sparò una nuova domanda:

– Ma chi le dice che non la ingannerò?

Il calzolaio si sentì come deve sentirsi il topo fra le zampe del gatto. Gli venne voglia di "mettere il giovane al suo posto", ma poi gli passò e non seppe cosa dire. Come se non si aspettasse risposta né all'una né all'altra delle domande, Abel cominciò:

— Lei mi piace, signor Silvestre. Mi piacciono la sua casa e sua moglie e qui mi sento bene. Forse non mi fermerò a lungo, ma quando me ne andrò porterò via con me dei bei ricordi. Ho notato sin dal primo giorno che lei, amico mio... Mi permette di chiamarla così?

Silvestre, occupato a spremere l'amarena tra la lingua e i denti, annuì con il capo.

– Grazie – rispose Abel. – Ho notato una certa diffidenza in lei, soprattutto nei suoi sguardi. Comunque sia, mi pare opportuno dirle chi sono. E pur vero che, insieme alla diffidenza, c'era, come dire?, c'era una cordialità che mi ha colpito. Le vedo ancora adesso, questa cordialità, e questa diffidenza...

L'espressione fisionomica di Silvestre si trasformò. Passò per la cordialità e la diffidenza senza che si confondessero, e finì per tornare alla prima. Abel assistette a questo leva e metti di maschere, con un sorriso divertito:

– Ecco, appunto. Θ come le dicevo... Quando avrò finito la mia storia, spero di vedere solo cordialità. Ora gliela racconto. Mi permette di prendere un altro po' del suo tabacco?

Silvestre non aveva più l'amarena in bocca, ma non trovò necessario rispondere. Si sentiva un tantino offeso da quella spigliatezza del giovane e temeva di essere aggressivo se gli avesse risposto.

– Θ una storia un po' lunga – cominciò Abel, dopo essersi acceso la sigaretta – ma gliela farò breve.

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Gaetano Cunha, in virtù della professione che esercitava, aveva una vita che assomigliava un po' a quella dei pipistrelli. Lavorava mentre gli altri dormivano e quando lui riposava, con le finestre e gli occhi chiusi, gli altri andavano a lavorare alla luce del sole. Questo fatto gli dava la misura della sua importanza. Era fermamente convinto di valere più della gente comune e per vari motivi, non ultimo questa vita notturna, attaccato alla linotype mentre la città dormiva.

Quando, ancora buio, usciva dal giornale e vedeva le strade deserte che brillavano per l'umidità che le ore notturne trasportavano dal fiume, si sentiva felice. Gli piaceva, prima di andare a casa, girovagare per le strade silenziose dove passavano sagome femminili. Sia pure stanco, si fermava a parlare. Se poi gli andava qualcos'altro, si lasciava trasportare, ma, in mancanza del resto, parlare gli bastava.

A Gaetano piacevano le donne, tutte le donne. La semplice vista di una gonna ondeggiante lo turbava. Sentiva un'attrazione irresistibile per le donne dai facili costumi. Il vizio, la dissolutezza, l'amore a pagamento lo affascinavano. Conosceva quasi tutte le case di meretricio della città, sapeva a memoria le tariffe, poteva ben sciorinare (e nel suo intimo se ne vantava), senza bisogno di inventare, i nomi di varie decine di donne con cui era stato.

Fra tutte le donne, una sola ne disdegnava: la sua. Justina era per lui un essere asessuato, senza bisogni né desideri. Quando, a letto, casualmente lei lo sfiorava, si scansava con ripugnanza, infastidito dalla sua magrezza, dalle sue ossa puntute, dalla pelle eccessivamente secca, quasi incartapecorita. "Questa non è una donna, è una mummia," pensava.

Justina gli leggeva il disprezzo negli occhi e taceva. Dentro di lei, il fuoco del desiderio si era spento. Ricambiava il disprezzo del marito con un disprezzo maggiore. Sapeva di essere tradita e non gliene importava, ma non tollerava che lui sbandierasse dentro casa le sue conquiste. Non perché fosse gelosa, ma perché, consapevole di quanto fosse caduta in basso legandosi a un uomo così, non voleva scendere al suo livello. E quando Gaetano, trascinato dal temperamento esuberante e collerico, la trattava male con parole e paragoni, lo azzittiva con una semplice frase. Quella frase, per il carattere dongiovannesco di Gaetano, era un'umiliazione perché gli ricordava un fallimento sempre vivo nella carne e nello spirito. Un mucchio di volte, sentendola, aveva provato la tentazione di aggredire la moglie, ma Justina aveva in quei momenti un fuoco selvaggio negli occhi, una smorfia di disprezzo sulle labbra, e lui si sgonfiava.

Perciò, tra i due, il silenzio era la regola e la parola l'eccezione. Perciò, null'altro che sentimenti di gelo e sguardi distanti colmavano il vuoto delle ore passate insieme. E l'odore di stantio che invadeva la casa, quell'atmosfera da sotterraneo, era come l'odore delle tombe abbandonate.

Martedì era il giorno di riposo di Gaetano. Le ventiquattro ore gli davano modo di rincasare quand'era mattino inoltrato. Dormiva fino a metà pomeriggio e solo allora pranzava. Forse per via di questo cambiamento nell'ora del pranzo, forse per la prospettiva della notte seguente accanto alla moglie, i martedì erano i giorni in cui il malumore di Gaetano affiorava più di sovente, malgrado tutto l'impegno a contenerlo. In quei giorni, la riservatezza di Justina si accentuava, quasi si ripiegasse su se stessa. Abituato a quella distanza impossibile da superare, Gaetano si stupiva solo che potesse aumentare. Per rappresaglia, accentuava la villania dei gesti e delle parole, l'asprezza dei movimenti. Lo irritava soprattutto il fatto che la moglie scegliesse il martedì per arieggiare i vestiti della figlia e lavare accuratamente il vetro della cornice dove il ritratto di lei sorrideva in eterno. Gli pareva che quell'esibizione nascondesse una censura. Gaetano era certo di non avere nulla da rimproverarsi da quel punto di vista, ciononostante, quell'ostentazione di ricordi non lo disturbava di meno.

I martedì erano giorni funesti in casa di Gaetano Cunha. Giorni di nervosismo in cui Justina abbandonava il suo isolamento, quando costretta, per diventare violenta e aggressiva. Giorni in cui Gaetano temeva di aprire bocca perché le parole erano tutte cariche di elettricità. Giorni in cui un diavoletto maligno si compiaceva di rendere l'atmosfera irrespirabile.

Nel cielo erano state spazzate via le nuvole che lo coprivano la sera prima. Il sole entrava dai vetri della veranda e proiettava sul pavimento l'ombra della struttura di ferro come se fosse una grata. Gaetano aveva appena finito di pranzare. Guardò l'orologio e vide che erano quasi le quattro. Si alzò a fatica. Aveva l'abitudine di dormire sénza i pantaloni del pigiama. Il suo addome globoso tendeva la giacca larga sul davanti e gli conferiva l'aspetto di uno di quei pupazzi creati da Rafael Bordalo. Niente di più grottesco del suo ventre gonfio, ma niente di più sgradevole del suo viso arrossato, dall'espressione arcigna. Altrettanto inconsapevole dell'uno come degli altri, uscì dalla camera, attraversò la cucina e s'infilò in bagno senza rivolgere la parola alla moglie. Aprì la finestra e guardò il cielo. La luce intensa gli fece strizzare gli occhi come un uccello notturno. Osservò con indifferenza gli orti del vicinato, il gioco di tre gatti sopra un tetto e non rivolse neppure uno sguardo al volo flessuoso e puro di una rondine.

Gli occhi si fissavano invece su un punto assai vicino. Alla finestra di fronte, quella del bagno di Lídia, si agitava la manica di una vestaglia rosa. Di tanto in tanto si spostava e lasciava intravvedere un braccio fino al gomito. Appoggiato al davanzale, con la parte inferiore del corpo non visibile dall'esterno, Gaetano non staccava gli occhi dalla finestra. Quel che vedeva era poco, ma gli bastava per eccitarsi. Si sporse in avanti e incontrò lo sguardo della moglie che spiava ironicamente dai vetri della veranda. Il suo volto s'indurì di colpo. Sua moglie era lì davanti e gli porgeva un bollitore:

— L'acqua calda...

Non ringraziò. Richiuse la porta. Mentre si faceva la barba, spiava la finestra di Lídia. La vestaglia era sparita. Al suo posto, Gaetano incontrava sulla sua strada gli occhi della moglie. Sapeva che il modo migliore per evitare l'imminente tempesta era smettere di guardare e che questo gli sarebbe stato facile, visto che Lídia ormai non c'era più. Ma la tentazione era più forte della prudenza. A un certo punto, stufo dello spionaggio della moglie, aprì la porta e domandò:

— Non avete altro da fare?

Si davano del "voi". La moglie lo guardò senza rispondere e, senza rispondere, gli voltò le spalle. Gaetano sbatté la porta e si rimise a guardare. Quando uscì, ormai lavato e sbarbato, notò che la moglie aveva tirato fuori da una valigia in cucina dei vestitini che erano appartenuti a Matilde. Non fosse stato per l'adorazione che le traspariva dagli occhi, forse Gaetano sarebbe passato senza attaccare briga. Ma ancora una volta ebbe la sensazione che lei lo criticasse:

— Quando la smetterete di spiarmi?

Justina ci mise un po' a rispondere. Era come se stesse tornando lentamente da molto lontano, da un paese remoto in cui c'era solo un abitante.

— Ammiravo la vostra perseveranza — rispose freddamente.

— Perseveranza di che? — domandò lui, facendo un passo avanti.

Era ridicolo, con le gambe nude, in mutande. Justina lo guardò con espressione sarcastica. Sapeva di essere brutta e tutt'altro che attraente, ma vedendo il marito in quella tenuta le veniva voglia di ridergli in faccia:

— Volete che ve lo dica?

— Sì.

Gaetano perse la testa. Prima di questa parola avrebbe ancora potuto evitare lo schiaffo. Aveva detto quel "sì" e già se n'era pentito. Troppo tardi.

— Non avete ancora perso le speranze? Siete ancora convinto che finirà per cadervi fra le braccia? Non vi è bastata la vergogna che avete subìto? — Il mento di Gaetano fremeva per la collera. Le sue labbra sporgenti lasciavano uscire la saliva agli angoli della bocca. — Volete che l'amante venga di nuovo a chiedervi conto della vostra impudenza?

E con ironica affabilità, come se desse un consiglio:

— Un po' di decenza. Θ roba troppo fine per le vostre mani. Accontentatevi delle altre, quelle di cui tenete la foto nel portafoglio. Non c'è da vantarsene. Quando si fanno la foto per lo schedario, una la danno a voi, no? Siete più o meno come una succursale della polizia!...

Gaetano divenne livido. La moglie non era mai arrivata a tanto. Serrò i pugni e le si avvicinò:

— Uno di questi giorni vi rompo le ossa! Vi schiaccio sotto i piedi! Avete sentito? Non provocatemi!

— Non ne siete capace.

— Ah, figlia di... — e un epiteto volgare gli uscì dalle labbra. Justina rispose solo:

– Non è me che insultate. Θ voi stesso, che ormai vedete in tutte le donne ciò che avete appena detto.

Il pesante corpo di Gaetano barcollò come un antropoide. La furia, la collera impotente gli spingevano le parole sulla punta della lingua, dove poi però si ammucchiavano intralciandosi fra loro. Alzò il pugno serrato come se dovesse farlo piombare sul capo della moglie. Lei non si scansò. Il braccio si abbassò lentamente, sconfitto. Gli occhi di Justina sembravano due carboni ardenti. Gaetano, umiliato, scomparve in camera, sbattendo la porta.

Il gatto, che era stato lì a guardare i padroni con i suoi occhi glauchi, s'infilò nel corridoio buio e andò a sdraiarsi sullo zerbino, silenzioso e indifferente.

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26



Varie volte, da quando aveva cominciato a vivere liberamente, Abel si era domandato: "Perché?". La risposta era sempre la stessa e anche la più comoda: "Per niente". E se il pensiero insisteva: "Niente, no. Così non ne vale la pena", aggiungeva: "Mi lascio andare. Questo porterà pure da qualche parte".

Si rendeva conto che "questo", la sua vita, non sarebbe andata a finire da nessuna parte, che procedeva come gli avari che ammucchiano oro solo per il piacere di contemplarlo. Nel suo caso non si trattava di oro, ma di esperienza, unico beneficio della sua vita. Eppure l'esperienza, se non è messa a frutto, è come l'oro congelato: non produce, non rende, è inutile. E non serve a niente accumulare esperienza come se si collezionassero francobolli.

Le sue poche e male assimilate letture di filosofia, qua e là sui compendi scolastici e sugli opuscoli disseppelliti dalla polvere dei negozietti di libri usati della Calηada do Combro, gli permettevano di pensare e dire che desiderava conoscere il senso occulto della vita. Ma nei giorni di disincanto della sua esistenza gli era già capitato di riconoscere che un tale desiderio era un'utopia e che le molteplici esperienze servivano solo a infittire sempre più il velo che intendeva allontanare. La mancanza di concretezza della sua vita lo forzava, però, a rinsaldarsi in quel desiderio che ormai non era più un desiderio, ma si era trasformato in una ragione di vita altrettanto buona o altrettanto cattiva di qualsiasi altra. In quei giorni cupi in cui si vedeva circondato dal vuoto dell'assurdità, si sentiva stanco. Cercava di attribuire quella stanchezza alla lotta quotidiana per tirare avanti, alla depressione causata dai periodi in cui i mezzi di sussistenza si riducevano al minimo. Tutto questo era importante, senza dubbio: la fame e il freddo stancano. Ma non bastava. Si era abituato a tutto, e quello che, all'inizio, lo aveva addirittura spaventato, ora gli era divenuto quasi indifferente. Aveva indurito il corpo e lo spirito di fronte alle difficoltà e alle privazioni. Sapeva che, con maggiore o minore facilità, avrebbe potuto venirne fuori. Aveva imparato tante cose nel corso della vita che gli sarebbe stato relativamente facile trovare un posto stabile che gli garantisse il necessario per vivere. Un passo che non aveva mai tentato di fare. Non voleva legarsi, diceva, ed era vero. Ma non voleva legarsi perché, a quel punto, sarebbe stato come confessare l'inutilità di ciò che aveva vissuto. Che ci aveva guadagnato a fare un giro tanto lungo per ritrovarsi, in definitiva, nel cammino su cui procedevano quelli dai quali risolutamente aveva voluto allontanarsi? "Mi volevano sposato, futile e tassabile?" si domandava Fernando Pessoa. "Θ questo che la vita vuole da tutti noi?" si domandava Abel.

Il senso occulto della vita... "Ma il senso occulto della vita è che la vita non ha alcun senso occulto." Abel conosceva la poesia di Pessoa. Quei versi erano per lui un'altra Bibbia. Forse non ne comprendeva appieno il significato, o ci vedeva qualcosa che non c'era. Comunque sia, e per quanto avesse il dubbio che, in molti passi, Pessoa si burlasse del lettore, e che, all'apparenza sincero, lo deridesse, si era abituato a rispettarlo persino nelle contraddizioni. E se non aveva dubbi sulla sua grandezza come poeta, gli sembrava a volte, specie in quegli assurdi giorni di disincanto, che nella poesia di Pessoa ci fosse molta gratuità. "E che male c'è?" pensava Abel. "Non può essere gratuita, la poesia? Sì, senza dubbio, e non c'è niente di male. Ma, di buono? Che c'è di buono nella poesia gratuita? Forse la poesia è come una fonte che scorre, è come l'acqua che nasce dalla montagna, semplice e naturale, gratuita in sé. La sete sta negli uomini, la necessità sta negli uomini, ed è solo grazie alla loro esistenza che l'acqua cessa di essere disinteressata. Ma la poesia, sarà così? Nessun poeta, come nessun uomo, è semplice e naturale. E Pessoa meno che mai. Chi ha sete di umanità non la placherà certo nei versi di Fernando Pessoa: sarà come se bevesse acqua salata. Eppure, che poesia mirabile e che suggestione! Gratuita, sì, ma che importa se scendo nel profondo di me stesso e mi ritrovo gratuito e inutile? Ed è contro questa inutilità – l'inutilità della vita, l'unica che interessa – che Silvestre protesta. La vita deve essere interessata, interessata in ogni momento, proiettarsi verso un punto e oltre. Essere spettatori non serve. Presenziare equivale a essere morti. Era quello che voleva dire lui. Non importa che si stia qua e al di qua, ciò che occorre è che la vita si proietti, che non sia un semplice fluire animale, inconsapevole come il fluire dell'acqua alla fonte. Ma proiettarsi come? Proiettarsi verso dove? Come e verso dove, ecco il problema da cui nascono mille problemi. Non basta dire che la vita deve proiettarsi. Per il 'come' e per il 'verso dove' si trova un'infinità di risposte. Quella di Silvestre è una, quella di un credente di una qualsiasi religione è un'altra. E quante altre ce ne sono ancora? Senza contare che la stessa risposta può servire a tanti, così come per ciascuno può servire una risposta che non serve ad altri. Insomma, mi sono perso per strada. Andrebbe tutto bene se non immaginassi l'esistenza di altre strade, occupato come sono ad allontanare gli ostacoli dalla mia. La vita che ho scelto è dura e difficile. Ma ho imparato. Sta a me abbandonarla e iniziarne un'altra. Perché non lo faccio? Perché questa mi piace? In parte. Trovo interessante condurre, consapevolmente, una vita che altri accetterebbero solo se costretti. Ma non basta, questa vita non mi basta. Quale scegliere, allora! Essere 'sposato, futile e tassabile'? Ma si può essere ognuna di queste cose e non essere le altre! E dopo?"

Dopo... dopo... Abel era perplesso. Silvestre lo aveva accusato di essere inutile e questo lo aveva seccato. A nessuno piace che scoprano i suoi punti sensibili, e la consapevolezza della propria inutilità era il tallone d'Achille di Abel. Mille volte lo spirito gli aveva posto la domanda scomoda: "Perché?". Lui la eludeva e minimizzava pensando ad altro o filosofando a vuoto, ma neanche così la domanda spariva: restava lì, ispida e ironica, aspettando la fine del delirio per mostrarsi implacabile come prima. Lo faceva disperare, soprattutto, non vedere negli altri quell'aria di perplessità che gli mostrasse di avere dei simili nell'inquietudine. Negli altri la perplessità (così credeva Abel) era il risultato di un dispiacere intimo, della mancanza di soldi, di un amore non corrisposto, tutto tranne la perplessità provocata dalla vita stessa, dalla pura e semplice vita. Qualche tempo prima, quella certezza gli suscitava una confortante sensazione di superiorità. Oggi lo irritava. Tanta sicurezza, tanta disinvoltura davanti a problemi secondari gli provocavano un misto di disprezzo e invidia.

Silvestre, con le sue reminiscenze, non aveva fatto che aggravare il male. Ma, sebbene turbato, Abel riconosceva che la vita del suo padrone di casa era stata inutile rispetto ai risultati: nulla di ciò che lui perseguiva era stato raggiunto. Silvestre era vecchio e faceva oggi quello che faceva ieri: riparare scarpe. Ma era stato proprio Silvestre a dire che la vita gli aveva insegnato almeno a vedere al di là della suola delle scarpe che riparava, mentre ad Abel la vita non aveva fatto altro che dargli il potere di immaginare l'esistenza di qualcosa di occulto, qualcosa in grado di dare un senso concreto alla sua esistenza. Un potere che sarebbe stato meglio non ricevere. Avrebbe vissuto tranquillo, avrebbe goduto della tranquillità del pensiero addormentato, proprio come accade alla normalità della gente. "La normalità della gente," pensava, "che espressione stupida! Che ne so, io, di cos'è la normalità della gente! Guardo migliaia di persone durante il giorno, ne vedo, con occhi capaci di vedere, decine. Vedo persone serie, scherzose, lente, affrettate, brutte o belle, banali o attraenti, e le definisco la normalità della gente. Cosa penserà di me ciascuna di loro? Anch'io cammino lento o in fretta, serio o scherzoso. Per alcuni sarò brutto, per altri sarò bello, o banale, o attraente. In fin dei conti, anch'io rientro nella normalità della gente. Anch'io avrò, per alcuni, il pensiero addormentato. Tutti assumiamo quotidianamente la nostra dose di morfina che addormenta íl pensiero. Le abitudini, i vizi, le parole ripetute, i gesti triti, gli amici monotoni, i nemici senza un vero e proprio odio, tutto addormenta. Una vita piena!... C'è qualcuno che possa dire di vivere una vita piena? Tutti ci trasportiamo al collo il giogo della monotonia, tutti aspettiamo, lo sa il diavolo che cosa! Sì, tutti aspettiamo! Alcuni in maniera più confusa di altri, ma tutti nella stessa attesa... La normalità della gente!... Detto così, con questo tono sdegnoso di superiorità, è idiota. Morfina dell'abitudine, morfina della monotonia... Ah, Silvestre, mio puro e buon Silvestre, neanche te l'immagini le dosi massicce che ne hai assunto! Tu e la tua grassa Mariana, talmente buona che viene voglia di piangere!" (Rimuginando questi pensieri, Abel non era lungi, anche lui, dal piangere) "Quel che penso non ha neppure il merito dell'originalità. Θ come un vestito di seconda mano in una fabbrica di capi nuovi. Θ come una merce fuori mercato, avvolta in carta colorata con un nastro di un colore abbinato. Tedio e null'altro. Stanchezza di vivere, rutto da digestione difficile, nausea."

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29



Della scenata notturna in cui Justina per la prima volta si era mostrata nuda al marito non si parlò mai. Gaetano per vigliaccheria, Justina per orgoglio. Ne conseguì solo una maggiore freddezza. Gaetano, all'uscita dal giornale, andava a passare il resto della notte e il mattino in un altro letto. Tornava a casa solo per pranzare. Si coricava e dormiva tutto il pomeriggio. S'intendevano, quando ce n'era bisogno, a monosillabi e frasi brevi. L'avversione reciproca non era mai stata così totale. Gaetano evitava la moglie, come se temesse che lei gli si presentasse, improvvisamente, spogliata. Quanto a Justina, non evitava di guardarlo, ma lo faceva con disprezzo, quasi con insolenza. Lui sentiva il peso di quello sguardo e ribolliva di collera impotente. Sapeva che molti uomini picchiano le mogli e che tanto gli uni quanto le altre lo trovano naturale. Sapeva che, per molti, era considerata una manifestazione di virilità, proprio come tanti ritengono che sia sintomo di virilità pure la comparsa di qualche malattia venerea. Ma, se poteva vantarsi dei suoi mali di Venere, non poteva vanagloriarsi di averle mai suonate alla moglie. Non per una questione di principio, quantunque gli piacesse affermarlo, ma per pura vigliaccheria. Lo intimidiva la serenità di Justina, incrinata una sola volta e in condizioni di cui provava vergogna. Rivedeva la scena, aveva continuamente davanti agli occhi la figura squallida e nuda, ne udiva le risate che parevano singhiozzi. La reazione della moglie, in quanto inaspettata, aveva acuito quel complesso d'inferiorità di cui soffriva da tempo nei suoi confronti. Perciò la evitava. Perciò stava a casa il meno possibile, perciò rifuggiva dal coricarsi accanto a lei. E c'era anche un altro motivo. Sapeva che, se mai si fosse steso nel letto in cui c'era anche la moglie, non avrebbe potuto impedirsi di possederla. Quando per la prima volta ne prese coscienza, si spaventò. Tentò di reagire, si diede dello stupido, enumerò tutti i motivi che dovevano renderglielo impossibile: il corpo senza attrattive, la ripulsa di altre volte, il disprezzo. Ma quanti più ne aggiungeva, più furioso gli si accendeva il desiderio. Per soffocarlo si sfogava fuori casa, ma non ci riusciva mai. Svuotato, inerme, con le gambe molli e gli occhi scavati, non faceva in tempo ad arrivare a casa e sentire l'odore peculiare del corpo di Justina che subito l'ondata di desiderio si insinuava fin nelle sue più intime fibre. Era come se avesse sopportato una lunga astinenza e poi, per la prima volta, vedesse una donna a portata di mano. Quando si coricava, dopo pranzo, il calore delle lenzuola lo tormentava. Un capo di abbigliamento della moglie, abbandonato su una sedia, attirava il suo sguardo. Mentalmente, dava al vestito vuoto, alla calza ripiegata, il contorno e il movimento del corpo vivo, della gamba tesa e vibrante. L'immaginazione architettava forme perfette che neanche lontanamente corrispondevano alla realtà. E se, in quel momento, Justina passava nella camera, doveva fare appello a tutta la propria capacità di resistenza per non balzare giù dal letto e trascinarvela. Viveva ossessionato dalla più abietta sensualità. Faceva sogni erotici come un adolescente. Estenuava le amanti casuali e le insultava perché non lo appagavano. Come una mosca ostinata, lo tormentava continuamente il desiderio. Come una falena a cui la luce paralizza i movimenti di un lato del corpo e perciò descrive circoli sempre più stretti fino a bruciarsi sulla fiamma, ronzava intorno alla moglie attirato dal suo odore, dalle sue forme sgraziate che l'amore non aveva modellato.

Justina non sospettava l'effetto che la sua presenza produceva nel marito. Lo vedeva nervoso, eccitabile, ma attribuiva questo stato all'accresciuto disprezzo con cui lo trattava. Come chi gioca con un animale pericoloso consapevole del pericolo che corre, ma non rifuggendolo per curiosità, voleva vedere fino a che punto il marito sarebbe stato capace di resistere. Voleva saggiare la portata della sua vigliaccheria. Mitigò quel disprezzo silenzioso e divenne più loquace per dargli maggiori occasioni di mostrarlo. In tutte le parole che pronunciava, in tutte le inflessioni di voce mostrava al marito quanto lo considerava indegno. Caetano reagiva in maniera per lei imprevedibile. Si era trasformato nel tipo dell'amante masochista. Gli insulti, le frustate al suo orgoglio di uomo e di marito, lo portavano a un desiderio parossistico. Justina scherzava con il fuoco senza accorgersene.

Una sera, incapace di resistere oltre, non appena fu uscito dal giornale Caetano corse a casa. Aveva fissato un incontro, ma se ne dimenticò. La donna che lo aspettava non poteva soddisfarlo. Come se fosse impazzito, ma serbasse ancora nella memoria il luogo in cui gli avrebbero ridato la ragione, corse a casa. S'infilò in un taxi che stava passando e promise all'autista una buona mancia per portarlo in fretta. Tra le vie deserte della città l'automobile coprì la distanza in pochi minuti. La mancia fu generosa; o meglio, principesca. Al momento di varcare la soglia di casa Caetano si ricordò, all'improvviso, che l'ultima volta che era entrato a quell'ora ne era uscito umiliato. Per qualche secondo rimase lucido. Vide ciò che avrebbe fatto, ne temette le conseguenze. Ma udì il respiro regolare di Justina, sentì il tepore della camera da letto, tastò sulla coperta il corpo disteso e, come un'onda che il mare solleva dalle profondità, si levò in lui la furia dell'eros.

Si mosse al buio. Al primo contatto, Justina riconobbe il marito. Mezza insonnolita, fece qualche movimento scomposto per difendersi. Ma lui la dominò, la schiacciò contro il materasso. Lei rimase distesa, immobile, estranea, incapace di reagire, come se stesse facendo uno di quegli incubi in cui la Cosa mostruosa, sconosciuta e perciò terribile, ci sopraffà. Riuscì, infine, a liberare un braccio. A tentoni nel buio, accese la lampada sul comodino. E vide il marito. Il suo volto la atterriva. Gli occhi sporgenti, il labbro inferiore più pendulo del solito, il volto rosso e sudato, un ghigno animalesco che gli storceva la bocca. Justina non urlò perché la gola strozzata dal terrore non riusciva a emettere alcun suono. All'improvviso, la maschera di Caetano ebbe uno spasmo che la rese irriconoscibile. Era il volto di un essere diverso, di un uomo strappato all'animalità preistorica, di una fiera selvaggia incarnata in un corpo umano.

Justina allora, con un freddo bagliore nello sguardo, gli sputò in faccia. Caetano, stordito, ancora fremente, rimase a guardarla. Non capiva bene cosa fosse successo. Si passò la mano sul viso e la osservò. La saliva, ancora tiepida, gli si era appiccicata alle dita. Le aprì: la saliva le teneva legate con fili brillanti che si assottigliavano sempre di più, fino a spezzarsi. Caetano capì. Infine, capì. Fu come la frustata imprudente che fa alzare la tigre ormai domata sulle zampe posteriori, gli artigli protesi, i denti affilati. La donna chiuse gli occhi e aspettò. Il marito non si muoveva. Justina schiuse appena le palpebre, impaurita, e immediatamente sentì che il marito la riafferrava. Tentò di sottrarsi, ma il corpo di lui la dominava. Voleva mantenersi fredda, come la prima volta, ma la prima volta lo era rimasta naturalmente, non per azione della volontà. Ora, ci riusciva solo con la forza di volontà. Ma la volontà cominciò a indebolirsi. Forze possenti, fino allora sopite, si levavano dentro di lei. Ondate rapide e avvolgenti la percorrevano. Qualcosa di simile a una luce viva passava e ripassava nella sua testa. Emise un'esclamazione inarticolata. La volontà sprofondava nell'abisso dell'istinto. Restò a galla ancora un momento, si agitò e scomparve. Come una folle, Justina corrispondeva all'amplesso del marito. Il suo corpo magro quasi scompariva sotto il corpo di lui. Vibrava, si contorceva, ora anche lei furiosamente, anche lei soggiogata dall'istinto cieco. Ci fu come un rantolo simultaneo e i corpi rotolarono, avvinghiati e palpitanti.

Poi, mossi dalla stessa ripugnanza, si allontanarono. In silenzio, ciascuno nel proprio lato del letto, riprendevano fiato. Il respiro affannato di Gaetano soffocava quello della moglie. Di lei, solo gli ultimi fremiti segnalavano la presenza.

Nel cervello di Justina si era fatto il vuoto. Aveva le membra doloranti e fiacche. L'odore forte del corpo del marito le aveva impregnato la pelle. Gocce di sudore le scivolavano dalle ascelle. E una profonda spossatezza le impediva di muoversi. Lentamente, tese il braccio e spense la luce. A poco a poco, il respiro di Gaetano divenne più regolare. Appagato, scivolò nel sonno. Justina si ritrovò da sola. I fremiti cessarono, la stanchezza diminuì. Solo il cervello era ancora svuotato da qualsiasi ragionamento. Brandelli di idee cominciarono a emergere lentamente. Si susseguivano uno dopo l'altro, incompleti, senza continuità, senza un nesso di collegamento. Justina voleva pensare a quello che era accaduto, voleva aggrapparsi a una di quelle idee fugaci che comparivano e si dileguavano come fagioli che il bollore porta a galla e subito dopo fa sparire. Era presto, però. Né del resto ce l'avrebbe fatta così in fretta, perché all'improvviso fu lo sgomento a impadronirsi di lei. Talmente le pareva assurdo quello che era accaduto pochi minuti prima che pensò di aver sognato. Ma il corpo indolenzito e una strana sensazione di pienezza indefinibile localizzata in certe parti del corpo la smentivano. Fu allora, solo allora, che lo sgomento la pervase o fu lei che se ne lasciò invadere.

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