Copertina
Autore José Saramago
Titolo Manuale di pittura e calligrafia
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, Tascabili Letteratura 1078 , pag. 274, cop.fle., dim. 120x195x16 mm , Isbn 978-88-06-16165-1
OriginaleManual de Pintura e Caligrafia
EdizioneCaminho, Lisboa, 1983 [1977]
TraduttoreRita Desti
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa portoghese
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Pagina 3

Continuerò a dipingere il secondo quadro, ma so che non lo finirò mai. Il tentativo è fallito e non c'è miglior prova di questa sconfitta, o fallimento, o impossibilità, del foglio di carta su cui mi accingo a scrivere: un giorno, prima o poi, mi volgerò dal primo quadro al secondo e infine a questo testo, o salterò la tappa intermedia, o troncherò la frase per correre a dare una pennellata sulla tela del ritratto che S. mi ha ordinato, o forse su quell'altro, parallelo, che S. non vedrà. Quel giorno non saprò niente di piú di quanto non sappia oggi (che i ritratti sono entrambi inutili), ma potrò decidere se sia valsa la pena di farmi tentare da una forma di espressione che non mi appartiene, anche se proprio questa tentazione significa, in fin dei conti, che non era mia, in fondo, neppure la forma di espressione che ho finito per usare, per impiegare cosí meticolosamente, quasi obbedissi alle regole di un manuale. Non voglio pensare, adesso, a che cosa farò se pure questa mia scrittura sarà un fallimento, se, da allora in poi, le tele bianche e le pagine bianche saranno per me un mondo in orbita a milioni di anni-luce dove io non potrò vergare neppure il minimo segno. Se, dunque, sarà un atto di disonestà il semplice gesto di prendere un pennello o una matita, se una volta ancora, insomma (la prima non c'è mai stata veramente), sarò costretto a ricusarmi il diritto di comunicare o di comunicarmi, perché avrò tentato e fallito, e altre opportunità non ce ne saranno.

Mi apprezzano come pittore i miei clienti. Nessun altro. Dicevano i critici (quando parlavano di me, per poco e tanti anni fa) che sono in ritardo di mezzo secolo almeno, il che, a rigore, significa che mi ritrovo in quello stato larvale che va dal concepimento alla nascita: una fragile, precaria ipotesi umana, un acido, ironico interrogativo su cosa farò nella vita. «Che deve ancora nascere». Piú volte mi sono soffermato a riflettere su questa condizione che, generalmente transitoria per gli altri, in me si è fatta definitiva e vi noto, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, un che di stimolante, sia pure doloroso ma piacevole, come la lama di un coltello che si sfiora prudentemente, mentre la vertigine di una sfida ci fa premere la polpa viva delle dita sulla certezza del taglio. È quel che sento (o in maniera confusa, senza lame né polpe vive) quando comincio un nuovo quadro: la tela bianca, levigata, senza alcuna base, è il certificato di nascita da compilare su cui io (amanuense di un'anagrafe senza archivi) credo di poter scrivere dati nuovi e generalità diverse che mi sottraggano, definitivamente, o almeno per un'ora, a questa incongruenza di non nascere. Intingo il pennello e lo avvicino alla tela, diviso fra la certezza delle regole apprese nel manuale e l'esitazione di cosa sceglierò per esistere. Poi, decisamente confuso, saldamente legato alla condizione di essere quello che sono (non essendolo) da tanti anni, lascio andare la prima pennellata e proprio in quell'istante mi ritrovo lí, dichiarato davanti ai miei occhi. Come nel celebre disegno di Bruegel (Pieter), compare alle mie spalle un profilo tagliato con l'accetta e sento la voce dirmi, una volta di piú, che io non sono ancora nato. A ben pensare, sono cosí onesto da non aver bisogno delle voci di critici, esperti e conoscitori. Mentre trasferisco meticolosamente le proporzioni del modello sulla tela, sento dentro di me un mormorio insistente a ricordarmi che la pittura non è affatto quella che faccio io. Mentre cambio il pennello e indietreggio di quei due passi che mi permettono di inquadrare meglio e di chiarire quell'intrico che sempre rappresenta un viso «da ritrarre», rispondo silenziosamente: «Lo so», e continuo a ricreare un azzurro che ci vuole, una terra, un bianco che farà le veci della luce che non potrò mai captare. Lo faccio senza alcun diletto, perché rientra nelle regole, protetto dall'indifferenza che la critica ha finito per creare intorno a me come un cordone sanitario e, insieme, protetto dall'oblio in cui a poco a poco sono scivolato, ma anche perché so bene che il quadro non finirà mai in nessuna mostra né galleria. Passerà direttamente dal cavalletto alle mani dell'acquirente, perché il mio sistema è questo, giocare sul sicuro, in moneta contante. Di lavoro, ne ho d'avanzo. Faccio ritratti per tutti quelli che si stimano abbastanza da ordinarli e appenderli nei vari ingressi, studi, soggiorni e sale di consiglio. Ne garantisco la durata, non garantisco invece l'arte, e del resto loro non me la chiedono, anche se io potessi darla. Una somiglianza appena migliorata è il massimo cui arrivano. E visto che su questo punto possiamo anche concordare, nessuna delusione per nessuno. Ma quella che faccio io non è pittura.

Malgrado le carenze or ora confessate, ho sempre saputo che il ritratto giusto non è mai stato il ritratto fatto. E non basta: ho sempre creduto di sapere (sintomo secondario di schizofrenia) come avrei dovuto dipingere il ritratto giusto, e sempre mi sono costretto a tacere (oppure ho creduto di costringermi a tacere, illudendomi cosí e rendendomi complice) davanti al modello inerme che mi si affidava, timido, o, al contrario, falsamente disinvolto, con l'unica certezza del denaro con cui mi avrebbe pagato, ma ridicolmente spaventato dinanzi alle forze invisibili che pian piano si susseguivano fra la superficie della tela e i miei occhi. Solo io sapevo che il quadro era già pronto ancor prima di una qualunque seduta di posa e che tutto il mio lavoro si riduceva a mascherare ciò che non si poteva mostrare. Quanto agli occhi, erano ciechi. Spaventati e ridicoli lo sono sempre, il pittore e il suo modello, davanti alla tela bianca, l'uno perché ha timore di vedersi lí denunciato, l'altro perché sa che non sarà mai capace di fare quella denuncia o, peggio, ripetendosi, con la sufficienza del demiurgo castrato che si dichiara virile, che solo per indifferenza o per pietà del suo modello non la farà.

Certe volte, penso e mi convinco di essere l'unico pittore di ritratti rimasto, e che dopo di me non si perderà piú tempo in pose affaticanti, a ricercare somiglianze che sfuggono in continuazione, quando in fin dei conti la fotografia, adesso divenuta arte a opera di filtri ed emulsioni, sembra ben piú capace di piegare l'epidermide e mostrare il primo strato intimo dell'individuo. Mi diverto al pensiero di coltivare un'arte morta, grazie alla quale, per la mia fallibilità, la gente crede di fissare una certa immagine piacevole di se stessa, un'immagine basata su rapporti fissi, dotata di un'eternità che non comincia quando il ritratto si conclude, ma viene da prima, da sempre, come qualcosa che è sempre esistita solo perché esiste adesso, un'eternità che è contata nel senso dello zero. In realtà, se chi è ritratto potesse, o sapesse, o volesse analizzare lo spessore pastoso, informe, dei pensieri e delle emozioni che lo animano, e dopo averlo analizzato trovasse le parole in grado di rendere fluenti e chiari questi pensieri e queste azioni, sapremmo che, per lui, quel suo ritratto è come se fosse esistito sempre, un altro lui piú fedele del «lui di ieri», perché quest'ultimo non è piú visibile, mentre il ritratto si. Non è raro, perciò, che il modello si preoccupi di assomigliare al ritratto, qualora vi sia stato colto l'attimo in cui l'essere umano si elogia e si accetta. Vive il pittore per cogliere quell'attimo, vive il modello per l'istante che sarà poi il pilastro personale e unico dei due rami di un'eternità che scorre all'infinito e che, talvolta, l'umana follia (Erasmo) crede di poter indicare in un minuscolo nodo, un'escrescenza capace di scalfire quel dito gigantesco con cui il tempo cancella tutte le vestigia. I ritratti migliori, lo ripeto, ci danno l'impressione di essere sempre esistiti, anche se il buonsenso mi dice, come sta facendo adesso, che L'uomo dagli occhi grigi (Tiziano) sia imprescindibile da quel Tiziano che l'ha dipinto in un momento della sua vita personale. Perché se qualcosa è partecipe dell'eternità in quest'istante, non è il pittore, ma il quadro.

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Pagina 49

Rimango sempre di stucco davanti alla libertà delle donne. Noi le vediamo come esseri subalterni, ci divertiamo alle loro futilità, le cambiamo quando ormai sono sciupate, e ognuna di loro è capace di coglierci alla sprovvista, stendendoci davanti vastissimi campi di libertà, come se sotto alla loro obbedienza, un'obbedienza che sembra cercare se stessa, costruissero le mura di un'indipendenza rude e illimitata. Dinanzi a queste mura noi, che credevamo di sapere tutto dell'essere inferiore che a poco a poco abbiamo addomesticato o abbiamo trovato addomesticato, ci ritroviamo disarmati, inesperti e spaventati: quel cagnolino che tanto volenterosamente si rotolava per terra, sulla schiena, mostrando il ventre, d'un balzo si mette in piedi, fremente d'ira, e all'improvviso i suoi occhi ci sono estranei, occhi profondi, sfuggenti e ironicamente indifferenti. Quando i poeti romantici dicevano (o dicono ancora) che la donna è una sfinge, avevano ragione, che Dio li benedica. La donna è la sfinge, e dev'esserlo, perché l'uomo si è impadronito di ogni conoscenza, di ogni sapere, di ogni potere. Ma tale è la fatuità dell'uomo che alla donna è bastato erigere in silenzio i muri dell'ultimo rifiuto perché lui, sdraiato all'ombra, quasi fosse sdraiato sotto una penombra di palpebre obbedienti, potesse dire, convinto: «Non c'è niente al di là di questa parete».

Tremendo errore da cui non ci siamo ancora risvegliati. La segretaria Olga ha fatto l'amore con me, ma non per obbedienza al maschio, né per abitudine alla sottomissione, né tantomeno per effetto del mio fascino. Mi ha accettato perché lo aveva già deciso, o si era preparata a deciderlo qualora l'occasione lo avesse richiesto. E se è vero che la mezz'ora intercorsa fra il suo ingresso e il gesto delle braccia incrociate con cui si è sfilata la blusa da sopra la testa, è stata colmata dai passaggi e dai trucchi di una seduzione stanca, il motivo è solo quel piccolo, reciproco cerimoniale cui le coppie non devono venir meno, o ne potrebbe essere pregiudicato il seguito. È lo stesso motivo per cui ci ostiniamo a voler conoscere tutte le peripezie della vita di una prostituta, fino ad allora sconosciuta, con cui finiamo per entrare in una camera a ore: forse lei si offenderebbe se non lo facessimo, forse sentiremmo di averla offesa se non l'avessimo fatto.

In quella mezz'ora, lei ha finito il suo primo whisky e ha incominciato il secondo. In quella mezz'ora, io le ho fatto un ritratto veloce, ma abbastanza somigliante, e per mostrarglielo, per guardarlo insieme, mi sono seduto accanto a lei sul divano, un po' piú indietro, per poter reclinare la testa sulla sua spalla con naturalezza e sfiorarle col viso i capelli. Tutto quanto si fa di solito, con un'aria che sembra distratta e che subito dopo lo nega, perché l'equivoco arrivi all'auge di quel tacito gioco in cui entrambe le parti giocano con le carte proprie e quelle altrui, mentre fingono di essere semplici spettatori. In un minuto di quella mezz'ora, però, mi ha chiesto se poteva tenere il ritratto e io, sempre in quel minuto, le ho risposto di averlo fatto apposta. E, un minuto dopo, stavo già facendole pressione sulle spalle, girandola verso di me, e cominciavo ad avvicinare le mie labbra alle sue. E posso dire che, se lei ha allontanato il viso, è stato solo perché non avvenisse tutto in quell'unico minuto che, lo ammetto, possedeva già la sua giusta dose di piacere concesso e consentito, e quindi lo si poteva accettare incompleto, sebbene indispensabile al piacere del minuto successivo. Gioco con le parole come se usassi i colori e li stessi mescolando sulla tavolozza. Gioco con le cose accadute, cercando le parole per riferirle, anche se solo approssimativamente. Ma, in realtà, devo ammettere che nessun disegno o dipinto sarebbe riuscito a esprimere, a opera delle mie mani, tutto ciò che fino a questo istante sono riuscito a scrivere, e a osare.

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Pagina 86

Erano le tre e mezzo quando ho posteggiato la macchina in Piazza Camòes. Ero lontano da casa, ma avevo voglia di fare due passi. Mi sono avviato verso Santa Catarina e, giunto al belvedere, mi sono avvicinato alla ringhiera e fermato li a guardare il fiume, riuscendo a non pensare a niente, perché neppure le luci delle imbarcazioni laggiú avessero un significato, se non quello di brillare senza un motivo. Non gli avrei permesso altro. Alla fine mi sono seduto su una panchina e, senza sapere né come né quando avessi cominciato, mi sono ritrovato a piangere. Se quello era piangere. Probabilmente la fisiologia possiede certe ragioni che il dispiacere o la commozione ignorano, per cui le donne possono piangere in quella maniera fluente, continua, ininterrotta e perciò angosciante, mentre degli uomini si dice che non piangono o si vergognano di piangere, forse perché già prima non erano capaci di farlo e si è sentito il dovere di trovare un'altra ragione quando la prima si è scoperta. È vero che non sono mai stato spettatore privilegiato delle lacrime di un uomo, e che il mio errore è forse di giudicare gli altri in base a me, ma realmente non mi vengono piú che queste due lacrimucce spremute lentamente dall'interno bruciante dei miei occhi, talmente scarse, o forse troppo concentrate, che cadono, restando lí fra le palpebre, consumandosi pian piano, talmente piano che all'improvviso mi scopro gli occhi asciutti. Giurerei che lacrime non ve ne siano state, se per un po' di tempo, impossibile da ricostruire, o da ricordare come tempo, o da raccontare, non fosse calata fra me e il mondo esterno una cortina tremula e luccicante, quasi fossi dentro una grotta e lí, davanti a me, si riversasse una cascata, rivoli d'acqua densi e risplendenti, ma senza rumore, se non questo sibilo negli occhi, il rumore delle lacrime che bruciano. Non c'è dubbio, ho pianto. Per un minuto o per un'ora, le luci delle imbarcazioni e quelle sull'altra sponda del fiume, bianche e gialle, nei miei occhi sono state un sole: ho avuto la fortuna di quei miopi che, in quanto tali, non vedono la luce ma la sua moltiplicazione. Poi, ancora seduto lí, mi sono reso conto che per un certo tempo, incalcolabile perché ormai passato (e tanto piú ne divenivo consapevole, a mano a mano che i rumori della città ricominciavano a penetrarmi nella coscienza), mi sono accorto (o forse mi pare di buon effetto «prosistico » [esiste questa parola?] l'affermare adesso di essermene accorto) che in quel periodo di tempo trascorso e incalcolabile mi ero trovato da solo nel mondo, il primo uomo, la prima lacrima, la prima luce e gli ultimi istanti di incoscienza. Mi sono messo, allora, a esaminare la mia vita, a rivederla lentamente, a smuoverla come sollevando pietre in cerca di diamanti, di millepiedi o di grosse larve, quelle bianche e grasse che non hanno mai visto il sole e all'improvviso lo sentono sulla pelle morbida, come un fantasma che altrimenti non si manifesterebbe. Sono rimasto li seduto per tutta la notte, guardando ora il fiume, ora il cielo nero e le stelle (che cosa deve dire lo scrittore delle stelle, dopo aver detto che le ha guardate? Beato me, che scrivo appena, e cosí, e perciò non sono obbligato ad altro), fino a quando, sul far del mattino, è caduta un po' di pioggia, cosí, senza motivo, e poi ha cominciato ad albeggiare alla mia sinistra e l'acqua a ingrigirsi come il cielo. Allora le luci si sono spente nella città, settore dopo settore, a poco a poco, congedandosi dall'ombra che a occidente si dilungava ancora un po', e io mi sono sentito perdutamente umiliato perché la notte cosi trascorsa si concludeva con il gelo nelle ossa e con lo sguardo indifferente del primo passante incrociato lungo la via.

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Terzo esercizio di autobiografia in forma di capitolo di un libro. Titolo: Il compratore di cartoline.

Sono persone timide, insicure, schiacciate in anticipo dalle navate delle cattedrali, che sono come cieli carichi di ombre, o dalle grandi sale dove si trovano gli enigmi. Sono appena arrivate e vanno a sottoporsi alla grande prova, all'interrogazione della sfinge, alla sfida del labirinto, e giacché vengono da un mondo ordinato, che dappertutto mette cartelli stradali, segnali di divieto, limiti di velocità, si sentono sperduti in questo nuovo regno dove c'è una libertà da conquistare: quella libertà conosciuta col nome banale di opera d'arte.

E allora corrono ai chioschetti dove le cartoline, a decine, disciplinano la marea nel frattempo trattenuta. La cartolina illustrata, nelle mani del viaggiatore perplesso, è una superficie che si percorre facilmente, che si offre a un semplice sguardo, che tutto riduce alla piccola dimensione della mano inerte. Perché l'opera vera che aspetta là dentro, anche quando non molto piú grande, è protetta dagli sguardi inetti grazie alla rete invisibile che le vive mani del pittore o dello scultore hanno tracciato, mentre laboriosamente ne inventavano i gesti della nascita.

Al viaggiatore, poi, non resta altro che avventurarsi, pena la vigliaccheria, e avanzare nella foresta pietrificata e piana delle statue e delle tavole, in mezzo a folle rumorose se la pinacoteca è celebre, e ricercata per abitudini turistiche, o in un silenzio che permette di sentire il cigolio discreto di una vecchia tavola di legno del pavimento (altro destino della tavola), qualora si trovi in un piccolo museo di provincia, di quelli dove i custodi ci guardano sorpresi e grati. Molto piú tardi, ormai rientrato a casa, la cartolina illustrata avrà un suo valore di conferma: su quella strada c'è stato davvero il viaggiatore, non lo ha fatto in sogno.

Ma questa veduta del Castello Estense, a Ferrara, che ho fra le dita, non la conosco. Mi sono comportato solo da animale terrestre intorno a esso e dentro le sue mura, e questa cartolina me lo mostra fotografato dall'alto, dalle ali di un uccello. Nel sogno mancava quest'immagine, ma la intreccio rapidamente alla veduta aerea di Venezia, minuscola in mezzo alla Laguna, circondata di melma quasi a fior d'acqua, con quelle placide correnti che, viste dal cielo, sono come foglie di acanto in perpetua trasformazione.

(Ho ricevuto una lettera da Adelina. Ha deciso di troncare la nostra relazione).

Ferrara è un luogo tranquillo, con lunghe strade che, anche nel centro della città, possiedono una modestia di periferia, con alte mura che si affacciano su giardini da cui irrompono, col movimento della brezza, effluvi, nuvole invisibili e profumate di nardo che mi avvincono. Proprio lí, in una di queste strade, in Corso Ercole I d'Este, c'è il Palazzo dei Diamanti, che corrisponde alla Casa dos Bicos che gli abitanti di Lisbona vorrebbero avere nel Campo das Cebolas. Sono ottomilacinquecento bugne a punta di diamante, sulle quali il sole e l'ombra giocano come all'interno di un cristallo. E sempre lí, in quella strada, all'improvviso si apre il modesto portone della Pinacoteca Nazionale, offrendomi immediatamente una mostra di Man Ray, quasi duecento opere fra dipinti, disegni, sculture, e tutto quello che in Man Ray lo rappresenta, pur non essendolo.

Il museo è tranquillo come può esserlo solo un giardino. Conserva due tondi di Cosmè Tura con episodi della vita di San Maurilio (chi sarà?) e un San Girolamo attribuito a Ercole de' Roberti, i quali giustificano ampiamente la visita. Ho firmato il libro dei visitatori. E serbo ancora nel ricordo lo sguardo affettuoso del custode perché avevo scelto, venendo da cosí lontano (dal Portogallo), il «suo» museo.

Da li vado a Palazzo Schifanoia, a vedere gli affreschi di Francesco del Cossa, di Tura e di Ercole de' Roberti, fra tanti altri. La Sala dei Mesi, nei sette compartimenti ancora intatti, è di una esuberanza cromatica che sfiora lo stordimento. Mi sperdo nei particolari che mi attirano e sorrido dinanzi al dipinto di Ercole raffigurante gli amori di Venere e Marte: pudicamente coperti da un lenzuolo le cui pieghe sono quasi una proposta di disegno astratto, Marte e Venere, l'uno sdraiato accanto all'altra, sembrano riposare dopo l'amore. Di lei si vede appena il profilo sfuggente, mentre Marte, in secondo piano, ma rivolto verso di noi, mi fissa, al di sopra del viso dell'amata, con un unico occhio, audace e insieme imbarazzato. Per terra e sopra un'arca, le armi del guerriero e gli ornamenti della dama.

Città dai quattro appellativi - «dotta», «turrita», «città dei portici», «grassa» -, Bologna è seducente, femminile, soffice. Accettiamo pure i luoghi comuni, che la esprimono piú di mille parole ricercate. Ed è anche una città molto vecchia che ha compiuto il miracolo di fissare le proprie antichità, difendendole dalla livella del turista, che uniforma tutto: Casa Isolani, per esempio, un'abitazione privata in Strada Maggiore, che risale al XII secolo, in cui regolarmente vivono e dove il turista, per fortuna, non è ammesso. Mi ritrovo anche a pensare, a immaginare come dev'essere stata la Bologna vista da Dante, allora, nel 1287, con le sue centottanta torri nobiliari, in disputa fra loro per l'altezza e il primato.

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Pagina 192

Del resto, l'arma migliore contro la morte non è la nostra semplice vita, per quanto unica e per quanto preziosa legittimamente sia per noi. L'arma migliore non è questa mia vita cui la morte fa paura, è tutto ciò che è stato vita prima ed è durato, di essere in essere, fino a oggi. Ho tenuto in mano il teschio di mio padre, ma non ho avuto paura né ripugnanza né dispiacere: solo una strana impressione di forza, come la sente il nuotatore trasportato sulla cresta di un'onda che, muovendosi, lo fa muovere. Sporco di terra, scarnificato, tanto diverso da quel che era stato, tanto simile agli altri teschi, come una pietra da costruzione. Quando Amleto parlò al teschio di Yorick, mi parve allora, leggendo, che altro non si potesse dire fra un morto e un vivo. Adesso sto provando che lo si può, ma non per mio merito personale: sono passati nel frattempo trecentosettant'anni, è nato Marx, si è continuato a scrivere e dipingere, e Socrate non l'hanno cancellato dalla storia. Tutte cose alle quali non ho partecipato personalmente, né per azione né per emissione (e alle quali, in un certo senso, non partecipo, perché questo non significa scrivere, né questo significa dipingere). Ma ritengo di compiere il mio dovere quando ne approfitto e tento di capire. Non si può chiedere di piú a un uomo comune.

Capisco, per esempio (ancora un esempio mortuario e fissità d'occhi), questa mummia del Vaticano. Preservata in carne al di là della putrefazione, è un mio prossimo. Ci separa soltanto quel centisecondo in cui mi ostino a credere. Se la guida ufficiale del museo venisse a dirmi che tra questo corpo e il mio corpo ci sono due o tremila anni, non avrei dubbi, dal momento che spetta alle guide il saperne di tali argomenti. Ma non riesco a raffigurarmi che cosa siano tremila anni, visto che il corpo è li, risolta nel silenzio la questione dell'ignoranza della lingua e stabilito un diverso dialogo. Le mani, con le sue lunghe ossa spinate ricoperte di carne, ormai soltanto fibra, e di una pelle nera, priva di sudore, che sollecita il tatto d'altre mani, poco ci manca che si muovano di un poco, fin quasi fuori dall'arca funebre, ma non ancora fuori dalla cassa di vetro che racchiude il corpo. Le unghie bianche, vivissime, fra poco graffieranno umilmente, umanamente, la forfora dei vivi. Ecco la lunga storia (non la preistoria) della continuità materiale degli uomini. Per milioni di anni, milioni di milioni di uomini sono nati dalla terra e vi sono ritornati. L'humus terrestre è polvere umana assai piú che crosta originale, e le case in cui viviamo, fatte di ciò che dalla terra è uscito, sono costruzioni umane, nel senso ristretto del termine umano, e cioè fatte di uomini. Ecco perché ho scritto che il teschio di mio padre era come una pietra da costruzione.

Il mondo è pieno di probabilità. Nel dolce pendio di una montagna, o nella sua costa arrotondata, immaginiamo che sia sepolto un corpo. Si è persa memoria di quel che li si trova, può darsi da secoli, e forse è cosi. Quattrocento volte l'inverno vi ha deposto la sua pioggia e la sua neve, quattrocento volte l'autunno vi ha rinfrescato l'erba, quattrocento volte l'estate l'ha seccata, quattrocento volte la primavera ha coperto tutto di fiori. È una montagna, questa, dove non si è piantato se non un corpo morto, forse assassinato e perciò nascosto li. Ma adesso, quattrocento e uno anni dopo la sepoltura, un uomo vivo sale sulla montagna (come hanno fatto prima tanti altri, ma è lui che ci interessa), senza alcun motivo apparente, solo per respirare l'aria della sua metamorfosi di vento, solo per guardare le distanze, le altre montagne, per accertarsi, insomma, se esista ancora la fatalità che gli orizzonti siano azzurri. Sale sulla montagna, calpesta l'erba, i cespugli e i sassi, sente tutto ciò sotto le suole, in questa sensazione è vivo come in tutte le altre che gli trasmettono i sensi, e per puro godimento si sdraia per terra, il viso al cielo, a guardare le nuvole che passano, a udire il vento fra gli steli delle piante vicine. Ha raggiunto quel senso di compiutezza che è la debolezza umana di immaginare che all'improvviso conosciamo tutto e non ci servono spiegazioni. Ma lui non sa che sotto di sé, seguendo esattamente il contorno del suo corpo, corpo su corpo, un metro di terra al massimo a separarli, il morto di quattrocento anni fa sta guardando attraverso gli occhi del vivo, teschio su teschio, un cielo in apparenza uguale e nuvole fatte della stessa acqua. Inconsapevole di tutto, il vivo si alza e il morto comincia ad aspettare altri quattrocento anni.

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