Copertina
Autore José Saramago
Titolo Quaderni di Lanzarote
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Frontiere , pag. 194, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-19822-0
OriginaleCadernos de Lanzarote [1994]
CuratorePaolo Collo
TraduttoreRita Desti
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa portoghese
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Pagina 12

1993



7 maggio.

Sulla memoria: «La memoria è uno specchio antico, con falle nello stagno e ombre immobili: c'è una nuvola sopra la fronte, una macchia al posto della bocca, il vuoto dove dovrebbero esserci gli occhi. Cambiamo posizione, giriamo la testa da un lato, cerchiamo, tramite giustapposizioni o lateralizzazioni successive dei punti di vista, di ricomporre un'immagine che ci sia possibile riconoscere come ancora nostra, concatenabile con questa che abbiamo oggi, già quasi di ieri. La memoria è anche una statua di argilla. Il vento passa e, a poco a poco, le porta via particelle, granelli, cristalli. La pioggia ammorbidisce i lineamenti, fa incurvare le membra, riduce il collo. Minuto dopo minuto, quello che era non è piú e della statua non resterebbe altro che una sagoma informe, un impasto primario, se pure un minuto dopo l'altro non continuassimo a restaurare, a memoria, la memoria. La statua si manterrà in piedi, non è la stessa, ma non è un'altra, come l'essere vivente è, in ogni momento, altro e se stesso. Perciò dovremmo domandarci chi di noi, o in noi, abbia memoria, e quale sia questa memoria. E non solo: mi domando che inquietante memoria sia quella che talvolta mi assale di essere io la memoria che possiede oggi qualcuno che sono stato in passato, come se nel presente fosse infine possibile essere la memoria di qualcuno che fosse stato». (Tratto, con alcune modifiche, da un testo che ho pubblicato da qualche parte, non so quando. Ah, questa memoria).

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Pagina 22

8 ottobre.

Un settimanale francese, «France Catholique», mi invia alcune domande sul Vangelo, il mio. Vogliono sapere quali sono stati i criteri che ho adottato relativamente alle informazioni contenute nei Vangeli, ora prendendoli liberamente ora modificando gli atti, le parole, la cronologia, i luoghi, e perché ho inventato non solo nei «silenzi» del testo, ma anche nel corpo di quello che è stato «autenticamente trasmesso». Vogliono sapere anche se ho ignorato scientemente aspetti essenziali della tradizione giudaica, in particolare la Legge ricevuta sul Sinai, che «non è un catalogo di promesse, ma un contratto reçu et conclu tra il Popolo e Dio». E domandano pure: che esperienza mi ha portato a dare, in Dio come negli uomini, un posto tanto grande al male, al peccato, al rimorso, e nessuno al perdono; se considero le guerre nazionaliste e le lotte politiche come mezzi meno nocivi o alienanti della professione di fede dei credenti; se, visto che vangelo significa buona novella, penso che il titolo sia adeguato al libro; e infine per quale ragione ho tolto Maria da vicino alla croce.

Che rispondere? Primo, quanto ai criteri, che ho usato quelli del romanziere, non quelli del teologo o dello storico. Secondo, che un contratto decente deve esprimere e armonizzare la volontà delle due parti. Terzo, che prima di Gesú gli uomini erano già capaci di perdonare, ma gli dèi no. Quarto, che non si devono confondere le guerre (nazionaliste, o altre) con le lotte politiche, e che, soprattutto, è necessario rispettare la «santità della vita». Quinto, che il titolo è nato come è nato, e non c'è niente da fare. Sesto, che solo in Giovanni la madre di Gesú è presente, Matteo, Marco e Luca non la menzionano neppure.


9 ottobre.

Un tantino piú sviluppate, le risposte definitive sono state queste che seguono.

Prima. Che devo intendere per un corpo «autenticamente trasmesso»? Tra i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni ci sono differenze e contraddizioni universalmente riconosciute. Se si considera che queste stesse contraddizioni e differenze fanno parte del «corpo», allora non dovrebbe essere motivo di scandalo che qualcuno, interpretando i documenti evangelici, non come una dottrina, ma come un testo, cerchi di trovarvi una nuova coerenza, problematica e umana. I miei criteri sono stati, dunque, quelli del romanziere, non quelli dello storico o del teologo.

Seconda. Un contratto veramente degno di tal nome, e tanto piú se andrà a condizionare radicalmente la vita di un popolo, come la Legge ricevuta sul Sinai, dovrebbe sempre rispettare e conciliare la volontà delle due parti in causa. Non credo si possa affermare che sia questo il caso: Dio impose le sue condizioni - il Vecchio Testamento è, tutto quanto, una dimostrazione di potere divino - e il popolo ebraico le accettò. Questo, io non lo chiamerei contratto, ma diktat.

Terza. Semplicemente, lo spettacolo del mondo. Gesú, figlio di un Dio e padre di un Dio (c'è bisogno di dire che il Dio di cui parliamo oggi è fatto a immagine e somiglianza del Figlio?), non inventò il perdono. Il perdono è umano. E l'unico luogo della trascendenza, casomai, è la piú immanente di tutte le cose: la testa dell'uomo.

Quarta. Non è legittimo confondere le guerre (e non solo quelle nazionaliste) con le lotte politiche. Quella che chiamiamo lotta politica è una conseguenza logica della vita sociale. D'altro canto, io non considero nociva e alienante la professione di fede dei credenti. Ma ritengo sia mio diritto e mio dovere dibattere questioni che hanno formato e continuano a formare, direttamente o indirettamente, l'essenza stessa della mia vita. Come ho detto, non sono credente, sto fuori dalla Chiesa, ma non dal mondo che la Chiesa ha configurato.

Quinta. Il titolo del mio libro è nato da un'illusione ottica. Mentre, a Siviglia, stavo attraversando una strada diretto a un'edicola di giornali, ho letto, nella confusione delle parole e delle immagini esposte, Il vangelo secondo Gesú Cristo. Questo titolo, dunque, mi fu dato, e come tale l'ho mantenuto, pur essendo consapevole della sua duplice inadeguatezza: primo, perché il mio libro non è realmente una buona novella per chi sia piú attento al «corpo» che non allo spirito; secondo, perché Gesú non scrisse mai della propria vita. Se l'avesse scritta (mi sia perdonato ora questo peccato di orgoglio) forse vi ritroveremmo qualcosa di ciò che ho scritto io: per esempio, la conversazione con lo scriba al Tempio...

Sesta. Solo nel Vangelo secondo Giovanni la madre di Gesú è presente al martirio e alla morte del figlio. Negli altri vangeli, le donne (e tra loro Maria non è mai menzionata) assistevano da lontano. Io non c'ero, ma sono pronto a giurare che Gesú mori da solo, come soli dobbiamo morire tutti.

Punto. Va a finire che mi ritrovo teologo. Oppure già lo sono?

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Pagina 37

1994



2 febbraio.

Non ricordo di aver mai letto dei motivi profondi che ci portano ad amare una città piú di altre e, non di rado, a discapito di altre. Senza parlare dei casi di amore a prima vista (cosí è stata Siena, non appena ci sono entrato), che in genere non resistono all'azione congiunta del tempo e della ripetizione, credo che l'amore per una città sia fatto di cose infime, di ragioni oscure, una strada, una fontana, un'ombra. All'interno della grande città di tutti c'è la città piccola in cui realmente viviamo.

Abitiamo fisicamente uno spazio, ma, sentimentalmente, abitiamo una memoria. Quando ho avuto bisogno di descrivere l'ultimo anno della vita di Ricardo Reis, sono dovuto tornare indietro di cinquant'anni nella mia vita per immaginare, partendo dai miei ricordi di quel tempo, la Lisbona che doveva essere stata quella di Fernando Pessoa, sapendo in anticipo che pochissimo avrebbero potuto coincidere due idee di città tanto diverse: quella dell'adolescente che sono stato, chiuso nella sua condizione sociale e nella sua timidezza, e quella del poeta lucido e geniale che frequentava, come suo diritto naturale, le regioni piú alte dello spirito. La mia Lisbona è sempre stata una Lisbona di quartieri poveri, o al massimo modesti, e se le circostanze mi hanno portato, in seguito, a vivere in altri ambienti, il ricordo piú gradito e piú gelosamente difeso è sempre stato quello della Lisbona dei miei primi anni, la Lisbona della gente dai pochi averi e dal grande cuore, ancora rurale nei costumi e nell'idea che aveva del mondo. Oggi, qui tanto lontano, mi accorgo che l'immagine della Lisbona del presente si va allontanando da me a poco a poco, sta diventando memoria di una memoria, e prevedo, benché sappia che non vi sarò mai un estraneo, che arriverà un giorno in cui percorrerò le sue strade con la curiosità perplessa di un viaggiatore al quale avessero descritto una città che avrebbe dovuto riconoscere immediatamente e che si ritrova, non proprio in una città diversa, ma con l'impressione di avere davanti a sé un enigma che dovrà risolvere se non vorrà ripartire con l'animo triste e le mani vuote. Farò allora come il viaggiatore perplesso: cercherò pazientemente fino a ritrovare lo spirito della città, quello spirito che si nasconde nell'ombra verde dei giardini, nel colore sbiadito di una facciata che il tempo ha castigato, nella fresca e ombrosa entrata di un cortile, lo spirito che fluttua da sempre nelle acque del Tago e nelle sue maree, che parla nelle grida dei gabbiani e nel roco muggito delle imbarcazioni che partono. Salirò nei punti alti per guardare i monti dell'altra sponda, e anche, da questa parte, il declivio soave dei tetti rossi verso il fiume, l'improvvisa irruzione dei marmi bianchi delle chiese, mentre dai caseggiati e dalle strade invisibili cresce il sordo e imperioso fragore della vita.

Lisbona, ormai lo sappiamo, negli ultimi tempi si è trasformata. Decadente, abbandonata fino a giorni assai recenti, un terremoto lento, come sono giunti a definirlo, a poco a poco rialza la testa, esce lentamente dall'indifferenza e dal marasma. In nome della modernizzazione o della modernità, si ergono muri di calcestruzzo sopra le sue vecchie pietre, si turbano i profili delle colline, si stravolgono i panorami e le prospettive. Probabilmente non si poteva evitare, oppure non hanno voluto evitarlo. Ma lo spirito di Lisbona sopravvive – e anche se noi non sappiamo che cosa sia lo spirito, è lui che rende eterne le città.

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Pagina 55

3 luglio.

Vista a distanza, l'umanità è una cosa molto bella, con una vasta e succulenta storia, molta letteratura, molta arte, filosofie e religioni in abbondanza, per tutti gli appetiti, scienza che è un piacere, sviluppo che non si sa dove si andrà a finire, insomma, il Creatore ha tutte le ragioni per essere soddisfatto e orgoglioso dell'immaginazione di cui si è dotato. Qualsiasi osservatore imparziale riconoscerebbe che nessun dio di un'altra galassia avrebbe fatto meglio. Se la guardiamo da vicino, però, l'umanità (tu, lui, noi, voi, loro, io) è, scusate la parola volgare, una merda. Sí, sto pensando ai morti del Ruanda, dell'Angola, della Bosnia, del Kurdistan, del Sudan, del Brasile, di ogni dove, montagne di morti, morti di fame, morti di miseria, morti fucilati, sgozzati, bruciati, squartati, morti, morti, morti. Quanti milioni di persone saranno finiti cosí in questo maledetto secolo che sta per finire? (Dico maledetto, ed è in questo che sono nato e vivo...) Per favore, che qualcuno mi faccia questi conti, datemi un numero con cui si possano misurare, solo approssimativamente, lo so bene, la stupidità e la cattiveria umana. E, visto che avete messo mano alla calcolatrice, non dimenticate di includere nel conteggio un uomo di 27 anni, di professione calciatore, di nome Andrés Escobar, colombiano, assassinato a revolverate e a sangue freddo, nella nota città di Medellín, per aver fatto un autogol durante una partita del campionato del mondo... Senza dubbio, aveva ragione Alvaro de Campos: «Non mi venite a parlare di conclusioni! L'unica conclusione è morire». Senza dubbio, ma non in questa maniera.

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Pagina 81

1995



21 gennaio.

Sulla fotografia.

Le mani sollevano la macchina fotografica all'altezza degli occhi e il mondo scompare. Rapido o lento, secondo il grado di urgenza o di provocazione dell'immagine che sarà captata, il movimento delle mani ha risposto a uno stimolo visivo. Ora, da dietro il visore, l'occhio farà riapparire, non il mondo, ma un suo frammento, quel poco che può contenerne un rettangolo i cui lati, come lamine insensibili, tagliano e rifilano il corpo della realtà. In quell'estremo e infimo istante che precede lo scatto dell'obiettivo, e come se lungo le linee che imperativamente delimitano il visore esistesse una rete microscopica di condotte, il mondo esterno cercherà ancora di penetrare nello spazio che gli è stato sottratto, per lasciarvi un segno della sua obliterata dimensione. Frammento di un tutto o della sua apparenza, ogni fotografia, a sua volta, è frammento di frammenti, e, per un movimento di approssimazione ed espansione in tutte le direzioni, contemporaneamente al movimento contrario di conversione al punto di risoluzione che infine è, diviene, nell'immagine unica che presenta, lettura multipla del mondo. Ma questo ci verrà mostrato solo in seguito, quando l'immagine colta sarà passata, rivelata, sulla carta. Allora sapremo veramente cosa abbiamo visto, quando e dove ritenevamo solo di non aver fatto altro che guardare.

Sparpagliamo davanti a noi le fotografie, le disponiamo per temi, argomenti, affinità, vogliamo che alcune facciano domande e altre rispondano, vorremmo che raccontassero una storia, anche se breve, anche se non dovessimo arrivare a conoscerne la fine. Ma sembra faccia parte della natura delle immagini, seppure colte da uno stesso oggetto e in un periodo di tempo minimo, che siano restie a perdere la loro identità: ciascuna vorrà essere, per ipotetiche ed esclusive virtú proprie, l'alfa e l'omega, non solo della comprensione di se stessa, ma anche di tutte le decifrazioni possibili dello spazio invisibile che la circonda, di quell'assenza rappresentata dal biancore dei margini. Quello che la fotografia non può mostrare è proprio ciò che presterebbe un senso di realtà a ciò che stesse mostrando. Per questo forse è corretto affermare che l'occhio che guarda la fotografia, proprio perché ciò che vede è fotografia, non è lo stesso, pur essendo lo stesso, che ha guardato e visto una parte del mondo per fotografarla.


22 gennaio.

Su volti e mani.

C'è chi fotografa volti, cercando nei loro tratti il cammino verso uno spirito che si crede abiti dietro di essi; c'è chi si contenta di captare la superficie piana e ovvia di una bellezza o di una bruttezza inspiegabili in se stesse; c'è chi accetta di farsi sorprendere dalla fotografia che ha scattato, proprio come si aspetta che venga a sorprendersi il suo osservatore. Oltre che un'immagine, che sarà allora il volto per il fotografo? Un discorso, una voce, una pluralità di discorsi e di voci? Espressivi sino alla frontiera dell'ineffabile, i volti sono ciò che piú facilmente mostriamo e ciò che piú di frequente occultiamo. I visi sono veramente autentici solo quando colti alla sprovvista: la paura, la collera, un impulso che non si può controllare, esprimono la verità totale di un volto. In situazioni non estreme il volto è quasi sempre, e soltanto, un certo volto riferito a una certa situazione. È questo il motivo per cui è capace di rivestirsi tanto facilmente di espressioni utili, simulando un sentimento che non prova, un'emozione quando il polso si mantiene fermo e il cuore tranquillo, un interesse quando è indifferente. O il contrario.

Poiché sono, senza dubbio, strumenti della volontà, della necessità o del desiderio, le mani sono, ciononostante, incomparabilmente piú libere del volto. Assumiamo un'espressione del viso, non guidiamo l'espressione delle mani, e se talvolta tentiamo di farlo, ben presto esse recuperano il loro autonomo modo di essere, contraddicendo spesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, quello che il volto, artificiosamente, vuole far credere. Dicono gli antropologi che a loro, in gran parte, dobbiamo il cervello che abbiamo. Non si stenta a credere che sia cosí, tant'è facile sapere cosa sia un cervello, solo guardando ciò che fanno le mani.


29 gennaio.

Succede con le «contraddizioni» proprio quello che negli ultimi anni è successo con la «cultura». Tanto si è ripetuto che «tutto è cultura» che si è finito quasi per perdere, nella pratica e nella comunicazione, la nozione di relatività dei diversi atti e prodotti culturali. Cosí pure, affermando che «tutto è contraddizione», è come se ci aspettassimo di essere dispensati dall'obbligo di identificarle e analizzarle. È palese che viviamo in un mondo in cui coabitano e spesso si confondono due tendenze principali di organizzazione della società: una, evidente, è quella della globalizzazione; un'altra, diffusa, è quella della frammentazione. In genere, le affermazioni di identità e le rivendicazioni di tipo nazionalista sono sempre venute da gruppi etnici e linguistici specifici, quando non da ben definite nazionalità, che in un modo o nell'altro la Storia ha sommerso. Ci si domanderà come si spiega che, in un mondo che avanza verso la formazione di giganteschi complessi economici, strategicamente concepiti e dotati di mezzi di captazione e attrazione pochi anni fa ancora inimmaginabili, sia sorto questo repentino appetito di affermazione propria, particolare, che ha fatto scoppiare e frammentarsi paesi che sembravano consolidati, armonicamente articolati nelle loro parti con la convivenza e interdipendenza dei cittadini. A questa domanda risponderei con un'altra: se è chiaro che l'individuo «si è liberato» (intendendo come fattori di tale liberazione i movimenti di contestazione degli ultimi trent'anni), come ci si potrebbe aspettare che il «piacere» personale risultante dall'affermazione di una determinata differenza non finisse per essere, direttamente o indirettamente, assorbito, rielaborato e, prima o poi, rivendicato, sotto forme distinte, dalla coscienza collettiva?

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Pagina 96

24 aprile.

Colazione in albergo con Susan Sontag, della quale è già organizzato che presenterò a Madrid, fra un mese e mezzo, un romanzo, L'amante del vulcano, che riprende la nota storia di Nelson ed Emma Hamilton, ma trasportando e concentrando la trama nell'ambiente politico e sociale della Napoli dell'epoca. Non si tratta, cioè, della mera ripetizione di un certo numero di quadri sentimentali piú o meno prevedibili, ma di una profonda immersione nella società napoletana e nei suoi giochi di potere. Susan Sontag verrebbe voglia di chiamarla semplicemente La Sontag, come usano gli italiani quando si riferiscono alle grandi cantanti liriche. Susan, che io sappia, non canta, ma sembra avere la stessa forza, lo stesso volo lirico, la stessa entusiastica passione, la stessa inimitabile presenza. La cosa piú curiosa è che, contraddicendo in assoluto questa impressione, non si riscontra in lei alcun cenno di teatralità, alcuna finzione, i suoi gesti sono naturali sempre, il tono sempre giusto. Mi ero incontrato con lei una volta, un buon paio d'anni fa, in una tavola rotonda del Salone del Libro di Torino. All'epoca mi era parsa altezzosa, impertinente, persino presuntuosa. Per dirla in breve, non mi era piaciuta. Ma oggi, mentre la sentivo parlare con estrema semplicità del suo lavoro, mentre rispondevo al suo interesse per íl mio, ho pensato come tante volte ci succede di non prestare attenzione sufficiente, non solo al tempo che passa, ma alle persone che il tempo ci avvicina e poi ci allontana, lasciandoci, tante volte, íl sapore amaro delle occasioni perdute.

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Pagina 100

30 settembre.

In principio era il Lapis. C'era anche la Penna, un legnetto sottile, cilindrico, in genere dipinto di un color salmone, che aveva sulla punta il Pennino. Ma la Penna aveva i suoi giorni di malumore, lasciava macchie inattese e tragiche, s'impuntava di proposito sulle fibre della Carta, da cui si liberava all'improvviso, schizzando maliziosa. Il Lapis era di un altro temperamento, collaborava meglio, e se a volte capitava che gli si rompesse la Punta, finivamo per guadagnarci quella piccola ebbrezza di sentire la fragranza del legno che il Tempera-Lapis andava tagliando in volute, e quell'altro odore, quello della Piombaggine, forte, sensuale, preannuncio dei peccati futuri. Diciamo comunque, per rispetto della verità, che l'Inchiostro non rimaneva affatto indietro in queste titillazioni della pituitaria, e forse le superava, se non è invenzione e opera della memoria l'odore acido che mi è appena arrivato al naso.

C'erano i Lapis-a-Colori e quello da Scrittura, o per Scrivere, anche se non lo chiamavamo cosí, era semplicemente il Lapis, per antonomasia. Il Lapis aveva diversi numeri, il Tre duro, il Due morbido. Dell'Uno e del Quattro non si è mai saputo, senza dubbio appartenevano ai domini interdetti del difetto e dell'eccesso, privilegio delle classi agiate, soglia di maggiore età. Oltre al numero, il Lapis aveva un nome, si chiamava Faber. Alcuni di noi, piú edotti in fatti trascendenti, parlavano con timorosa venerazione di certe divinità inaccessibili ai comuni mortali, i cui nomi - Caran d'Ache, Koh-I-Noor - ci causavano brividi mistici.

Orbene, a quel tempo mi capitava di sognare i Lapis. Ce n'erano a dozzine che si accalcavano su fogli di carta che io sapevo erano stati scritti da me e che, nel sogno, potevo leggere, ma che poi non riuscivo a ricordare. Oggi darei tanto per conoscere cosa potesse esserci in quei fogli di carta immateriali irrimediabilmente perduti, e anche qualcosa in cambio della risoluzione di questo enigma: se tutti quei Lapis, supponendo che fossero della marca Faber, accorrevano cosí numerosi per compensarmi della frustrazione di non aver mai posseduto uno degli altri, o se, al contrario, sono stato ricco senza saperlo, ricco di Koh-I-Noor e Caran d'Ache, ma senza alcun vantaggio: pur sognando, non una sola parola è stata mai scritta con loro. Fino a oggi.

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Pagina 102

28 ottobre.

[...]

Raccontare la vita di tutti e di ciascuno, è cosí che ho intitolato la conferenza che sono venuto a tenere qui. Ho ripreso allo scopo alcune semplici idee sul rapporto tra la Narrativa e la Storia, cosí organizzate per l'occasione:

«1. Sono qui per parlarvi di Storia e di Narrativa, sono qui per parlarvi, soprattutto, degli ambigui rapporti che intercorrono negli ultimi tempi tra l'una e l'altra, tra la Narrativa e la Storia, al punto che ormai ci domandiamo se non ci sarà nella Storia troppa Narrativa e, d'altro canto, a equilibrare il dubbio, se ci sarà nella Narrativa sufficiente Storia. Questo vi sembrerà forse un mero gioco di parole, ma spero, se riuscirò a portare a compimento i miei ragionamenti prima che la vostra pazienza si esaurisca, di arrivare a radunare un certo numero di motivazioni che difendano il tema e lo assolvano dai primi sospetti.

«Consideriamo, in primo luogo, la Storia come Narrativa. Si tratta di una proposizione apparentemente temeraria, che potrebbe persino introdurre in modo surrettizio l'insinuazione che non vi siano differenze sostanziali tra Narrativa e Storia. Ne concluderemmo, in tal caso, facendo probabilmente nascere un nuovo caos, che tutto nel mondo sarebbe Narrativa, che noi stessi non saremmo altro che prodotti sempre mutanti di tutte le narrative create e da creare, tanto le nostre come le altrui. Saremmo, simultaneamente, gli autori e i personaggi di una Narrativa Universale senz'altra realtà se non quella di essersi costituita come una specie di mondo parallelo. Benché riconosca che vi sia in ciò che ho appena detto qualcosa dello spirito di paradosso, tenterò da parte mia alcuni argomenti, magari degni di attenzione.

«Sin da subito, in accordo con questa ipotesi, il primo compito dello storico sarebbe di selezionare i fatti, lavorando su quello che denominerò tempo informe, quel Passato cioè che si vorrebbe chiamare puro e semplice se non fosse una contraddizione in termini. Raccolti i dati considerati necessari, il secondo compito dello storico sarebbe di organizzarli in modo coerente, obbedendo o meno a obiettivi previ, ma, in qualsiasi caso, trasmettendo sempre un'idea di ineluttabile necessità, come l'espressione di un Destino. Non dimentichiamo che tali selezioni di fatti si esercitano, di regola, su consensi ideologici e culturali concreti, il che fa della Storia, tra i diversi rami della conoscenza, il meno capace di sorprendere.

«È indiscutibile che lo storico sarà obbligato, sempre e in tutti i casi, a scegliere fatti tra fatti. È altrettanto ovvio che, nel procedere a questa scelta, egli dovrà abbandonare deliberatamente un numero indeterminato di dati, alcune volte in nome di ragioni di classe o di Stato, o di natura politica circostanziale, tante altre adottando, consapevolmente o meno, le imposizioni di una strategia ideologica che necessiti, per giustificarsi, non della Storia, ma di una Storia. Questo storico, in realtà, non si limiterà a scrivere Storia. Egli farà Storia. Lo storico, dacché consapevole delle conseguenze politiche e ideologiche del suo lavoro, deve sapere che il Tempo che in tal modo ha organizzato apparirà agli occhi del lettore come una lezione magistrale, la piú magistrale di tutte le lezioni, giacché lo storico vi emerge come definitore di un certo mondo fra tutti i mondi possibili. In quest'altro atto di Creazione, lo storico ha deciso ciò che del Passato era importante e quello che del Passato non meritava attenzione.

«Alcune volte, tuttavia, questo potere autoritario non sembra essere sufficiente per liberarci da quell' horror vacui che, essendo una delle caratteristiche dei popoli primitivi, in definitiva si riscontra in non pochi spiriti coltivati. Uno storico come Max Gallo ha cominciato a scrivere romanzi per equilibrare con la Narrativa l'insoddisfazione che gli causava quella che considerava un'impotenza reale a esprimere nella Storia tutto il Passato. È andato a prendere dalle possibilità della Narrativa, dall'immaginazione, dall'elaborazione su un tessuto storico definito, ciò che sentiva mancargli come storico: la complementarietà di una realtà. Non doveva essere molto lontano da questo sentimento, suppongo, il grande Georges Duby, quando, nella prima riga di uno dei suoi libri, scriveva: Immaginiamo che... Proprio quell'immaginare che prima era stato considerato peccato mortale dagli storici positivisti e dai loro continuatori di diverse tendenze.

«Ho la sensazione che ci sia una crisi della Storia, talmente grave che minaccia di ucciderla, o già l'ha uccisa... Se è cosí - e io non sono nessuno per osare pronunciarmi su una questione tanto trascendente -, mi interrogo se tale crisi non sarà causa diretta, ancorché non unica, del risorgere, in condizioni diverse e con diversi risultati estetici, di quello che, a mio modo di vedere erroneamente, continuiamo a chiamare "romanzo storico". Come pure non si tratterà, in definitiva, di un'espressione particolare di un'altra crisi piú ampia: quella della rappresentazione, la crisi del linguaggio stesso come rappresentazione della realtà.

«Orbene, se la crisi esiste (quella della Storia, o un'altra, generale, di cui quella sarebbe solo una manifestazione parcellare), se in tutto quanto ci circonda è possibile trovare connessioni con questa impressione di fine di un periodo che stiamo sentendo - allora forse diviene piú chiaro il motivo per cui stiamo tornando al romanzo detto "storico", spinti da un'ansia che sicuramente farebbe sorridere con un certo disprezzo intellettuale, se ancora fossero di questo mondo, coloro che, nel secolo scorso, fervidamente credevano nel Progresso. Ci guarderebbero con sdegnosa compassione, domanderebbero com'è possibile che, dalle solide certezze che avevano, sia nata questa insicurezza che abbiamo noi.

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Pagina 112

25 novembre.

Su Fernando Pessoa.

«Era un uomo che conosceva le lingue e componeva versi. Si guadagnò pane e vino mettendo parole al posto di parole, fece versi come si fanno i versi, cioè, riordinando le parole in un certo modo. Cominciò col chiamarsi Fernando, uno come tanti. Un giorno gli venne in mente di annunciare l'imminente comparsa di un super-Camões, un Camões ben piú grande di quello antico, ma, essendo una creatura notoriamente discreta, che aveva l'abitudine di camminare lungo i Douradores in impermeabile chiaro, cravatta a nastrino e cappello senza piume, non disse che il super-Camões era lui stesso. Meno male. In definitiva, un super-Camões non è che un Camões piú grande, e lui si riservava per essere Fernando Pessoas, fenomeno mai visto prima in Portogallo. Naturalmente, la sua vita era fatta di giorni, e dei giorni noi sappiamo che sono uguali, ma che non si ripetono, ragion per cui non sorprende che uno di quei giorni, passando davanti a uno specchio, Fernando vi avesse colto, di sfuggita, un'altra persona. Pensò che si trattasse piuttosto di un'illusione ottica, di quelle che accadono sempre senza che vi prestiamo attenzione, o che l'ultimo bicchiere di acquavite gli avesse fatto male al fegato e alla testa, ma, per precauzione, fece un passo indietro per confermare se, com'è voce corrente, gli specchi non si sbagliano quando mostrano. Questo, per lo meno, si era sbagliato: c'era un uomo li a guardare dall'interno dello specchio, e quell'uomo non era Fernando Pessoa. Era persino un po' piú basso, aveva il viso tendente al bruno, tutto ben rasato. Con un movimento inconsapevole, Fernando si portò la mano al labbro superiore, poi respirò con sollievo infantile, i baffi c'erano. Molte cose ci si può aspettare dalle figure che appaiono nello specchio, tranne che parlino. E siccome questi, Fernando e l'immagine che non era la sua, non sarebbero rimasti li in eterno a guardarsi, Fernando Pessoa disse: "Mi chiamo Ricardo Reis". L'altro sorrise, annui con il capo e scomparve. Per un attimo, lo specchio rimase vuoto, nudo, ma subito dopo spuntò un'altra immagine, quella di un uomo magro, pallido, dall'aspetto di chi non avrà molta vita da godersi. A Fernando gli parve che questi avrebbe dovuto essere il primo, però non fece commenti, disse solo: "Mi chiamo Alberto Caeiro". L'altro non sorrise, si limitò ad annuire impercettibilmente, concordando, e andò via. Fernando Pessoa se ne rimase li ad aspettare, aveva sempre sentito dire che non c'è due senza tre. La terza figura tardò qualche secondo, ed era un uomo sul genere di quelli che hanno salute da dare e da vendere, con l'aria inconfondibile di un ingegnere laureato in Inghilterra. Fernando disse: "Mi chiamo Álvaro de Campos", ma stavolta non aspettò che l'immagine scomparisse dallo specchio, si allontanò lui, probabilmente stanco di essere stato tanti in cosí poco tempo. Quella notte, alle prime ore del mattino, Fernando Pessoa si svegliò chiedendosi se quel tal Álvaro de Campos fosse per caso rimasto nello specchio. Si alzò, ed era proprio la sua faccia quella che c'era. Disse allora: "Mi chiamo Bernardo Soares", e se ne tornò a letto. Fu dopo questi nomi e qualcun altro che Fernando pensò fosse giunta l'ora di essere anch'egli ridicolo e scrisse le lettere d'amore piú ridicole del mondo. Quando ormai era già molto avanti nei lavori di traduzione e di poesia, mori. Gli amici gli dicevano che aveva un grande futuro davanti, ma lui non deve averci creduto, tanto che decise di morire ingiustamente nel fiore dell'età, a 47 anni, s'immagini. Un attimo prima di spegnersi, chiese che gli dessero gli occhiali: "Datemi gli occhiali", furono le sue formali ed estreme parole. Fino a oggi nessuno si è mai interessato di sapere perché li volle, cosí si continuano a ignorare o disprezzare le volontà ultime dei moribondi, ma sembra alquanto plausibile che la sua intenzione fosse di guardarsi in uno specchio per sapere, infine, chi c'era. Non gli diede tempo, la parca. Tra l'altro, nella sua camera lo specchio neanche c'era. Questo Fernando Pessoas non giunse mai ad avere realmente la certezza di chi fosse, ma è proprio per via di questo dubbio che noi riusciamo a sapere un po' di piú chi siamo...»

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Pagina 149

1966



21 luglio.

Una rivista spagnola ha avuto l'idea di chiedere a un certo numero di scrittori di elaborare il proprio albero genealogico letterario, quali altri autori, cioè, considerassero come propri antenati, diretti o indiretti, escludendosi ovviamente dall'inventata parentela qualsiasi presunzione di rapporti o equivalenze di merito che la realtà, per lo meno nel mio caso, subito s'incaricherebbe di smentire. Si chiedeva anche di dare, con pochissime parole, la giustificazione di una tale sorta di adozione al contrario, in cui era il «discendente» a scegliere l'«ascendente». A ogni scrittore consultato è stato consegnato il disegno di un albero con undici cornici sparse sui vari rami, dove suppongo che andranno inseriti i ritratti degli autori scelti. La mia lista, con il rispettivo fondamento, è stata questa: Luís de Camões, perché, come ho scritto nell' Anno della morte di Ricardo Reis, tutte le strade portoghesi portano a lui; Padre António Vieira, perché la lingua portoghese non è mai stata piú bella di quando la scrisse lui; Cervantes, perché senza di lui la Penisola Iberica sarebbe una casa senza tetto; Montaigne perché non ha avuto bisogno di Freud per sapere chi era; Voltaire, perché ha perduto le illusioni sull'umanità ed è sopravvissuto; Raul Brandão, perché ha dimostrato che non c'è bisogno di essere un genio per scrivere un libro geniale, Humus; Fernando Pessoa, perché la porta attraverso cui si arriva a lui è la porta attraverso cui si arriva al Portogallo; Kafka, perché ha dimostrato che l'uomo è un coleottero; Eça de Queiroz, perché ha insegnato ai portoghesi l'ironia; Jorge Luis Borges, perché ha inventato la letteratura virtuale; Gogol', perché ha contemplato la vita umana e l'ha trovata triste.

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