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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione. Una feroce selezione 7 L Le economie si contraggono, le espulsioni aumentano 19 II. Il nuovo mercato globale della terra 91 III. La finanza e le sue capacità: dalla logica sistemica alla crisi 129 IV. Terre morte, acque morte 163 Conclusione. Al margine sistemico 227 Riferimenti bibliografici 241 Indice dei nomi 285 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Introduzione
Una feroce selezione
L'economia politica globale dei nostri giorni ci pone di fronte a un nuovo, allarmante problema: l'emergere della logica dell' espulsione. Gli ultimi due decenni hanno visto crescere rapidamente il numero di persone, imprese e luoghi espulsi dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo. Questa decisa svolta a favore della pratica radicale dell'espulsione è stata in alcuni casi il frutto di mere decisioni, mentre in altri è dipesa direttamente da alcune fra le realizzazioni economiche e tecnologiche più avanzate del tempo presente. Più ancora che nella familiare esperienza della crescita della disuguaglianza, è nell'idea dell'espulsione che si riflettono le patologie dell'attuale capitalismo globale. Inoltre, quell'idea rende palese il fatto che forme di conoscenza e intelligenza che si rispettano e si ammirano sono spesso all'origine di lunghe catene di transazioni che all'ultimo anello non possono avere altro che espulsioni. Mi concentro su forme complesse di espulsione perché queste mettono a nudo dinamiche fondamentali della nostra epoca. Inoltre, ne scelgo dei casi estremi perché rendono chiaramente visibile ciò che altrimenti potrebbe rimanere vago e dare dunque origine a confusioni. L'Occidente ne offre un esempio familiare, a un tempo complesso ed estremo: l'espulsione dei lavoratori a basso reddito e dei disoccupati dai sistemi pubblici di servizi sociali e sanitari, nonché dai programmi aziendali di previdenza e sostegno alla disoccupazione. Al di là dei negoziati e dell'adozione delle nuove leggi necessarie per procedere alle espulsioni, vi è il fatto estremo che la divisione fra chi ha accesso alle prestazioni di quei sistemi e chi ne è invece escluso si è accentuata e, nelle condizioni attuali, potrebbe facilmente risultare irreversibile. Un altro esempio è l'impiego di tecniche minerarie avanzate, quali in particolare la fratturazione idraulica, che trasformano tratti di ambiente naturale in enormi distese di terre e acque morte, espellendo interi pezzi di vita dalla biosfera. Nel loro insieme, le molte, diverse forme di espulsione che esamino in questo libro potrebbero contribuire a cambiare il mondo molto più di quanto ci si possa aspettare dalla rapida crescita economica di India, Cina e qualche altro paese. Di fatto, tali espulsioni possono coesistere con la crescita economica misurata secondo i canoni convenzionali, un punto fondamentale per la mia tesi. Gli strumenti di queste espulsioni vanno da semplici provvedimenti a istituzioni, sistemi e tecniche complesse che richiedono conoscenze specializzate e complicati intrecci organizzativi. Ne è un esempio il rapido sviluppo di strumenti finanziari sempre più complessi, opera di brillanti esperti di finanza creativa e di metodi matematici avanzati. Eppure, quando è stata utilizzata per sviluppare un particolare tipo di mutuo ipotecario, il cosiddetto subprime, quella complessità ha portato nell'arco di pochi anni all'espulsione di milioni di persone dalle loro case negli Stati Uniti, in Ungheria, in Lettonia e in molti altri paesi. Un altro esempio è la complessità del quadro normativo e contabile dei contratti che consentono a un governo sovrano di acquisire enormi distese di terra in un paese straniero sovrano, facendone una sorta di propaggine del proprio territorio — per esempio, coltivandovi raccolti destinati alle proprie classi medie — a costo di espellerne interi villaggi ed economie rurali. Un altro esempio ancora è costituito dalla brillante ingegneria dell'industria mineraria che assicura la possibilità di estrarre ciò che si vuole dalle viscere della Terra, sfigurandone en passant la superficie. Le nostre economie politiche avanzate hanno creato un mondo in cui troppo spesso la complessità tende a produrre forme di pura e semplice brutalità. L'espulsione passa per diverse vie, assai diverse fra loro: dalle politiche di austerità che hanno contribuito alla contrazione delle economie greca e spagnola alle politiche ambientali che ignorano le emissioni tossiche di enormi complessi minerari a Norilsk in Russia e nello Stato americano del Montana, ad altri innumerevoli casi. La specificità di ciascun caso è importante per questo libro. Per esempio, dato che ci stiamo interessando della distruzione dell'ambiente anziché delle differenze fra le politiche di determinati Stati, il fatto che entrambi quei complessi minerari inquinino pesantemente ha più importanza del fatto che uno sia ubicato in Russia e l'altro negli Stati Uniti. I diversi processi e condizioni che includo nella nozione di espulsione sono accomunati dal carattere di estrema acutezza con cui si manifestano. Benché la povertà degradante diffusa nel mondo ne offra l'esempio più significativo, includo fra le diverse condizioni dell'espulsione anche l'impoverimento dei ceti medi nei paesi ricchi, in quelli poveri la cacciata di milioni di piccoli contadini da oltre 220 milioni di ettari di terra — oltre 540 milioni di acri — acquistati da investitori e governi stranieri a partire dal 2006 e le pratiche minerarie distruttive in paesi tanto differenti fra loro quanto gli Stati Uniti e la Russia. Vi sono poi le enormi popolazioni ammassate in campi profughi, istituiti ufficialmente o sorti spontaneamente, i gruppi di emarginati che affollano le prigioni dei paesi ricchi e i disoccupati, uomini e donne in grado di lavorare, costretti dalla disoccupazione cronica a sopravvivere in ghetti e bidonville. Espulsioni simili si verificano da molto tempo, ma non sulla scala attuale. Altre sono di tipo nuovo, come quella dei 9 milioni di famiglie degli Stati Uniti colpite da procedimenti di esproprio delle case nel corso di una breve e rovinosa crisi immobiliare durata un solo decennio. In sintesi, le caratteristiche, gli oggetti e i luoghi di queste espulsioni variano enormemente a seconda delle fasce sociali, delle condizioni fisiche e delle parti di mondo in cui avvengono. La globalizzazione del capitale e l'impetuoso sviluppo delle capacità tecniche hanno determinato un enorme salto di scala dei processi di espulsione: fenomeni che negli anni Ottanta del secolo scorso potevano essere considerati alla stregua di dislocazioni e perdite secondarie, quali la deindustrializzazione dell'Occidente e di diversi paesi africani, erano divenuti ormai vere e proprie devastazioni negli anni Novanta (si pensi a Detroit e alla Somalia). Interpretare questo salto di scala come un semplice incremento della disuguaglianza, della povertà e delle capacità tecniche preesistenti significa precludersi la possibilità di cogliere la tendenza di fondo. Lo stesso va detto dell'ambiente: usiamo la biosfera e produciamo danni locali da millenni, ma soltanto negli ultimi trent'anni il danno è cresciuto fino a diventare un evento planetario che può ripercuotersi ovunque, coinvolgendo spesso luoghi — quali le zone artiche del permafrost — che nulla avevano a che fare con quelli in cui la distruzione ebbe origine. E tutto ciò vale anche per altri domini, ciascuno dei quali con le proprie specificità. | << | < | > | >> |Pagina 12Anziché cercare il significato dei fatti in livelli elevati di astrazione teorica, io cerco di de-teorizzarli riducendoli all'essenziale. Grazie a questa de-teorizzazione possiamo rivisitare categorie quali la disuguaglianza, la finanza, le attività estrattive, l'accaparramento delle terre (land grabbing) dei paesi poveri e molte altre ancora, per cogliere ciò che ci sfuggirebbe se ci servissimo di categorizzazioni a livelli più alti di astrazione e generalità; possiamo così percepire la radicale realtà delle espulsioni là dove non si vedrebbe altro che la crescita della disuguaglianza e della speculazione finanziaria, l'avanzata dei trivellatori del pianeta e così via. In breve, uno dei miei obiettivi è rimanere aderente al livello elementare dei fatti, astraendo dal soverchiante apparato di categorie familiari che filtrano la nostra interpretazione delle tendenze attuali.In forma estremamente schematica, la mia ipotesi è che le specificità nazionali di crisi globali differenti siano sottese da tendenze sistemiche emergenti determinate da poche dinamiche di fondo. Per questo motivo, la ricerca empirica e la ricodificazione concettuale devono procedere di pari passo. Dal punto di vista empirico, un fenomeno può apparire «cinese» o «italiano» o «australiano», ma questa percezione non ci aiuta a individuare il DNA della nostra epoca, anche se tali etichette ne catturano certe caratteristiche. Può darsi che in Cina persistano molte delle caratteristiche di una società comunista, ma la disuguaglianza crescente e il recente impoverimento dei suoi modesti ceti medi potrebbero avere origine da tendenze più profonde che agiscono anche, per esempio, negli Stati Uniti. Nonostante le persistenti differenze, in entrambi i paesi possono operare le fondamentali logiche che organizzano l'economia contemporanea, sottese in particolare alla finanza trainata dalla speculazione e alla spinta alla realizzazione di super-profitti. Questi parallelismi e le loro conseguenze per le popolazioni, i luoghi e le economie possono benissimo rivelarsi più importanti per la comprensione della nostra epoca che non le differenze fra il comunismo e il capitalismo. In effetti, a un livello meno superficiale tali «parallelismi» possono rivelarsi ubique materializzazioni di tendenze che sono più profonde della speculazione e dei super-profitti ma ancora invisibili, non essendo state individuate, designate o concettualizzate. La centralità che attribuisco alla materializzazione di tendenze globali all'interno dei singoli paesi contrasta con la propensione, di gran lunga più comune, a concentrarsi sulla deregolamentazione dei confini nazionali, visti come le linee che demarcano i luoghi della trasformazione in atto. Si tratta, a mio avviso, di un problema di interpretazione. Quando si esaminano le trasformazioni odierne – crescita della disuguaglianza, della povertà e del debito pubblico – gli strumenti che si utilizzano comunemente per interpretarle sono obsoleti. E ci riportano alle solite spiegazioni: le politiche fiscali dei governi sono irresponsabili, le famiglie si indebitano oltre le loro possibilità, gli investimenti di capitale sono inefficienti a causa dell'eccessiva regolamentazione e così via. Non nego che tali spiegazioni siano di una qualche utilità, ma sono più interessata a cercare di stabilire se anche altre dinamiche attraversino questi tradizionali, familiari confini concettuali. Il vasto insieme di fatti e di casi dei quali mi servo in questo libro denota la presenza di limiti nelle attuali categorizzazioni fondamentali. A dispetto di tutte le differenze esistenti, che si tratti di comunismo o di democrazia liberale, di Africa o di Nord America, nell'estrarre minerali dalla terra, nel produrre, nel modo di usare le persone, prevalgono comunque pratiche che equivalgono, metaforicamente parlando, a commettere crimini che rimangono impuniti. I vari ordinamenti politico-economici attribuiscono a tali pratiche significati differenti, e mi chiedo se questi significati non mascherino più di quanto rivelino. Mi servo dei casi presentati in questo libro come di meri fatti, esempi concreti che possono aiutare a individuare tendenze concettualmente sotterranee che attraversano i nostri discrimini geopolitici. L'attuale forte aumento di sfollati nell'Africa subsahariana è affine, dal punto di vista sistemico, alla rapida crescita dei disoccupati cronici e della popolazione carceraria negli Stati Uniti? Ed esiste un'affinità di natura sistemica fra l'impoverimento dei ceti medi greci ed egiziani, nonostante i rispettivi paesi abbiano economie politiche molto differenti? Il grande complesso minerario di Norilsk, in Russia, fonte di una grave, duratura tossicità, è sistemicamente affine alle società minerarie di Zortman-Landusky del Montana, negli Stati Uniti, con la loro praticamente insanabile tossicità? Questi fatti, considerati nella loro essenzialità, aiutano a liquidare vecchie sovrastrutture concettuali, come l'abito mentale di contrapporre invariabilmente capitalismo e comunismo nella ricerca di spiegazioni. Le trasformazioni epocali che qui mi interessano sono radicate in storie e genealogie differenti e spesso antiche. Ma il mio punto di partenza sono gli anni Ottanta del Novecento, un fondamentale periodo di cambiamento sia a sud che a nord, tanto nelle economie capitalistiche quanto in quelle comuniste. Contraddistinguono questo periodo due profondi mutamenti, parte dei vasti cicli storici iniziati negli anni Ottanta. Tali due mutamenti si verificano ovunque, ma evolvono con modalità fortemente specifiche in ciascuna località, ed è questa la caratteristica che ne fa un utile sfondo su cui collocare la presente ricerca. Il primo di tali mutamenti è lo sviluppo materiale di aree planetarie sempre più estese, che assumono un'importanza cruciale per lo svolgimento di operazioni economiche essenziali. A un estremo, questo fenomeno assume la forma del trasferimento globale di produzioni manifatturiere, servizi, lavori d'ufficio, prelievo di organi umani e coltivazione di raccolti industriali, verso aree a basso costo scarsamente regolamentate. All'altro estremo, ha luogo su scala mondiale l'intenso processo di formazione di città globali che fungono da spazi strategici per lo svolgimento di funzioni economiche avanzate: rientrano in questo processo la costruzione dal nulla di nuove città e il rinnovamento, attuato spesso con metodi brutali, di vecchi centri urbani. Nel contesto della geografia planetaria la rete delle città globali, al pari di quella dei luoghi di destinazione dell' outsourcing, configura una nuova centralità che attraversa i vecchi discrimini fra nord e sud, fra Oriente e Occidente. Il secondo mutamento è l'ascesa della finanza nella rete delle città globali. La finanza non è di per se stessa una novità; da millenni fa parte della nostra storia. Ciò che vi è di nuovo e di caratteristico nell'epoca attuale è la capacità della finanza di sviluppare strumenti enormemente complessi che consentono di cartolarizzare quantità senza precedenti di entità e processi; inoltre, l'ininterrotta avanzata delle reti e degli strumenti elettronici contribuisce a determinare effetti moltiplicativi apparentemente illimitati. Questa ascesa della finanza ha importanti conseguenze per l'economia in generale: mentre l'attività bancaria tradizionale consiste nel vendere del denaro che la banca ha, la finanza vende invece qualcosa che la banca non ha. A tal fine la finanza deve invadere – ossia, cartolarizzare – settori non finanziari per portare l'acqua al proprio mulino. E per questo non vi è strumento migliore dei derivati. Per illustrare tale capacità della finanza si può riflettere sul fatto che nel 2005, ben prima che la crisi iniziasse a montare, il valore (contabile) del volume di derivati in essere ammontava a 630 mila miliardi di dollari, quattordici volte il prodotto interno lordo (PIL) globale. Nella storia dell'Occidente si può trovare qualche precedente di un disallineamento tra il valore del PIL e quello della finanza, ma mai di simili proporzioni. Si tratta di una radicale rottura rispetto al periodo keynesiano, quando la crescita economica non era trainata da una finanziarizzazione onnivora, bensì dalla grande espansione delle economie materiali, quali la produzione industriale di massa e la costruzione di grandi infrastrutture e quartieri suburbani. La spoliazione e la distruzione possono essere considerate il tratto saliente del capitalismo avanzato della nostra epoca rispetto a quello tradizionale; vale a dire che fra l'attuale capitalismo avanzato e quello tradizionale esiste un rapporto non dissimile da quello che esisteva fra quest'ultimo e le economie precapitalistiche. Portato alle estreme conseguenze, ciò comporta l'immiserimento e l'esclusione di masse crescenti di persone che non hanno più valore come lavoratori e consumatori, ma oggi può significare anche che attori economici un tempo cruciali per lo sviluppo del capitalismo, come la piccola borghesia e le borghesie nazionali tradizionali, non sono più di alcun valore per il sistema in generale. Queste tendenze non sono anomalie né conseguenze di una crisi: fanno invece parte dell'attuale approfondimento sistemico dei rapporti capitalistici. E, come sosterrò, ciò vale anche per la contrazione dello spazio economico, distinto da quello finanziario, in Grecia, Spagna, Stati Uniti e molti altri paesi sviluppati. Le persone, in quanto consumatori e lavoratori, hanno perso di importanza per l'estrazione di profitto in una serie di settori economici. Per esempio, nella prospettiva del capitalismo odierno le risorse naturali di gran parte dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia Centrale sono più importanti dei lavoratori o dei consumatori che vivono in quelle regioni. Se ne può concludere che il capitalismo della nostra epoca non è affatto simile a quelle sue forme precedenti che fiorirono grazie alla rapida espansione e alla relativa prosperità della classe operaia e dei ceti medi. La massimizzazione del consumo delle famiglie fu una dinamica cruciale di quell'epoca, come lo è oggi nelle cosiddette «economie emergenti», ma nel complesso non è più il fattore sistemico strategico che contribuì a trainare la crescita per la maggior parte del XX secolo. E ora? Storicamente gli oppressi si sono spesso sollevati contro i padroni. Ma oggi gli oppressi sono stati per lo più espulsi e sopravvivono in luoghi molto lontani dai loro oppressori. Inoltre, l'«oppressore» è sempre più un sistema complesso che combina persone, reti, macchine, ed è privo di un centro ben definito. Eppure esistono luoghi in cui tutto ciò si ricompone, dove il potere diviene concreto e può essere affrontato, dove gli oppressi sono parte dell'infrastruttura sociale creata a sostegno del potere. Le città globali sono uno di tali luoghi. | << | < | > | >> |Pagina 19Capitolo primo
Le economie si contraggono, le espulsioni aumentano
In questo capitolo mi prefiggo di sostanziare l'ipotesi che negli anni Ottanta del secolo scorso si sia entrati in una nuova fase del capitalismo avanzato, che ha visto reinventati i suoi meccanismi di accumulazione primitiva. Quella di oggi è una forma di accumulazione primitiva attuata per mezzo di operazioni complesse e innovazioni altamente specializzate, dalla logistica dell' outsourcing agli algoritmi della finanza. Dopo trent'anni di sviluppi di questo tipo, constatiamo che le economie si contraggono in gran parte del mondo, le distruzioni della biosfera avanzano a livello planetario e ricompaiono forme estreme di povertà e di brutalizzazione, in luoghi dove pensavamo che fossero state eliminate o sul punto di scomparire. Da molto tempo ciò che chiamiamo comunemente «sviluppo economico» dipende dalla pratica di estrarre dei beni in qualche parte del mondo per inviarli altrove. Nel corso degli ultimi decenni questa geografia dell'estrazione ha conosciuto una rapida espansione, dovuta in buona parte all'adozione di nuove tecnologie complesse, e oggi è segnata da squilibri sempre più acuti derivanti dalla situazione delle risorse naturali e dall'uso che se ne fa. L'insieme di innovazioni che oggi espandono la capacità di estrazione mette a repentaglio componenti essenziali della biosfera, mentre dissemina l'ambiente umano di distese di terre e acque morte. Si tratta in parte di una vecchia storia. La crescita economica non è mai stata molto delicata; ma le accelerazioni degli ultimi tre decenni segnano un'epoca nuova, in quanto minacciano una quantità crescente di esseri umani e di luoghi in tutto il mondo. Tale crescita assume tuttora tratti e contenuti specifici, che distinguono l'insieme di paesi diversamente sviluppati che designiamo «nord globale» da quello di paesi meno — o diversamente — sviluppati che designiamo «sud globale». Per esempio, le élite predatorie si intromettono da molto tempo negli affari dei paesi poveri, ricchi di risorse naturali, non in quelli dei paesi sviluppati. Ma oggi, anche in questi ultimi, simili ingerenze divengono sempre più frequenti ai livelli alti, seppure passando per canali di mediazione più complessi. Secondo la mia tesi, ciò che vediamo emergere non sono tanto élite predatorie quanto «formazioni» predatorie, una combinazione di élite e capacità sistemiche, il cui fondamentale fattore abilitante è la finanza, che spinge il sistema in direzione di una concentrazione sempre più acuta [Sassen 2008a; 2008b; 2008c, capp. IV e VII; 2013]. La concentrazione al vertice non è nulla di nuovo. Ciò che mi interessa sono le forme estreme che oggi essa assume in un numero crescente di campi e in gran parte del mondo. Ai seguenti fenomeni, per citarne soltanto alcuni, attribuisco la capacità di generare una concentrazione estrema: negli ultimi vent'anni la ricchezza dell'1 per cento più ricco della popolazione globale è aumentata del 60 per cento; nel 2012, al vertice di quell'1 per cento, i «100 miliardari [più ricchi] hanno aggiunto 240 miliardi di dollari alla loro ricchezza, quattro volte quanto basterebbe per eliminare la povertà mondiale» [Oxfam 2012, 1-2] (vedi anche Atkinson, Piketty e Saez [2011]). Le attività bancarie sono cresciute del 250 per cento fra il 2002 – ben prima del culmine della crisi – e il 2011, a ripresa già iniziata, passando da 40 mila a 105 mila miliardi di dollari, quasi il doppio del valore del PIL globale [IMF 2012a, 82; Johnston 2013, sulle società americane]. Nel 2010, ancora un periodo di crisi, i profitti dei 5,8 milioni di società per azioni degli Stati Uniti sono cresciuti del 53 per cento rispetto al 2009, ma nonostante l'impennata dei profitti, negli Stati Uniti le imposte sui medesimi si sono ridotte di 1,9 miliardi di dollari, ossia del 2,6 per cento. I ricchi e le imprese globali non avrebbero potuto da soli concentrare nelle proprie mani una simile quota della ricchezza mondiale. Devono avere ricevuto un aiuto che potremmo definire «di natura sistemica»: un'interazione complessa di questi attori con sistemi riorientati al fine di conferire loro il potere di concentrare elevate quantità di ricchezza. Tali capacità sistemiche sono una combinazione variabile di innovazioni tecniche, di mercato e finanziarie, abilitate dall'azione dei governi. Esse costituiscono una condizione semiglobale, benché funzionino spesso tramite le caratteristiche specifiche – economie politiche, sistemi giuridici, governi – dei vari paesi [Sassen 2008c, cap. V]. Possiedono enormi capacità di intermediazione, una sorta di cortina di nebbia che ci impedisce di vedere che cosa ci sia dietro; ma, diversamente da un secolo fa, se questa nebbia si diradasse non vedremmo i magnati con il cilindro e il sigaro. Oggi le strutture sottese alla concentrazione non sono più i feudi di pochi «baroni ladri», bensì gli assemblaggi complessi di una molteplicità di elementi. Secondo la mia tesi, un sistema capace di concentrare ricchezza su questa scala è del tutto peculiare. È differente, per esempio, da un sistema in grado di determinare l'espansione e la relativa prosperità di lavoratori e ceti medi, come accadde durante la maggior parte del XX secolo nel nord globale, in gran parte dell'America Latina e in diversi paesi africani, segnatamente in Somalia. Quel sistema era tutt'altro che perfetto: era caratterizzato da disuguaglianza, concentrazione della ricchezza, povertà, razzismo e molto altro ancora. Ma si trattava di un sistema capace di generare una classe media che ha continuato a espandersi per diverse generazioni, con i figli che per lo più miglioravano le proprie condizioni rispetto a quelle dei padri. Inoltre, questi effetti redistributivi non erano semplicemente opera delle persone coinvolte: richiedevano l'azione di capacità sistemiche specifiche. Negli anni Ottanta del Novecento tali capacità apparivano ormai indebolite, e si osservava l'emergere di attitudini che andavano in direzione della concentrazione al vertice, anziché dello sviluppo di un'ampia classe media. Così, per esempio, il fatto che il 10 per cento superiore della scala del reddito degli Stati Uniti abbia catturato il 90 per cento della crescita del reddito del primo decennio del Duemila non può essere dovuto soltanto a capacità individuali: fu opera di quella combinazione complessa che connoto come «formazione predatoria». Nella prima parte del paragrafo 1 del presente capitolo rifletto sulla possibilità che la crescita economica si dia in forme diverse con esiti distributivi diversi. Nella nostra modernità globale assistiamo all'ascesa di forme di accumulazione che vengono spesso definite «primitive», solitamente associate a economie precedenti. Tali forme moderne di accumulazione primitiva non hanno nulla a che vedere con le antiche recinzioni che in Inghilterra sottrassero terre agli usi comuni per destinarle al pascolo delle pecore da lana e soddisfare così la domanda dell'industria tessile inglese durante la rivoluzione industriale. Oggi occorrono strumenti tecnici e giuridici enormemente complessi per realizzare quelle che in sostanza non sono altro che semplici operazioni di estrazione di risorse o di ricchezza. Si tratta, per citare solo qualche esempio, delle «recinzioni» erette da imprese finanziarie intorno alle risorse di un paese o alle imposte pagate dai cittadini, del riposizionamento di spazi mondiali crescenti come luoghi di estrazione di risorse e del nuovo orientamento delle democrazie liberali, volto a ridurre all'osso la spesa dei bilanci pubblici destinata al soddisfacimento dei bisogni sociali e al sostegno dei poveri. Veniamo così a disporre di una lente critica per vagliare a fondo, nei paragrafi 1.1 e 1.2, la disuguaglianza globale. Se continua ad aggravarsi, la disuguaglianza può raggiungere un punto oltre il quale è più esatto definirla una forma di espulsione. Verso il fondo della scala sociale, per le masse di poveri e indigenti, si tratta di espulsione dal proprio spazio vitale; mentre per chi si trova al vertice della piramide sociale questo esito significa la liberazione dalle responsabilità derivanti dall'appartenenza alla società, il via libera all'estrema concentrazione della ricchezza disponibile nella società e l'assenza di qualsiasi propensione a redistribuire quella ricchezza. Muovendo dalla discussione del modo repentino in cui opera la disuguaglianza, il paragrafo 1.3 esamina realtà familiari che, una volta portate alle estreme conseguenze, si capovolgono di colpo in situazioni inimmaginabili (l'altra faccia della medaglia). Per rendere visibile l'attuale capacità sistemica di trasformare repentinamente realtà familiari in casi estremi, mi concentro sul mondo sviluppato. La Grecia e la Spagna in particolare sono entrate in una fase di ridimensionamento dell'economia, di proporzioni che sembravano impensabili solo qualche anno fa. Questi primi tre paragrafi pongono in risalto la rapidità con cui la nostra normalità può evolvere nel suo opposto. Il paragrafo 2 si concentra su due forme acute di espulsione che hanno particolari probabilità di diffondersi in certe parti del mondo. Una è l'aumento, verificatosi negli ultimi due decenni, della popolazione sfollata, segnatamente nel sud globale; l'altra è la rapida crescita della popolazione carceraria in un numero sempre maggiore di paesi del nord globale. Queste e tante altre questioni di vecchia data ma in via di mutamento lasciano intravedere una mutazione sistemica multisituata (multisited). Nel sud globale, sia le diverse cause dello sfollamento sia il futuro degli sfollati portano a mettere in discussione la classificazione ufficiale degli sfollati adottata dalle Nazioni Unite, dato che molti di essi non torneranno mai più a casa e, se cercassero di farlo, si troverebbero in un campo di battaglia, in una piantagione o in una miniera. Un mutamento equivalente è evidente nel nord globale, dove quella che un tempo era l'incarcerazione dovuta a un crimine — che fosse stato commesso o meno — oggi sta divenendo una sorta di «internamento» di masse umane, un'attività che viene svolta sempre di più a scopo di lucro, con gli Stati Uniti all'avanguardia anche in questo. | << | < | > | >> |Pagina 44Quando le statistiche ufficiali finiscono per non tenere più conto di certe drastiche contrazioni economiche, di fatto si viene a ridefinire 1'«economia». I disoccupati che perdono tutto – lavoro, casa, assistenza sanitaria – cadono facilmente al di fuori di quello che s'intende con questo termine. Lo stesso vale per i piccoli commercianti e gli imprenditori rovinati che si suicidano. E vale anche per i ricercatori e i professionisti che in numero sempre maggiore emigrano dall'Europa. Queste tendenze ridefiniscono lo spazio dell'economia, lo contraggono e cancellano una buona parte dei disoccupati e dei poveri dalle statistiche ufficiali. Una volta ridefinita «l'economia» in modo da renderla, per così dire, presentabile, si può persino vantare una modesta crescita del PIL pro capite. Ma, così ridotta, di fatto la realtà diviene una sorta di versione economica della pulizia etnica, in cui gli elementi considerati molesti vengono semplicemente eliminati. Questa contrazione e ridefinizione dello spazio economico, che consente di presentare le economie «rimesse in sesto», riguarda un numero sempre maggiore di paesi dell'Unione europea e di altre zone. Un ruolo particolare è quello dell'FMI e della Banca centrale europea (BCE), con la loro narrazione di ciò che serve per ritornare alla crescita. FMI e BCE riescono, entro certi limiti, a far passare la loro narrazione, sia perché la loro è l'unica voce ascoltata in materia sia perché parlano il linguaggio della crescita, non quello della contrazione economica. Così, nel gennaio 2013 la Banca centrale europea ha dichiarato che l'economia greca era sulla via del ritorno alla crescita, e Moody's ha aggiunto un punto al rating del debito greco; la valutazione resta bassa, ma questi annunci di un qualche ritorno alla crescita servono in quanto gli investitori ne tengono conto. Ciò che tali statistiche non ci dicono è che dall'ambito economico così misurato è stata cancellata una buona quantità di famiglie, imprese e luoghi. Queste realtà espulse vengono rese invisibili per le misurazioni ufficiali, escludendone gli effetti negativi dal calcolo dei tassi di crescita medi.| << | < | > | >> |Pagina 732.2. La carcerazione come espulsionePer apprezzare pienamente le sfumature del sistema capitalistico avanzato in cui stiamo vivendo, si deve considerare un ultimo meccanismo dell'espulsione: il rapido aumento dell'incarcerazione, che, al limite, sta divenendo una forma di brutale espulsione dell'eccesso di popolazione attiva presente nel nord globale, specie negli Stati Uniti e, sempre di più, nel Regno Unito. In una prospettiva globale, si possono cogliere assonanze sistemiche fra le masse di carcerati, i rifugiati internati nei centri di raccolta e gli sfollati costretti ad abbandonare forzatamente le proprie case. Ciascuno di questi tre elementi segnala la presenza di più ampie dinamiche alla radice dell'espulsione, che affiorano dalle dense realtà di differenti località e siti sistemici. L'esistenza di queste dense realtà di base, nonché di filoni di ricerca specializzati in ciascuno di questi tre campi, assai differenti fra loro, dissuadono dall'elaborare concettualizzazioni che potrebbero rinviare a paralleli sistemici. Secondo la mia interpretazione, di fatto questi tre elementi sono differenti forme localizzate di tendenze concettuali sotterranee che attraversano le distinzioni tradizionali. La carcerazione di massa è da molto tempo presente nei regimi dittatoriali più brutali, ma oggi sta emergendo come una realtà inestricabilmente connessa al capitalismo avanzato, anche se passa attraverso la formalità dell'incriminazione. Le popolazioni carcerarie sono in gran parte composte da individui che non hanno lavoro e, dati i tempi, sono destinati a restarne per sempre privi; non era proprio così vent'anni fa, quando un carcerato aveva qualche possibilità di venire riabilitato e vedere soddisfatta l'aspirazione a un lavoro. In questo senso, le popolazioni carcerarie degli Stati Uniti e del Regno Unito divengono sempre più simili alla versione attuale della manodopera eccedente, che caratterizzò i brutali albori del capitalismo moderno. | << | < | > | >> |Pagina 752.3. La carcerazione negli Stati Uniti nel contesto globaleAttualmente 1 americano su 100 è incarcerato in una prigione di Stato o federale, oppure è detenuto in una cella locale in attesa di giudizio. Se si aggiungono le persone in stato di libertà vigilata o di sospensione condizionale della pena, il totale sale a 7 milioni di persone, 1 americano su 31. E se si contano tutte le persone con un precedente di arresto o detenzione, si arriva a 65 milioni di persone, 1 americano su 4. Il fatto che oggi il sistema giudiziario penale statunitense tocchi oltre il 25 per cento della popolazione è un caso del tutto anomalo rispetto alla maggior parte dei paesi del nord globale. Se si dovesse mai fornire un argomento a riprova della natura eccezionale del caso americano si potrebbe addurre la proliferazione del complesso carcerario privato a opera delle grandi società. Non soltanto gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale dei tassi di carcerazione, ma lo Stato della Louisiana è divenuto la capitale carceraria del mondo, con 1 abitante su 55 oggi dietro le sbarre. | << | < | > | >> |Pagina 129Capitolo terzo
La finanza e le sue capacità: dalla logica sistemica alla crisi
All'atto di venire percepito, il profitto finanziario non ha particolari connotazioni etiche: infatti, potrà venire impiegato per fini inequivocabilmente buoni, per esempio potrà materializzarsi in una risorsa non finanziaria come un sistema di trasporti ecologico. Viceversa, potrà venire impiegato per fini iniqui: poniamo, per fornire armi ai signori della guerra. Oppure potrà essere lasciato allo stato immateriale, utilizzato come una piattaforma su cui costruire impalcature finanziarie sempre più speculative, che possono divenire talmente complesse da rendere arduo qualsiasi tentativo di analizzarle empiricamente, per non parlare della possibilità di esaminarle da un punto di vista etico. L'ultima di queste tendenze, che trova una manifestazione spettacolare nel mercato dei derivati, è giunta a dominare la finanza negli ultimi vent'anni. Fino all'esplosione della crisi finanziaria, l'opacità delle operazioni impediva di capire quanto possa essere pericoloso questo mercato. Esso ha generato i livelli estremi di finanziarizzazione che oggi sono evidenti in diversi grandi paesi sviluppati. Si possono cogliere gli ordini di grandezza che il sistema finanziario ha raggiunto negli ultimi due decenni considerando il valore totale dei derivati in essere, una forma di debito complesso che deriva il suo valore da un'altra fonte, che può andare da altri tipi di debito a beni materiali quali edifici e raccolti agricoli; oggi i derivati sono lo strumento finanziario più comune. Prima che la crisi esplodesse, nel 2008, il valore totale dei derivati in essere ammontava a 600 mila miliardi di dollari (oltre dieci volte il valore del PIL globale) e, dopo una breve caduta, ha ripreso ben presto a crescere. Nel 2012, pochi anni dopo quel rovinoso evento che ha travolto imprese, governi e intere economie, il valore globale dei derivati aveva superato gli 800 mila miliardi di dollari e all'inizio del 2013 oltrepassava il milione di miliardi. Analogamente, il valore degli attivi bancari, che era attestato su 160 mila miliardi di dollari immediatamente prima della crisi, era salito a quasi 200 mila miliardi nel 2010 e da allora ha continuato a salire. Al contrario, il PIL globale era caduto da 55 mila miliardi di dollari nel 2007 a 45 mila miliardi all'inizio del 2008, di riflesso alla crisi economica. La potenza della finanza, e ciò che la rende pericolosa, è la capacità di far crescere il proprio valore persino mentre famiglie, economie e governi ne vanno perdendo. Concepisco la finanza come una capacità (capability), seppure di valenza variabile; essa non corrisponde al concetto, positivamente connotato, di capability di Amartya Sen o Martha Nussbaum. La finanza va tenuta distinta dall'attività bancaria tradizionale. Le banche tradizionali vendono denaro che possiedono; le imprese finanziarie vendono qualcosa che non hanno, il che le spinge a essere di gran lunga più innovative e invasive dell'attività bancaria tradizionale. Sotto questo aspetto si può pensare la finanza come la capacità di cartolarizzare praticamente tutto ciò che esiste in un'economia e, così facendo, di sottoporre economie e governi ai propri criteri di misurazione del successo. Con la cartolarizzazione, un edificio, un bene o un debito vengono tramutati in un circuito finanziario, dove divengono mobili e possono essere acquistati e venduti in mercati vicini e lontani. Negli ultimi due decenni la finanza ha inventato spesso strumenti molto complessi per cartolarizzare anche gli oggetti più familiari, non soltanto debiti di qualità eccellente, ma anche prestiti contratti per acquistare un'auto usata e debiti pubblici comunali di modesta entità. Una volta cartolarizzato un certo input, l'ingegneria finanziaria può continuare a costruire su di esso lunghe catene di strumenti sempre più speculativi, che poggiano sull'asserita stabilità di quel primo elemento. Si tratta, dunque, di una capacità del tutto peculiare e spesso pericolosa. (È opportuno ricordare che certi tipi di derivati, fra gli strumenti chiave del funzionamento della finanza, erano stati dichiarati sostanzialmente illegali negli Stati Uniti. Soltanto nel 1973 i derivati furono nuovamente dichiarati legali nel mercato delle merci di Chicago). Al cuore della finanza vi sono l'invenzione e lo sviluppo di strumenti complessi. Qui entrano in gioco la matematica e i modelli della fisica, non già quelli della microeconomia. Ne costituiscono un esempio calzante il buon numero di fisici presenti nel retrobottega di Goldman Sachs, dove si elaborano metodi matematici che riescono per lo più incomprensibili ai dirigenti lautamente retribuiti del consiglio di amministrazione. Queste caratteristiche fanno della finanza una forza fondamentale del processo che, iniziato negli anni Ottanta del secolo scorso, si è poi propagato rapidamente in tutto il mondo a partire dagli anni Novanta. Intendo per «finanza» un assemblaggio complesso di attori, capacità e spazi operativi, il cui funzionamento costituisce una delle dinamiche, concettualmente sotterranee, di cui mi occupo in questo libro. La finanza può manifestarsi in forme diverse, adattarsi a contesti istituzionali tanto differenti fra loro quanto lo sono la Cina e gli Stati Uniti, operare con gli strumenti più disparati, usando come elemento sottostante della cartolarizzazione sia modesti prestiti a studenti sia ingenti credit default swaps. Ma al di là di questa diversità degli involucri, sussiste una capacità epocale: quella di finanziarizzare i debiti e gli attivi di imprese, famiglie e Stati, indipendentemente dalla realtà geopolitica, dall'autorità sovrana, dal sistema giuridico, dal rapporto Stato-economia o dal settore economico. Possiamo pensare la finanza come la più compiuta ed efficace – quantomeno nel breve termine – di queste tendenze concettualmente sotterranee che stanno configurando per così tanti versi il nostro mondo. Nel caso della finanza, le manifestazioni visibili assumono la forma di molteplici microcosmi e microtendenze, alcuni specializzati, altri no: prestiti collegati a carte di credito, deficit di qualsiasi Stato, debito di una data impresa e così via. Tutta questa scomposizione sottesa alla finanziarizzazione è dovuta in parte ai diversi assetti istituzionali in cui quei debiti e quegli attivi vengono generati e resi visibili a terzi. Ma la scomposizione ottiene anche l'effetto opposto, quello di rendere invisibile il vortice sottostante e velare in molti modi ciò che sta accadendo: una distruzione su larga scala di economie sane, del debito di Stati e famiglie sani. In tutti i casi la distruzione assume la forma di flussi di capitale e risorse captati da imprese finanziarie e l'impoverimento di altri settori economici. Non possiamo eccedere in generalizzazioni, poiché vi sono eccezioni a tutto, e si può osservare che, oltre alla finanza, si arricchiscono vari altri settori, dall'high-tech al petrolio. Molti di questi altri settori dipendono dalla finanza o vivono fornendole i servizi altamente specializzati di cui essa ha bisogno. Possiamo capire la finanza e le sue dinamiche soltanto scandagliando le dense realtà che vengono investite dalle sue tante, varie invasioni. Questo modo di procedere ci rivela, al di là della mercificazione, per esempio, del cibo, dell'oro e di molti altri beni, la finanziarizzazione cui essi vengono sottoposti una volta ridotti a merci. Analogamente, ciò che entra in gioco nel caso dei prestiti non è soltanto l'interesse da incassare, bensì anche la finanziarizzazione del suo pagamento. Vi sono casi particolarmente brutali che rivelano come la violenza economica possa scatenarsi quando qualcosa non va per il verso giusto: ne è un esempio la vicenda della repentina, spietata espulsione di una gran massa di persone da case espropriate in paesi tanto diversi fra loro quanto gli Stati Uniti, la Spagna e la Lettonia. Un altro esempio è costituito dalle massicce perdite provocate dalla speculazione finanziaria e ricadute sui fondi dei governi municipali di paesi molto diversi come gli Stati Uniti e l'Italia. Inizio da un microcosmo dove tutti questi aspetti si compongono in una trama fitta, sovente elementare, da cui emerge come modeste famiglie in cerca di modeste case sono state gettate fra gli ingranaggi della finanziarizzazione in un numero crescente di paesi. Mi concentro sugli Stati Uniti perché è lì che hanno avuto origine questa vicenda e le innovazioni che l'hanno resa possibile. Questo caso serve a illustrare alcune caratteristiche della finanziarizzazione, nella fattispecie l'impiego di strumenti complessi per produrre un breve ciclo di investimenti estremamente redditizio per taluni, con un epilogo brutale per i molti milioni di persone che hanno perso la casa. Passo poi a esaminare il potenziale globale di tali strumenti e mi concentro su qualche altro paese che ha visto espulsioni analoghe, anche se per ciascun paese se ne può dare una differente spiegazione specifica. Ciò che conta per la mia analisi è che questi paesi diversi fra loro iniziano a essere accomunati da una più profonda dinamica sottostante che attraversa distinzioni familiari, sebbene venga filtrata dalle dense specificità di ciascuna situazione. Dal punto di vista concettuale, tendiamo a rimanere prigionieri di inveterate distinzioni fra differenti paesi, differenti sistemi bancari e altro ancora. Ne derivano delle conseguenze: la concentrazione dell'attenzione su distinzioni familiari, spesso di vecchia data, viene a nascondere o a rendere meno leggibile il fatto che una stessa dinamica può sottendere a situazioni differenti. Gli sviluppi e gli andamenti locali o nazionali possono rappresentare gli elementi costitutivi di una tendenza globale che trascende quelle familiari distinzioni. Il capitolo si conclude con una discussione dell'intersecarsi di complessità e brutalità che, così com'è filtrato dalle economie politiche nazionali, vela la formazione di una sottostante economia politica globale. Quest'ultima, pur nella parzialità dovuta alle sue specificità, attraversa molte delle abituali divisioni fra Stati-nazione, settori economici e mercati. | << | < | > | >> |Pagina 163Capitolo quarto
Terre morte, acque morte
La biosfera ha notevoli capacità di rigenerare terra, acqua e aria. Ma per esplicarsi tali capacità necessitano di tempi e cicli di vita che vengono rapidamente sopravanzati dalle nostre continue innovazioni tecniche, chimiche e organizzative. Da molto tempo le economie industrializzate danneggiano la biosfera, ma, almeno in qualche caso e con il tempo che giocava a suo favore, la biosfera ha rigenerato la terra e l'acqua. I dati esistenti mostrano però che certe zone non si sono più riprese; oggi abbiamo grandi distese di terre e acque morte: la terra estenuata dall'uso incessante di sostanze chimiche e l'acqua privata dell'ossigeno da sostanze inquinanti di ogni sorta. La forte accelerazione delle acquisizioni di terre da parte di governi e imprese stranieri, esaminata nel capitolo II, è una delle tante cause di questa distruzione. Ma le acquisizioni fanno altresì parte della risposta alla crisi: è proprio per rimpiazzare terre e acque morte che occorre acquisirne di nuove. E se, seguendo l'analisi svolta nel capitolo III, intendiamo la finanza come una capacità, possiamo constatare come essa si avvalga dei suoi strumenti fondamentali – non soltanto la mercificazione della terra e dell'acqua, ma anche la finanziarizzazione delle merci così ottenute – per portare altra acqua al suo mulino. Le tendenze descritte in questo capitolo denotano storie e geografie di una distruzione che va accelerandosi, su una scala che il nostro pianeta non ha mai visto per l'innanzi, materializzando l'idea dell'Antropocene, l'epoca segnata dal massimo impatto dell'uomo sull'ambiente. Molte di tali distruzioni della qualità della terra, dell'acqua e dell'aria hanno colpito più duramente le comunità povere, provocando una massa stimata di 800 milioni di sfollati in tutto il mondo. Ma nessuno di noi ne è immune, giacché altre distruzioni, diffuse dalle massicce trasformazioni in atto nell'atmosfera, possono raggiungere chiunque. Nel trattare questa tematica prendo in esame condizioni estreme. Come già per gli altri capitoli, anche quest'ottica è parziale e la sua scelta poggia sull'assunto che condizioni estreme rendano visibili tendenze che sono più difficili da discernere nelle loro forme più blande. Ancora in gran parte vive, la terra e l'acqua del nostro pianeta sono però minate da una diffusa fragilità. Dalle scarse notizie che filtrano dai mezzi di informazione si deduce che ben pochi colgono o riconoscono la portata di questa fragilità. Per esempio, i sondaggi indicano che ben pochi negli Stati Uniti sembrano essere al corrente che oltre un terzo della terra del paese, compresa gran parte delle predilette, fertili pianure del Midwest, è oggi sottoposta a uno sfruttamento eccessivo secondo precise misure scientifiche; o che i circuiti dei sei principali vortici oceanici (gyres) che contribuiscono a far circolare le grandi correnti oceaniche sono divenuti enormi discariche di rifiuti che fluttuano liberamente e provocano l'asfissia della vita marina. O che abbiamo almeno quattrocento zone costiere oceaniche clinicamente morte. Siamo stati noi a provocare questa fragilità e questa morte. Possiamo pensare queste terre e acque morte come buchi nel tessuto della biosfera. Immagino questi buchi come siti ove gli elementi della biosfera sono stati espulsi dal loro spazio vitale, e ove affiorano tendenze sotterranee più profonde che attraversano il pianeta, quali che siano l'organizzazione politico-economica locale o le modalità di distruzione ambientale. Tutte le condizioni esaminate in questo e nei capitoli precedenti concorrono nel loro insieme a determinare tali espulsioni. Combinandosi fra loro, la massiccia domanda di terra e acqua, l'aumento della povertà, lo sradicamento della fauna e della flora per fare spazio alle piantagioni e alle miniere trasformano vaste estensioni di terra in siti destinati a null'altro che all'estrazione. In ciascun luogo quell'esito ha una sua genesi specifica che ne spiega il verificarsi. Ma, osservate da una debita distanza concettuale, tutte queste differenti genesi di distruzione si presentano come una sorta di uniforme condizione generica: una griglia globale multisited (multisituata) di chiazze di terra e acqua morte che punteggiano il tessuto della biosfera. Questo spazio multisited di devastazione racconta una storia di distruzione della biosfera che va molto al di là delle singole vicende, le quali rivelano le specifiche modalità distruttive di determinati paesi e settori. Se tuttavia in questo capitolo mi rifaccio sommariamente alla diversità dei siti, è per agevolare lo sforzo di individuare concettualmente le forze che trascendono le familiari divisioni fra sistemi geopolítici, settori economici e quadri normativi. Nel trattare della distruzione della biosfera attribuiamo spesso un'importanza eccessiva a queste familiari divisioni, facendo risalire ad aspetti specifici le cause di problemi che sono invece di natura generale. Mi avvalgo di casi tratti da paesi caratterizzati da forme differenti di organizzazione politica ed economica per segnalare che, seppure la distruzione ambientale possa assumere forme e contenuti specifici in ciascun paese, e più gravi in taluni di essi, ciò che in definitiva conta per la mia analisi sono le affinità fra le potenzialità distruttive. Una miniera che inquina in Russia sembra diversa da una che inquina negli Stati Uniti, ma entrambe stanno inquinando oltre i limiti del sostenibile. Nel presente capitolo cerco di illustrare la natura e le dimensioni dei nostri problemi relativamente a tre elementi fondamentali: la terra, l'acqua e l'ampliamento su scala globale dei problemi. Nella prima parte esamino le prove della degradazione della terra, nell'intento di pervenire a una visione globale dei siti che sono di fatto morti. Vi includo una serie di brevi excursus riguardanti siti specifici, dalla Repubblica Dominicana al Perú, dalla Russia agli Stati Uniti, contraddistinti da una grave tossicità dei suoli. Nella seconda parte esamino le scarsità dell'acqua create dagli uomini e la quantità crescente di acquiferi sotterranei che l'inquinamento ha privato di ossigeno. Vi includo una serie di casi tratti da tutto il mondo che illustrano le specificità della scarsità e dell'esaurimento dell'ossigeno. Ciascuna di queste condizioni estreme ha una molteplicità di conseguenze per la vita che dipende dalla presenza di terra, aria e acqua pulite. Nella terza parte esamino alcuni esiti e salti di scala estremi generati da queste pratiche: lo scioglimento del permafrost, l'aumento delle temperature e le massicce inondazioni. | << | < | > | >> |Pagina 227Conclusione
Al margine sistemico
Il punto d'indagine di questo libro è il margine sistemico, il luogo in cui si estrinseca la dinamica chiave dell'espulsione dai diversi sistemi in gioco: l'economia, la biosfera, il sociale. Il margine sistemico presenta una differenza fondativa rispetto al confine geografico proprio del sistema interstatale. L'esigenza di focalizzare l'analisi su tale margine consegue dall'ipotesi chiave che articola i contenuti di questo libro: l'ipotesi che la transizione dal keynesismo all'epoca globale delle privatizzazioni, della deregolamentazione e dell'apertura dei confini a beneficio di taluni, abbia portato con sé il passaggio dalla dinamica dell'inclusione a quella dell'esclusione. Può darsi che tale passaggio stia emergendo anche in Cina e in India; la Cina, in particolare, ha visto una massiccia inclusione di persone nei settori monetizzati dell'economia, ma ora deve fare i conti con l'acuirsi della disuguaglianza, con nuove forme di concentrazione economica verticale e con comportamenti prevaricatori da parte delle imprese. Ogni grande dominio è contraddistinto da un margine specifico: il modo d'essere costitutivo del margine dell'economia è differente da quelli della biosfera o del sociale. Uno dei fili conduttori di questo libro è l'assunto che le condizioni generali assumono forme estreme nel margine sistemico proprio perché esso è il luogo dell'espulsione o dell'inclusione. Inoltre, le caratteristiche estreme delle condizioni presenti al margine rendono visibili tendenze che, se osservate nelle rispettive forme generali, apparirebbero meno eccezionali e quindi più difficili da cogliere. Definisco queste tendenze «concettualmente sotterranee» perché non è facile renderle visibili per mezzo delle comuni categorie di significato. Di qui l'importanza di collocare l'indagine nel contesto del margine sistemico. Illustrerò questi concetti rifacendomi al passato. Vi fu un'epoca in cui l'Inghilterra, vista a volo d'uccello, appariva come un paese eminentemente rurale. Ma di fatto il capitalismo industriale costituiva già la logica dominante dell'economia politica: le pecore nei pascoli alimentavano con la loro lana le macchine nelle fabbriche urbane. Sia le pecore sia le macchine si trovavano nel margine sistemico: stavano andando verso la nuova era industriale urbana, sebbene, vista in un'ottica più generale, l'economia inglese fosse ancora di natura rurale. Oggi vedo nuove logiche sistemiche emergere dalla decadenza dell'economia politica del XX secolo. Questa decadenza è iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso. Allora i sostanziosi welfare states e le potenti organizzazioni sindacali operaie, radicati in gran parte dell'Occidente nonché in diversi paesi latinoamericani, erano già stati devastati o sottoposti a pesanti pressioni. In certa misura i programmi statali di welfare incentrati sui bisogni delle persone erano stati presenti, svolgendo funzioni importanti, anche in altre parti di mondo, come, in forme sui generis, nei paesi comunisti e in quelli retti da qualche variante di nazionalismo socialista – esemplificate dalle politiche del welfare state nasseriano in Egitto –, nonché nei sistemi sviluppati in diversi paesi africani post-coloniali e nel tipo indiano di socialismo di Stato. Anche in questi paesi la decadenza inizia negli anni Ottanta e Novanta. Parlare di questa decadenza non significa mitizzare il XX secolo, un periodo segnato da guerre devastanti, genocidi, carestie e ideologie estremistiche tanto di sinistra quanto di destra. Eppure il mondo che cominciammo a costruire nella scia della devastazione, partendo in particolare dall'Occidente dopo la seconda guerra mondiale, era guidato da una logica di inclusione, da sforzi concertati volti a inserire í poveri e gli emarginati nel vivo delle realtà politiche ed economiche. Le assunzioni keynesiane, egualitarie e basate sui grandi aggregati economici nazionali, sottese a questo progetto di costruzione della società giusta, iniziarono a sfaldarsi verso la fine del secolo. Abbiamo tardato a capire e a classificare i poteri e le dinamiche che sono emersi dalle macerie. Ciò che sostengo in proposito è che siamo stati irretiti da una concezione pericolosamente restrittiva della crescita economica. Naturalmente la crescita era cruciale per il progetto del welfare state, ma era anche un mezzo per far progredire l'interesse pubblico, per accrescere una prosperità di cui molti avrebbero beneficiato, anche se taluni assai più di altri. Oggi, invece, le istituzioni e le assunzioni dominanti sono sempre più finalizzate a servire la crescita economica delle grandi corporation. È questa la nuova logica sistemica. Forse, con qualche rara eccezione, le grandi corporation hanno cercato nel loro insieme di liberarsi dei vincoli – fra cui quelli imposti dall'interesse pubblico locale – che interferiscono con la caccia al profitto. Qualsiasi cosa o chiunque, che si tratti di una legge o di un'iniziativa civica, tagli la strada della corsa al profitto rischia di venire messo da parte, ossia espulso. Questo mutamento della logica economica è una delle principali tendenze sistemiche che in gran parte sfugge alle spiegazioni correnti. Come si è visto, le corporation dispongono di nuovi, potenti strumenti: metodi matematici e mezzi di comunicazione avanzati, macchine che possono letteralmente spostare montagne, libertà di movimento e di manovra globali che consentono loro di ignorare o intimidire i governi nazionali, e una serie di istituzioni sempre più internazionalizzate che impongono l'osservanza dei loro programmi nel mondo. Oggi i governi e i banchieri centrali occidentali, l'FMI e le istituzioni internazionali affini parlano dell'esigenza di ridurre l'eccesso di debito pubblico, l'eccesso di programmi a favore del benessere sociale, gli eccessi di regolamentazione. È questo il discorso delle istituzioni chiave che oggi dettano legge in Occidente e, sempre di più, in altre parti di mondo. Tale discorso racchiude la promessa che se solo riuscissimo a ridurre quegli eccessi ritorneremmo alla normalità, ai bei giorni del dopoguerra. Ma ciò che quella promessa nasconde è il fatto che ormai quel mondo è davvero scomparso, e che troppi protagonisti dell'universo delle corporation non vogliono proprio rivederlo, checché possano dirne i governi. Essi vogliono un mondo in cui gli Stati spendano molto di meno in servizi sociali o a sostegno delle economie di vicinato e delle piccole imprese, e assai di più per deregolamentare e costruire le infrastrutture di cui ha bisogno l'economia delle corporation. Di fatto, si tratta del progetto di contrarre lo spazio dell'economia di un paese, ma non la redditività delle imprese. Lo dimostra, nella sua elementare brutalità, la trasformazione della Grecia, con la massiccia espulsione delle classi medie, più o meno modeste, da posti di lavoro, servizi sociali e sanitari e, sempre più, dalle loro stesse case. Questa «pulizia economica» è stata talmente efficace che nel gennaio 2013 la Banca centrale europea ha potuto annunciare che l'economia greca era sulla via della ripresa e Moody's ha potuto alzare il rating del debito pubblico greco. Ciò che esse non dissero è che quella ripresa si fondava sull'espulsione di circa un terzo dei lavoratori greci non soltanto dai posti di lavoro, ma anche dal godimento di servizi fondamentali. Quella ripresa è dipesa da decisioni che hanno provocato un forte aumento della fame, dei bambini abbandonati nelle chiese da genitori troppo poveri per sfamarli, dei tassi di suicidio. Un processo simile si sta verificando in molti paesi europei, dalla Spagna al Portogallo, ai Paesi Bassi, benché non in forma così drastica né con un ruolo di comando altrettanto forte della Banca centrale europea. Anche in paesi che vedono crescere l'occupazione, come gli Stati Uniti, lo spazio dell'economia si è di fatto contratto, come appare evidente se teniamo conto del forte aumento dei disoccupati cronici e dei carcerati. [...] L'ipotesi che articola i contenuti del volume è che i tratti specifici di ciascuno dei principali domini esaminati sottendano tendenze sistemiche emergenti. Nonostante le enormi diversità, visibili e inerenti agli ordinamenti sociali – dal conferimento di potere alle imprese globali, all'indebolimento della democrazia locale –, quei tratti specifici sono plasmati da pochissime dinamiche di fondo, basate sulla libera caccia al profitto e sulla totale indifferenza per l'ambiente. Ciò significa altresì che la ricerca empirica e la ricodifica concettuale devono procedere di pari passo, integrandosi a vicenda. Stando alle apparenze, può trattarsi di questioni riconducibili alle categorie di «russo» o «americano», ma questi connotati geografici di un'era precedente aiutano ancora a capire la natura della nostra epoca? Non intendo dire che tutte le forze distruttive che discuto siano fra loro interconnesse, bensì che esse tagliano trasversalmente i nostri confini concettuali: i termini e le categorie che utilizziamo per pensare l'economia, la politica, le differenze fra Stati-nazione e fra ideologie nei sistemi comunista e capitalistico. Ma tali forze operano in modo da sfuggire alla nostra visuale concettuale, ed è in questo senso che le definisco «concettualmente sotterranee». Qui la complessità concorre a determinare l'invisibilità: quanto più complesso è il sistema, tanto più difficile è risalire alle responsabilità e tanto più difficile è che qualcuno si senta responsabile. Quando le forze distruttive affiorano e divengono visibili, sorge un problema di interpretazione. Gli strumenti di cui disponiamo per interpretarle non sono aggiornati, cosicché ripieghiamo su categorie familiari: parliamo di governi fiscalmente irresponsabili, di famiglie che si indebitano oltre íl dovuto, dell'eccesso di regolamentazioni che impedisce l'efficiente allocazione delle risorse e così via. Non nego che questi possano essere problemi reali: esiste un eccellente filone di studi empirici che lo documenta, e in parte anch'io me ne servo e ne dipendo. Ma in questo volume mi sono chiesta se vi siano anche altre dinamiche all'opera, dinamiche che travalicano quei consolidati, familiari confini storici e concettuali. In un certo senso, la realtà empirica del land grabbing, esposta nel capitolo II, è soltanto un esempio concreto di un genere di spoliazione più ampio ed elusivo. In questo senso, il capitolo introduce una storia molto più vasta che non sempre ha come oggetto, letteralmente, l'appezzamento di terra, la fonte dei mezzi di sussistenza, la storia personale o lo status sociale di qualcuno.
Rispetto alle forme di capitalismo più tradizionali, possiamo
distinguere le forme emergenti in quanto sono contraddistinte
dalle espulsioni ma anche dall'annullamento per incorporazione.
Definire la nostra come l'epoca dell'espansione delle economie
di mercato sarebbe troppo vago e parziale, dato che quasi
tutti i mercati sono in gran parte controllati da corporation.
Le imprese industriali, le piantagioni e le miniere possedute
da capitalisti di stampo tradizionale, radicati in una singola
nazione, vengono sempre più distrutte o comprate da potenti
imprese globali. Anche settori con profitti unitari minimi oggi
sono terra di conquista di tali imprese, poiché la scala – il gran
numero di unità coinvolte – compensa i bassi profitti unitari.
Il rapporto fra l'odierno capitalismo avanzato e le forme più
tradizionali di capitalismo di mercato può, al limite, venire
connotato come una forma di accumulazione sempre più primitiva: la complessità e
il progresso tecnico sono al servizio di cause di una bruta semplicità.
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