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| << | < | > | >> |Pagina 11Il giorno delle nostre nozze io avevo quarantasei anni, lei sedici. Ebbene, so cosa state pensando: lui più vecchio (non magro, un po' pelato, mezzo storpio, denti di legno) esercita il diritto coniugale, mortificando in tal modo la povera e giovane... Ma è falso. È appunto quel che rifiutai di fare, capite. La notte delle nozze salii pesantemente le scale, rosso in faccia per l'alcol e le danze, e la trovai abbigliata con una vesticciola trasparente che una zia l'aveva costretta a indossare, il colletto di seta svolazzante per l'agitazione... e mi mancò il coraggio. Parlando a bassa voce, le aprii il mio cuore: lei era bellissima; io vecchio, brutto, finito; la nostra unione era strana, fondata sulla convenienza, non sull'amore; suo padre era povero, sua madre inferma. Per questo lei era lì. Lo sapevo assai bene. E non mi sarei sognato di toccarla, dissi, vedendo la sua paura e il suo... usai la parola "disgusto". Mi assicurò che non provava "disgusto" e nel mentre vidi il suo volto (leggiadro, infiammato) distorto da quella bugia. Le proposi di essere... amici. All'esterno ci saremmo comportati, sempre e comunque, come se avessimo consumato il nostro accordo. Doveva sentirsi tranquilla e felice in casa mia e sforzarsi di farla propria. Non le chiedevo nient'altro. E così fu. Diventammo amici. Cari amici. Nulla più. Eppure era così tanto. Ridevamo insieme, prendevamo decisioni sulla casa: lei mi aiutava a tenere in maggior conto la servitù, a non trattarla distrattamente. Aveva l'occhio lungo e riuscì a rammodernare le stanze con il minimo della spesa prevista. Vederla illuminarsi quando rincasavo, scoprire che si faceva più accosta mentre discutevamo una questione domestica, migliorò la mia sorte come mai saprei spiegare. Ero stato felice, felice a sufficienza, ma ora mi trovavo spesso a pronunciare una preghiera spontanea che diceva semplicemente: Lei è qui, ancora qui. Era come se un fiume impetuoso avesse travolto casa mia, che adesso era pervasa da un profumo d'acqua fresca e dalla consapevolezza di una presenza prodiga, naturale e sbalorditiva che sempre aleggiava nelle vicinanze. Una sera a cena, di sua iniziativa, cantò le mie lodi davanti a un gruppo di amici. Disse che ero un brav'uomo: premuroso, intelligente, buono. I nostri sguardi s'incontrarono e vidi che era stata sincera. L'indomani mi lasciò un biglietto sullo scrittoio. Sebbene la timidezza le impedisse di esprimere quel sentimento a parole o con i fatti, recitava il biglietto, la mia bontà nei suoi confronti aveva prodotto l'effetto tanto desiderato: era felice, si trovava davvero a proprio agio nella nostra casa, e desiderava, scrisse, "allargare le frontiere della nostra felicità comune nell'intima forma che, finora, mi è ignota". Mi chiedeva di guidarla in tal senso come l'avevo guidata "in tanti altri aspetti dell'età adulta". Lessi il biglietto, andai a cena, e la trovai addirittura raggiante. Scambiammo sguardi eloquenti lì, di fronte alla servitù, lieti di ciò che eravamo in qualche modo riusciti a creare da condizioni così poco propizie. Quella notte, nel suo letto, badai a essere ciò che ero sempre stato: gentile, rispettoso, deferente. Facemmo poco – ci baciammo, ci tenemmo stretti –, ma immaginate, per così dire, la ricchezza di quel piacere inopinato. Entrambi sentivamo montare la marea della lussuria (sì, è ovvio) ma imbrigliata dall'affetto lento, solido, che avevamo costruito: un legame affidabile, durevole e autentico. Non ero un uomo inesperto, da giovane avevo corso la cavallina; avevo trascorso (mi vergogno a dirlo) tempo sufficiente a Marble Alley, al Band-box, all'orribile Wolf's Den; ero già stato sposato una volta, tra l'altro felicemente... ma l'intensità di quelle sensazioni mi era affatto nuova. La tacita intesa era che, la notte successiva, avremmo esplorato ancora quel "nuovo continente", e al mattino me ne andai alla mia stamperia lottando contro l'attrazione gravitazionale che mi ordinava di restare a casa. E quel giorno – ahimè – fu il giorno della trave. Eh, già, che disdetta! Dal soffitto venne giù una trave, che mi centrò proprio qui, mentre sedevo alla scrivania. E dunque il nostro piano andava rinviato, fino a quando non fossi guarito. Come aveva consigliato il mio medico, mi avviai verso la... Una specie di cassa... da malato fu ritenuta ... ritenuta... hans vollman | << | < | > | >> |Pagina 29Ieri verso le tre è arrivata una notevole processione — una ventina di carrozze e neanche un posto dove metterle. Si sono fermate sui prati delle case e piazzate di traverso sul terreno del cimitero davanti all'inferriata. Poi dal carro funebre ho visto scendere nientemeno che Mr L. in persona, ho potuto riconoscerlo dal suo ritratto, sebbene fosse prostrato e col viso triste, quasi bisognoso di essere spronato, come riluttante a entrare in quel luogo tetro, ancora non avevo appreso la triste notizia e sul momento non capivo, ma poi la situazione si è chiarita e ho pregato per il bambino e la famiglia, si era parlato molto sui giornali della sua malattia ormai giunta all'infelice epilogo. Le carrozze hanno continuato ad arrivare per un'altra ora, finché la strada non è diventata del tutto impraticabile. La gran folla è scomparsa dentro la cappella e dalla mia finestra aperta udivo ciò che avveniva all'interno: la musica, un sermone, i pianti. Poi la gente è sfollata e le carrozze sono partite, diverse si erano incastrate ed è stato necessario staccarle a viva forza, la strada e i prati erano ridotti a un notevole disastro. Oggi ancora pioggia e freddo, poi, verso le due, è arrivata una piccola carrozza che si è fermata al cancello del cimitero e riecco scendere il Presidente, stavolta accompagnato da tre signori: uno giovane e due VECCHI. Mr Weston e il suo giovane aiutante li hanno accolti all'entrata e tutti insieme si sono incamminati verso la cappella. Poco dopo, l'aiutante è stato raggiunto da un inserviente e li ho visti issare una piccola bara su un carrettino e il triste gruppo è partito, il carrettino davanti, il Presidente e i compagni che arrancavano dietro — sembravano diretti verso l'angolo nordovest del cimitero. La salita era ripida e la pioggia incessante, e si è creato uno strano connubio di cupa malinconia e comica goffaggine, gli aiutanti faticavano a tenere la minuscola bara sul carretto e tutti, perfino Mr L., camminavano a passettini per non scivolare sull'erba fradicia di pioggia. A ogni modo sembrerebbe che il povero piccolo Lincoln dovrà restare proprio qui di fronte, in barba a quanto hanno scritto i giornali, azzardando perfino che sarebbe tornato subito nell'Illinois. Hanno avuto in prestito un posto nella cripta del giudice Carroll, e immagina il dolore, Andrew, di deporre il tuo prezioso figlio dentro quella pietra fredda come un uccellino spezzato e andare via. Stasera è tranquillo, caro fratello, perfino il ruscello mormora meno del solito. La luna è appena spuntata e illumina le lapidi del cimitero — per un attimo è sembrato come invaso da angeli di forme e dimensioni diverse: angeli grassi, angeli grossi come cani, angeli a cavallo eccetera. Ormai sono a mio agio insieme a tutti questi defunti, trovo che siano compagni gradevoli, laggiù nelle loro case di terra e gelida pietra. Da Wartime Washington: The Civil War Letters of Isabelle Perkins, a cura di Nash Perkins III, pagina del 25 febbraio 1862. | << | < | > | >> |Pagina 32In gioventù scoprii presto di avere una certa predilezione che, a me, pareva affatto naturale e perfino meravigliosa, ma ad altri – padre, madre, fratelli, amici, insegnanti, preti, nonni – non sembrava affatto naturale né meravigliosa, ma perversa e vergognosa, e dunque soffrivo: dovevo negare la mia predilezione, sposarmi e condannarmi a una certa, chiamiamola così, mancanza di soddisfazione? Desideravo essere felice (come credo desiderino tutti), così iniziai un'innocente, ecco, un'amicizia piuttosto innocente, con un compagno di scuola. Presto però capimmo di non avere alcuna speranza e così (sorvolo su alcuni particolari, le false partenze, i nuovi inizi, i propositi sinceri e il tradimento dei suddetti propositi, lì, in un angolo della... ehm, della rimessa per le carrozze, e così via), un pomeriggio, più o meno all'indomani di una conversazione particolarmente schietta, durante la quale Gilbert aveva espresso l'intenzione di vivere da allora in poi "in modo corretto", mi portai in camera un coltello da macellaio e, dopo aver scritto un biglietto ai miei genitori (il succo era mi dispiace), mi recisi i polsi con una certa qual ferocia sopra un bacile di porcellana. Nauseato dalla quantità di sangue e dal rintocco improvviso del rosso sul bianco del bacile, mi sedetti intontito sul pavimento e in quel momento io... ecco, mi vergogno un po', ma lo ammetto: ci ripensai. Solo allora (con un piede fuori dalla porta, per così dire) compresi la bellezza indicibile di tutto questo, la precisione con cui era studiato per darci piacere, e mi accorsi che stavo per sprecare un dono stupendo, il dono di poter percorrere, ogni giorno, questo vasto e sensuale paradiso, questa grandiosa piazza amorevolmente provvista di ogni cosa sublime: sciami di insetti che danzano tra i raggi obliqui del sole agostano; un trio di cavalli neri sprofondati muso a muso tra la neve di un campo; gli effluvi di un brodo di manzo che giungono recati dalla brezza da una finestra ambrata in una fredda, autunnale... roger bevins III | << | < | > | >> |Pagina 71Stanotte più o meno verso l'una come da presente resoconto il Presidente Lincoln è arrivato al cancello d'ingresso e ha chiesto permesso di entrare da suddetto cancello e non sapendo che altro fare visto che ha il grado di Presidente che non è un grado da poco né per lui né per nessuno gli ho dato permesso di entrare anche se come sai Tom il protocollo dice chiaro che il cancello una volta chiuso non va riaperto fino a orario previsto per apertura ovverosia al mattino ma siccome me lo ha chiesto il Presidente era come se mi guardasse in faccia un dilemma bicorne e poi ero un po' intontito essendo tardi come di cui sopra che ieri mi sono divertito al parco coi miei figli Philip Mary e Jack Jr pertanto ero un po' stanco e ammetto che mi sono appisolato sulla tua scrivania Tom. Non ho chiesto al Presidente che ci faceva qui né niente del genere solo che quando i nostri occhi si sono incontrati mi ha guardato con un'espressione così sincera e bonaria anche un po' afflitta come a dire ecco amico lo so che è un po' strano ma con gli occhi così bisognosi che non ho potuto dire di no dato che il figlio l'hanno sepolto proprio oggi per cui immaginati come potremmo sentirci io o te al posto suo Tom se il tuo Mitchell o i miei Philip Mary o Jack Jr dovessero venire a mancare be' inutile pensarci. Non era in carrozza era venuto da solo su un cavalluccio e sono rimasto stupito visto che lui è il Presidente eccetera mettici pure che ha le gambe lunghissime e il cavallo era bassissimo sembrava un insetto grosso quanto un cristiano in groppa a un povero ronzino scalognato che liberato da quel peso se ne stava stanco abbacchiato col fiatone come pensando sai che bella storia avrò da raccontare agli altri cavalli quando torno se li trovo ancora svegli al che il Presidente mi ha chiesto le chiavi della cripta Carroll e pertanto gliele ho consegnate e l'ho guardato allontanarsi per il cimitero col rammarico che non mi ero neanche offerto di prestargli una lanterna che lui non ce l'aveva ma il Presidente è entrato in quel buio sepolcrale come un pellegrino che avanza in un deserto inesplorato Tom sapessi che tristezza. Però la cosa strana Tom è che entrato già da un pezzo. Ancora non è tornato mentre scrivo. Dov'è Tom. Perso si sarà perso. Si è perso lì dentro o è caduto e s'è rotto qualcosa ed è lì che grida aiuto. Sono appena uscito fuori non ho sentito nessun grido. Dove sarà a quest'ora non lo so Tom. Forse da qualche parte lì nel bosco che si riprende dalla visita lasciandosi andare a un pianto solitario? Dal registro del guardiano, 1860-1878, Cimitero di Oak Hill, annotazione di Jack Manders, notte del 25 febbraio 1862, citata come da accordi con Mr Edward Sansibel. | << | < | > | >> |Pagina 82Sarò breve. jane ellis Ne dubito. mrs abigail blass Prego, Mrs Blass. Tutti avranno la... il reverendo everly thomas "Una volta durante le feste di Natale papà ci portò a una meravigliosa sagra paesana." Pfui. mrs abigail blass Prego, non vi accalcate. Restate in fila. Avrete tutti udienza. hans vollman E cì cì cì, e ciù ciù ciù, dev'essere sempre la prima. In tutte le cose. Spiegatemi di grazia perché si merita questo... mrs abigail blass Provate a prendere esempio da lei, Mrs Blass. Guardate com'è composta. hans vollman Come resta calma. il reverendo everly thomas Come tiene lindi i suoi abiti. roger bevins III Signori? Posso? Una volta durante le feste di Natale papà ci condusse a una meravigliosa sagra paesana. L'ingresso di una macelleria era sormontato da una magnifica tettoia di carcasse: cervi con le interiora raccolte, tirate fuori e fissate ai corpi con il fil di ferro a mo' di fantastiche ghirlande rosso vivo; anatre e fagiani appesi a testa in giù, le ali spalancate mediante fil di ferro rivestito di feltro, di un colore intonato alle rispettive piume (un'opera di squisita fattura); un maiale a destra e uno a sinistra dell'entrata con in groppa due galline selvatiche simili a cavalieri in miniatura. Tutto era ornato di fronde e costellato di candele. Io ero in bianco. Una bellissima bimba in bianco, la chioma mi scendeva come una lunga corda sulla schiena, che io dondolavo apposta, così. Non volevo andar via e feci i capricci. Per calmarmi, papà comprò un cervo e lasciò che lo aiutassi a legarlo dietro il carretto. Lo vedo ancora adesso: la campagna che scorre alle nostre spalle nella nebbia sul far della sera, il cervo afflosciato dietro con la sua sottile scia di sangue, il brillio delle stelle, i torrenti che scorrevano e i ponti di legno fresco che schioccavano sotto il nostro peso mentre li attraversavamo, procedendo verso casa sotto il... jane ellis Pfui. mrs abigail glass Sentivo di essere una nuova specie di bambina. Né maschio (ve lo garantisco) ma neppure una (semplice) femminuccia. Le corse in gonnella per servire perennemente il tè non c'entravano niente con me. Avevo grandi speranze, capite. I confini del mondo parevano immensi. Avrei visitato Roma, Parigi, Costantinopoli. Alla mente mi si presentavano caffè clandestini dove, premuti contro le umide pareti, io e un amico (aitante, generoso) discutevamo di... molte cose. Cose profonde, idee nuove. Strane luci verdi brillavano per le strade, il mare sciabordava poco lontano contro gli ormeggi viscidi e sbilenchi; c'erano guai in vista, una rivoluzione, alla quale io e il mio amico dovevamo... Be', come sovente accade, le mie speranze non si... avverarono. Mio marito non era aitante e nemmeno generoso. Era una barba. Non era duro con me ma nemmeno tenero. Non andammo a Roma né a Parigi né a Costantinopoli, ma solo avanti e indietro, senza posa, con Fairfax, a trovare la sua anziana madre. Era come se non mi vedesse, si sforzava solo di possedermi; agitava i baffetti a scarafaggio quando (spesso e volentieri) mi trovava "sciocca". Se dicevo qualcosa che per me era vero e importante, in merito, che so, alla sua incapacità di farsi strada nella professione (si atteggiava a martire, si credeva sempre vittima di un complotto e quindi, non sentendosi rispettato, attaccava briga per un nonnulla e si faceva mettere alla porta), gli bastava solo agitare i baffetti sentenziando che la mia era solo "l'opinione di una donna", punto. Il discorso finiva lì. Sentirlo vantarsi di aver fatto un figurone con un piccolo funzionario grazie a un'osservazione "arguta", ed essere lì, udire quell'osservazione e notare che il funzionario e la moglie si trattenevano a stento dal ridere in faccia a quel nessuno presuntuoso, era... snervante. Io ero quella stupenda bimba in bianco, capite, Costantinopoli, Parigi e Roma nel cuore, che all'epoca non sapeva di essere "di una specie inferiore", "solo" una donna. E poi, a sera, vederlo lanciarmi quel certo sguardo (a me ben noto) che voleva dire: "Preparati, madama, che tra poco ti verrò addosso, tutto lingua e colpi di bacino, i miei baffetti sembreranno moltiplicarsi al punto da coprire ogni pertugio, per così dire, dopodiché ti riverrò addosso, in cerca di complimenti," era al di sopra delle mie forze. Poi arrivarono i figli. I figli, sì. Tre stupende femminucce. In loro trovai la mia Roma, la mia Parigi e la mia Costantinopoli. Lui non le calcola affatto, ama solo usarle per farsi bello in pubblico. Una la punisce troppo severamente per una piccola disubbidienza, ignora l'altra che timidamente esprime un'opinione, tiene la lezioncina a tutte su qualche fatto scontato ("Vedete, bambine, la luna è alta nel cielo") come se lo avesse scoperto in quell'istante, poi si guarda intorno per controllare che effetto fa ai passanti la sua virilità.
jane ellis
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