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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 Parte prima. Dove siamo? 15 1. Una domenica, place de la Bastilie 17 2. La filosofia al caffè 22 3. La filosofia al caffè (seguito) 32 4. La filosofia al caffè (fine) 41 5. Lo Studio 48 6. In consultazione 60 7. In consultazione (fine) 67 8. Sedute collettive 82 9. Seminario sull’autenticità 92 10. In viaggio 105 Parte seconda. Da dove veniamo? 115 1. Sconfitta del pensiero? 117 2. I Lumi 127 3. La rivoluzione eliocentrica 133 4. La rivoluzione commerciale 143 5. Galileo 152 6. Copernico 162 7. Petty & Smith 171 8. Marx 180 9. La rivoluzione operaia 191 10. Totalitarismi 201 Parte terza. Dove andiamo? 213 1. Vittoria della legge del profitto? 215 2. Nascita del démos 223 3. Nascita del logos 232 4. La lucidità di Sofocle 242 5. La stanchezza di Socrate 252 6. La rivincita di Platone 262 7. Il tradimento di Aristotele 272 8. Gli strumenti animati 281 9. La fatalità 290 10. La ripetizione 300 A mo’ di conclusione 309 Note 313 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Le pagine che seguono tentano di dimostrare che questo uso spontaneo della filosofia in città non è dovuto al caso. Propongono di prendere un po’ di distacco dalla crisi attuale, per tentare di scoprirne le origini. Per meglio dire, invitano a mettere a confronto la crisi del mondo attuale e della polis greca, in cui la filosofia è nata. Perché la filosofia è nata duemilacinquecento anni fa, in una situazione di crisi sorprendentemente simile a quella che conosciamo oggi: la crisi della democrazia ateniese. Anche se può sembrare incredibile, ci ritroviamo, a grandi linee, in un'impasse analoga...Per dimostrarlo, comincerò descrivendo una pratica della filosofia che ne attesti la freschezza e il vigore: insomma, la giovinezza! E qui mi riferisco, certamente, al dibattito del Café des Phares. Ormai, ogni domenica, la sala è piena: centocinquanta partecipanti, se non di più. Le malelingue parlano di effetto moda, di snobismo tipicamente parigino; per condannare tale esperienza, prendono a pretesto la precarietà delle condizioni del locale, inadatte all'esercizio della riflessione. Č vero che il posto è rumoroso: considerandone la posizione e la potenza della macchina del caffè, non è certamente il luogo più adatto alla meditazione metafisica. Del resto, perché tutti possano sentire coloro che parlano, abbiamo dovuto procurarci dei microfoni e munire la sala e la terrazza di altoparianti. Ma chi ha detto che l’esercizio della filosofia necessita di silenzio e di solitudine? Con questo non voglio dire che richieda il brusio e la folla. Sostengo solo che una cosa non esclude l’altra e che si può cominciare una riflessione degna di essere definita «filosofica» anche in un caffè con centocinquanta persone. Cominciare non vuoi dire portare a termine. Vuol dire solo... cominciare. Chi lo desideri sarà poi libero di approfondire l’argomento, di spaziare tra le opere citate a memoria, di intavolare un dialogo a quattr'occhi con uno degli autori citati strada facendo, nella calma più totale. | << | < | > | >> |Pagina 1171. Sconfitta del pensiero?Un tempo ci si chiedeva a cosa servono i filosofi. La risposta più evidente era che non servono a nulla! Per esserne sicuri, bastava prendere in esame la pratica dominante della filosofia (la trasmissione di un corpus di testi classici) e di confrontarla con le performances delle scienze naturali (astronomia, fisica, chimica, biologia) e con quelle delle scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia, economia politica). Come non riconoscerlo? I filosofi di professione si erano da tempo ripiegati su loro stessi e in effetti non servivano più a nulla (se non a riprodursi) e a nessuno (se non ai loro successori). E poiché lo sviluppo fulmineo del sapere su materia, psiche e vita sociale permetteva di supporre che non mancava molto a svelare i misteri più intimi dell’Universo, della vita e della coscienza, ci si lasciava accarezzare dalla speranza di trovare soluzioni tecniche a tutti i problemi che l’umanità incontrava davanti a sé. Cosa poteva essere perciò più inutile della filosofia? Oggi questo tono non è più ammesso. Anche se scienze esatte come l’astrofisica e la genetica continuano a volare da un successo all’altro, lo scetticismo riprende piede. Tutto avviene come se le risposte estreme ci sfuggissero con crescente velocità, come le galassie più lontane. Allo stesso modo, la speranza posta nella risoluzione dei problemi umani grazie alla scienza e alla tecnica diminuisce di giorno in giorno. Malgrado il prodigioso sviluppo delle scoperte di ogni genere, risulta che siamo meno che mai in grado di dominare la situazione. E le famose scienze umane, di cui ci si gloriava tanto, sono state penosamente colte alla sprovvista dalla piega presa dagli eventi. L’economia politica e la sociologia non sono all’altezza del compito, e neppure la psicologia. Perché la specie umana si trova ormai travolta da una bufera, su così vasta scala e a una tale velocità, che nessuna di queste scienze può mantenere la credibilità di cui godeva. Nonostante il crollo dei regimi detti socialisti, la scienza degli economisti è messa a dura prova; lungi dal rafforzare la fede nell’economia di mercato, essa riesce, nel migliore dei casi, solo a mettere in evidenza pericoli sempre più allarmanti: l’inasprirsi della concorrenza su scala mondiale, l’indebitamento colossale dei paesi poveri, il lievitamento del debito pubblico nei paesi ricchi, la sostituzione del lavoro dell’uomo con quello dei robot, lo spostamento della produzione in paesi a basso costo, la smaterializzazione degli scambi, i limiti dell’ecosistema... Da parte sua, la scienza dei sociologi è superata in velocità dall’esplosione demografica nelle nazioni più povere, dalla nascita di megalopoli qua e là, e dal degrado delle periferie nei paesi ricchi, che provocano tensioni così grandi tra emisferi, etnie e cittadini, che tutti i vecchi demoni risorgono. Per quel che riguarda la scienza degli psicologi, essa si rivela piuttosto risibile di fronte ai danni provocati dalla disoccupazione, alla proliferazione della rete di vendita dei narcotici, all’ondata di odio, violenza e fanatismo che dilaga in tutti i continenti, al traffico di organi e alle tentazioni della biogenetica... L'inventario dei flagelli che si abbattono sull’umanità su scala planetaria non ha fine. La maggior parte degli specialisti non si raccapezza quasi più, e i profani sono sul punto di perdere la testa. Ed è il pericolo più grosso! Da questo punto di vista, mi sembra un buon segno che alcuni abitanti di un mondo impazzito si mettano a fare della filosofia di testa loro. Ciò significa che essi s'interrogano sull'attitudine delle scienze, della natura e dell'uomo a dare un senso a quello che succede, senza però rinunciare ad avere fiducia nella ragione, cioè senza ricadere sotto il dominio dell’irrazionale. | << | < | > | >> |Pagina 1717. Petty & SmithPetty, nella sua "Aritmetica Politica" redatta nel 1671, si batte contro l’illusione di attribuire il miracolo olandese all'intelligenza superiore, cioe al «genio» di quel popolo. Nel primo capitolo dichiara chiaro e tondo che «un piccolo paese con pochi abitanti può in virtù della posizione geografica, del commercio e della politica, eguagliare per ricchezza e forza un territorio più grande e popoloso. E in particolare i vantaggi derivanti dallo sviluppo della navigazione e dei trasporti via acqua portano a questo risultato nel modo più efficace». Così la prosperità degli olandesi non deriva, in realtà, che dal lavoro assiduo come commercianti e marinai, favorito dalla posizione geografica. Il loro successo non solo non è un miracolo, ma è un esempio da seguire: « C’è molto più da guadagnare con la manifattura che con l’agricoltura, e più col commercio che con la manifattura». Diciamocelo! A questo punto, Petty non si trattiene più: «I veri pilastri di ogni comunità» non sono coloro che si aggrappano ai privilegi di cui godono, alle rendite e alle redini dello Stato, ma sono gli agricoltori, i marinai, i soldati, gli artigiani e i mercanti». Se l'Inghilterra vuole avere la meglio sulla supremazia olandese, se vuole far fronte alla minaccia della Francia, le cui ambizioni non hanno limiti, se in poche parole vuole ottenere un posto al sole, deve puntare sulle professioni: «Tutte le altre attività nascono dall’incapacità e dalle insufficienze delle prime». Come dire alla nobiltà il fatto suo in modo migliore? | << | < | > | >> |Pagina 20110. TotalitarismiČ vero: il «proletariato» non prese il potere là dove Marx desiderava. E dove lo prese, il sogno si trasformò in incubo... Se crediamo alle avventure del pensiero narrate da Alain Finkielkraut, possiamo interpretare tutto ciò come una vittoria del Volksgeist. Come vi ricorderete, il Volksgeist, o «spirito del popolo», nacque in Germania alla fine del diciottesimo secolo con lo Sturm und Drang sotto l'egida di Herder. Non soddisfatto di divenire predominante sotto Bismarck nel diciannovesimo secolo, provocherà devastazione con Hitler nel ventesimo; sconfitto dalle armi pesanti della coalizione democratico-sovietica durante la Seconda guerra mondiale, ha però finito per conquistare insidiosamente l’intero mondo occidentale tramite la sottocultura. Ma prima di arrivarci, non è proprio lui che alita sui lavoratori di tutti i paesi nel 1914? Non è quel Geist che spinge il popolo tedesco, dunque il proletariato stesso, a prendere le armi contro gli altri popoli? Poiché quando scoppia la guerra, quella che Marx aveva annunciato, il suo partito si schiera dietro la bandiera della grande nazione tedesca! Al Reichstag i deputati socialdemocratici, invece di rispettare il mandato (che li impegnava a fare qualunque cosa per impedire la guerra), votano per affrontare la Russia e la Francia! Un secolo dopo Goethe, Marx non è stato a sua volta sconfitto dal Volksgeist? L’idea può sedurre per un istante. Tanto più che la sconfitta militare della Germania non stronca lo slancio di questo spirito, capace, come Proteo, di assumere qualunque forma, e soprattutto le più mostruose. | << | < | > | >> |Pagina 2626. La rivincita di PlatonePer definire la condizione umana, Platone non trovava niente di meglio che paragonare gli uomini a prigionieri incatenati in fondo a una caverna. Troviamo questa allegoria all’inizio del libro settimo della Repubblica. Triste sorte, di cui le vittime non sono tuttavia coscienti. poiché vivono nell'illusione, avendo come unico punto di riferimento le ombre che percepiscono in fondo all'antro. Tanto vale dire che gli uomini vivi non sono affatto superiori ai morti, almeno nella concezione che aveva la maggior parte dei greci. Secondo Platone, subordinando la propria esistenza alla soddisfazione degli appetiti, l'essere umano non può uscire dal regno delle ombre e, lungi dall'emanciparsene, la via in comunità ve lo rinchiude sempre più. Per liberarsene esiste una sola scappatoia: uscire dalla caverna, cosa che implica voltare le spalle alla folla. Difficilmente si potrebbe esprimere un maggiore disprezzo verso i concittadini. Riconosciamo che Platone ne aveva alcune buone ragioni. Aveva vent'anni quanndo Atene capitolò di fronte alla coalizione delle città rivali. Vide gli Ateniesi costretti a distruggere le Lunghe Mura e a rinunciare al regime democratico: dovettero accettare di essere governati da trenta cittadini abilitati a tale compito dai rappresentanti di Sparta: cioè da alcuni aristocratici che volevano prendersi la rivincita. Quei trenta tiranni vennero poi presto rovesciati, ma Atene rimase a lungo prostrata, e non trovò nulla di più efficace per espiare le proprie colpe che sfogarsi con Socrate, sacrificandolo come un capro espiatorio la cui morte può placare il risentimento degli dei. | << | < | > | >> |Pagina 304Se Nietzsche ha ragione, a che pro ribellarsi contro lo stato attuale delle cose? A che pro, per il demos uscire dal letargo se il passaggio dal suo potere immaginario alla realta lo narcotizza ancora di più? Già per il suo tempo, Nietzsche vedeva nero e si beffava della speranza «ingenua» dei lavoratori di trovare la felicità espropriando i padroni. Cosicché il suo discorso opponeva, come quello di Eraclito all’epoca del sorgere del demos greco, un netto diniego alla pretesa della plebe di fare meglio dei migliori. Questo diniego vale ancora. E più che mai. La domanda infatti è ancora valida: l’eliminazione dei ricchi darà la felicità ai poveri? La tesi principale di Nietzsche è che il rovesciamento del padrone da parte dello schiavo non significa necessariamente un «progresso». Ciò che «progredisce» nel tempo e nello spazio può benissimo ripiombare in una profonda decadenza. E' sufficiente che il percorso sia circolare (o ellittico) perché il «progresso», rincorrendosi, si trasformi nel suo contrario e che una civiltà luminosa si ritrovi nell’oscurità, per il semplice fatto che la stessa forza agisce sempre nello stesso senso. Ciò vale, pare, per la civiltà greca, poiché alla fine l’attese il crepuscolo: dopo aver brillato di uno splendore senza pari, è ripiomhata nella notte, inseguendo la sua rotazione al punto di far scomparire il sole dal suo orizzonte. E a rigor di logica, se diamo al sorgere della società commerciale nel mondo moderno il nome di «Lumi», è questo il destino che ci aspetta... Nel migliore dei casi, completando la rivoluzione commerciale, il risveglio del demos moderno sortirà l'unico effetto di inseguire la propria decadenza.
Prendiamo dunque il tempo di rifletterci sopra. In primo
luogo notiamo che per Nietzsche questa «decadenza» non sarebbe
una totale calamità. Infatti, sprofondando nella notte, il
mondo moderno seguirebbe ancora una volta l’esempio dell’Antichità
e permetterebhe, in un tempo più lungo, il ritorno
di ciò che Nietzsche considerava una civiltà degna di tale nome.
Ovvero una civiltà aristocratica, in cui la casta dei migliori
regna su una massa che le riconosce la superiorità: in cambio
di protezione questa casta beneficia del «pluslavoro» degli
umili, di coloro che non osano rischiare la vita e preferiscono
la servitù alla morte.
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