Copertina
Autore Said Sayrafiezadeh
Titolo Quando verrà la rivoluzione avremo tutti lo skateboard
Edizionenottetempo, Roma, 2010, , pag. 330, cop.fle., dim. 14x20x2 cm , Isbn 978-88-7452-220-0
OriginaleWhen Skateboards Will Be Free [2009]
TraduttoreElisa Comito
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe narrativa statunitense , narrativa iraniana
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Mio padre è convinto che un giorno gli Stati Uniti saranno destinati a essere travolti dalla rivoluzione socialista. Le rivoluzioni sono sempre sanguinose, dice, ma questa sarà la piú sanguinosa di tutte. Non è lontano il momento in cui la classe operaia — che comprende anche me — deciderà di deporre gli attrezzi da lavoro, si riverserà nelle strade, soggiogherà la polizia, si approprierà dei mezzi di produzione e inaugurerà una nuova epoca — l'epoca finale — di pace e uguaglianza. La rivoluzione non solo è inevitabile, è imminente. Non solo è imminente, è incombente. E quando scoccherà l'ora, mio padre ne assumerà la guida.

A causa di quest'emergenza non lo vedo spesso. Nonostante viviamo entrambi a New York. Passano settimane. Mesi. Un anno. E proprio quando comincio a domandarmi se si farà mai piú vivo, ecco che arriva una cartolina da Istanbul, Teheran, Atene o Minneapolis, dov'è andato per partecipare a questa o quella conferenza, per tenere questo o quel discorso. "Qui c'è un tempo magnifico", mi comunica con la sua enorme scrittura tutta ghirigori ottimistici, che riempie completamente lo spazio bianco senza lasciar posto ad altro.

Eppure nel corso degli anni abbiamo avuto i nostri bei momenti. Per il mio diciottesimo compleanno – il primo trascorso insieme – mio padre mi ha sbalordito regalandomi un walkman, il dono di gran lunga piú costoso che avessi mai ricevuto. E per il diciannovesimo compleanno ho passato un'intera settimana con lui e la moglie – la seconda moglie – a scattare fotografie, guardare film al videoregistratore e giocare fino a tarda notte a Scarabeo, a cui mio padre mi batteva quasi sempre, nonostante sia iraniano e l'inglese sia la sua terza lingua. Una domenica pomeriggio abbiamo persino fatto una lunga passeggiata, noi due soli, fino all'acquario di Coney Island, dove siamo rimasti seduti fianco a fianco nel gelo invernale osservando un tricheco nuotare avanti e indietro nella sua vasca di cemento. Alla tavola calda ero talmente preoccupato di dare il meglio di me che gli ho rovesciato addosso un'intera tazza di caffè. "Scusa, pa'! Scusa. Scusa. Scusa". E durante il mio primo anno di università, ogni domenica mattina mi telefonava per chiedermi se avessi bisogno d'aiuto con il programma di Algebra I. Dopotutto è professore di Matematica.

Ma prima di tutto mio padre è un membro – un compagno – del Partito dei Lavoratori Socialisti. Un compagno di punta, in effetti, e lo è stato per quasi tutta la mia vita. Le responsabilità di cui si fa carico comprendono, tra le altre cose, l'editing di libri, la redazione di articoli, le arringhe ai comizi, l'insegnamento nei corsi di politica, la partecipazione a vendite di libri, dimostrazioni, cortei, riunioni, conferenze, picchetti... Avevo poco piú di vent'anni quando ha ricominciato a scomparire dietro questo massiccio carico di rivoluzione e le sue telefonate sono diventate sempre meno frequenti fino a cessare del tutto, i nostri gioiosi incontri ridotti a radi segni di punteggiatura in lunghi paragrafi di silenzio.

Una sera d'estate, a ventisette anni, ho portato la mia ragazza a vedere un documentario su Che Guevara al Film Forum, nel West Village. Finito il film, uscendo dal cinema ho visto mio padre sul marciapiede dietro a un tavolo con un vasto assortimento di libri della Pathfinder Press, la casa editrice del partito. Che Guevara parla. Che Guevara parla ai giovani. Storia della Rivoluzione Russa. L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Davanti, il tavolo era addobbato con uno striscione scritto a mano che riportava il proclama di Castro: "Prima della vittoriosa controrivoluzione a Cuba ci sarà una vittoriosa rivoluzione negli Stati Uniti". Mio padre teneva in mano, ben spiegato perché tutti lo vedessero, il numero del Militant di quella settimana.

"Sidsky!" mi ha chiamato, usando il diminutivo russeggiante di sua invenzione che riusciva sempre a rendermelo caro.

"Papà!"

"Sidsky, com'era il film?"

"Mi è piaciuto".

E la mia ragazza, che non si interessava di politica e non aveva mai neanche sentito nominare il Che prima che gliene parlassi io, ha detto: "Anche a me è piaciuto".

"Già," ha borbottato mio padre, guardando prima lei e poi me. Dalla sua espressione era chiaro che avevamo dato la risposta sbagliata. Ho avuto la tentazione di tornare sui miei passi e fare dei distinguo ma, prima che riuscissi a decidere quali potessero essere, lui ha detto: "Che ne dite di cenare insieme stasera? C'è un ristorante niente male proprio dietro l'angolo".

Naturalmente ho accettato con entusiasmo. L'unico intoppo era che mio padre doveva aspettare la fine dello spettacolo successivo, un'ora e mezza dopo, e poi mettere a posto tutti i libri invenduti e ripiegare il tavolo, perciò io e la mia ragazza abbiamo percorso quattordici isolati del West Village fino al mio monolocale, dove ci siamo seduti pazientemente vicino al telefono contando i minuti con la fame che incalzava. E quando finalmente mio padre ha chiamato è stato per dire che gli dispiaceva, all'ultimo momento era stata indetta una riunione e non potevamo vederci, ma avremmo rimediato presto, promesso, tutti e tre, presto.

"Poverino, che delusione!" ha detto la mia ragazza gettandomi le braccia al collo, baciandomi.

"Non sono deluso," ho risposto, ma lo ero eccome.

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"La sofferenza è radicata nel sistema capitalista," mi spiegava, "per estirpare la sofferenza dobbiamo estirpare il capitalismo". Ne conseguiva che l'energia impiegata per eliminare la miseria di una sola persona, in mezzo a quella di milioni, era energia completamente sprecata. Si diceva persino che Lenin, durante una devastante carestia nella regione del Volga, dove viveva da giovane, avesse rifiutato per principio di prestare il minimo soccorso ai malati e agli affamati, compresi i contadini che lavoravano nelle sue proprietà, sostenendo che alleviare la loro sofferenza avrebbe significato ritardare l'imminente rivoluzione - a cui mancavano ancora venticinque anni.

La filosofia di mia madre, per quanto possa apparire dura e intransigente, sottintendeva comunque una profonda compassione, pronta a risvegliarsi in diverse occasioni. La vedevo spesso piangere per cose come l'oppressione dei palestinesi, l'eroica lotta di Castro contro l'imperialismo statunitense, la morte di un giovane nero per mano della polizia. "Hai sentito cos'ha fatto la polizia a quel ragazzo?" mi diceva agitando le braccia in aria, il corpo fremente d'accusa come se potesse essere colpa mia. E diventava furiosa di fronte all'apparente, tranquillo disinteresse dei ricchi. Attraversando un quartiere benestante mi indicava una villa col fumo che usciva dal comignolo e una macchina nel viale d'accesso e diceva sprezzante: "Guardali. I ricchi porci". E io guardavo la villa e disprezzavo gli abitanti per ciò che avevano, disprezzavo me stesso per ciò che non avevo e sotto sotto, nel profondo del mio essere, mi disprezzavo perché volevo ciò che vedevo.

Eravamo poveri, io e mia madre, vivevamo in un mondo di rovina e disperazione, pessimismo e amarezza, in cui le tempeste infuriavano e í lupi raspavano alla porta. Spesso mi informava che eravamo in ritardo con l'affitto, che sospettava stessero per licenziarla, o che il prezzo del pane era salito. Tutto era un lampante atto d'accusa contro il capitalismo e una riprova del riscatto che ci attendeva con la rivoluzione. A volte la nostra miseria oltrepassava i limiti dell'assurdo, quando mia madre, all'ingresso del supermercato, pregava i clienti di darle la pagina dei loro giornali con gli annunci di lavoro. O quando, nello studio del dottore, riempiva lo zaino di salviettine umidificate. Oppure quando, di fronte alla biblioteca, mi diceva di entrare, lasciare sul banco i libri restituiti oltre la scadenza e uscire immediatamente. Per poi vantarsi con i compagni di che complice perfetto fossi. E semmai mmettevo in dubbio questa pratica disonesta, replicava: "Qualsiasi reato contro la società è un reato meritorio".

Una volta, raccogliendo tutto il mio coraggio, le ho chiesto di comprarmi uno skateboard (l'oggetto cult dell'epoca) e, dopo tante preghiere, finalmente ha accettato di andarne a vedere qualcuno. In mezzo al negozio di articoli sportivi c'era un gigantesco contenitore di metallo pieno di skateboard dai colori squillanti, con una targhetta che diceva "$ 10.99".

"Voglio quello verde," ho detto.

"Quando verrà la rivoluzione," mi ha risposto mia madre, "tutti avranno uno skateboard perché gli skateboard saranno gratis". Poi mi ha preso per mano e portato fuori dal negozio, dove mi immaginai nei minimi particolari un mondo di lunghe colline d'erba ondulate, nel quale era sempre estate e i ragazzi in skateboard sfrecciavano su e giú per i pendii.

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Nei primi anni sessanta la zona di Minneapolis era diventata uno dei piú importanti centri di reclutamento del Partito dei Lavoratori Socialisti. Era chiamata "la culla del movimento", riferimento poco modesto a San Pietroburgo, battezzata dai bolscevichi "la culla della rivoluzione". Gruppi di giovani compagni – gli apripista – battevano tutta la regione, spostandosi da un campus all'altro per cercare di conquistare gli studenti alla causa socialista. E fu all'Università del Minnesota che una mezza dozzina di compagni approdò un sabato mattina del 1964, apri un tavolino, lo copri di Militant e spiegò uno striscione che proclamava: "Clifton DeBerry Presidente. Vota per i Lavoratori Socialisti!"

Rivedo quella mezza dozzina di compagni in quelli che ora mi stanno davanti all'angolo di Union Square. Li immagino altrettanto diligenti ed esausti, con gli stessi zaini, le stesse scarpe consumate, lo stesso Militant. Solo che allora costava dieci centesimi.

"Perché gli Usa stanno perdendo la guerra contro i ribelli vietnamiti!"

"Washington ammette di aver armato i mercenari congolesi!"

"I poliziotti di New York ammazzano un altro portoricano!"

Certamente avevano ripetuto quegli appelli un'infinità di volte finché a tarda ora, con la gola secca, avevano deciso che il dovere del giorno era compiuto ed era ora di ripiegare il tavolo. E, proprio mentre iniziavano a riporre i libri e riavvolgere lo striscione di Clifton DeBerry, ecco avvicinarsì la giovane coppia con due passeggini, intenta a godersi i giorni di fine autunno.

"Facciamo un ultimo tentativo," dice uno dei compagni avvicinandosi con il Militant in mano. "Perché Johnson non è la risposta a Goldwater".

La coppia si ferma.

"Sosteniamo che solo il rovesciamento del capitalismo potrà porre fine alle disuguaglianze sociali".

"Quanto costa?"

"Dieci centesimi".

E la moglie cerca nella borsa, perché allora portava una borsa, non uno zaino, come portava vestiti, tacchi alti, rossetto, capelli lunghi, e metteva in mostra le belle gambe.

"Grazie," dice il compagno intascando la moneta e porgendole il Militant. I tre chiacchierano per un po', vengono raggiunti da un secondo compagno, forse da un terzo. Sicuramente sono tutti cordiali questi compagni, amichevoli e vivaci, giovani e pieni di idee.

"Pensate di votare per Clifton DeBerry a novembre?"

"È il primo nero a candidarsi come presidente".

"Ecco un volantino col suo programma per la classe operaia".

"Io lo voterei," dice il giovane iraniano, "ma non ho la cittadinanza". (Né l'avrà mai.)

Questo divieto al voto fa infuriare i compagni, che lo vedono come l'ennesimo esempio di discriminazione contro gli immigrati.

"Visto?" dicono. t'Vi rendete conto?"

Però la giovane donna è americana e prende il volantino su Clifton DeBerry, promettendo che considererà la possibilità di votare per lui, ma ecco che uno dei bambini inizia ad agitarsi e la coppia è costretta ad accomiatarsi dai compagni, ringraziandoli per il giornale, il loro tempo e lo scambio di idee. All'ultimo momento uno dei giovani militanti propone: "Vi piacerebbe iscrivervi al nostro indirizzario?"

"Vi aiuterà a tenervi aggiornati," dice un altro.

"Stiamo organizzando molte iniziative".

"Naturalmente non c'è alcun obbligo di partecipare". Cosí i due lasciano il proprio nome e numero di telefono e salutano i compagni.

E li vedo quella sera, nel loro alloggio universitario, dopo che i bambini si sono addormentati, stendersi a letto fianco a fianco e mettersi a sfogliare il Militant. Forse quel numero riporta il discorso pronunciato da James Baldwin durante lo sciopero degli affitti a Harlem. Che fa presa sulla studentessa di Letteratura inglese. Forse mostra una fotografia dello scià accanto a un sorridente Lyndon Johnson, con la didascalia "Lo scià dalle mani insanguinate". Che fa presa sul giovane che ha visto i carri armati sfilare davanti a casa. Forse c'è un articolo sul Che. O su Patrice Lumumba. O sul Vietnam. O su Trotsky. Dal giornale si sprigiona un'eccitazione che contagia i due giovani, stesi uno accanto all'altra, le dita dei piedi che si sfiorano, la sensazione che tutti i grandi eventi del mondo si trovino tra quelle pagine o siano influenzati da quelle pagine. Ma dalle stesse pagine si sprigiona anche un senso di tristezza, per tutta la miseria del mondo coraggiosamente esposta nei minimi particolari. La tristezza è però compensata dalla speranza: le cose possono cambiare, certo che possono cambiare! E sotto l'eccitazione, sotto la tristezza, sotto la speranza, cova la vendetta, che avvolge il lettore nelle sue spire. Sicuramente anch'essa fa presa sui due giovani.

E, forse una settimana piú tardi, telefona un compagno per invitarli a un dibattito su Cuba o sul Vietnam. Il marito ne parla alla moglie che è d'accordo per modificare il programma del venerdí pomeriggio: lui andrà e lei resterà a casa per badare ai figli di uno e quattro anni. Poche settimane dopo arriva un altro invito a un altro dibattito, ma stavolta ci vanno tutti e due insieme e affidano i bambini ad alcuni vicini di casa.

"Torneremo per le undici".

"Fate con comodo!"

All'incontro, la giovane donna è conquistata dalla sicurezza e dalla fiducia dei relatori ed estrae altre preziose monete dalla borsa per abbonarsi al Militant. E quando arriva novembre, ignora le folle che sostengono che Johnson è meglio di Goldwater e decide di votare per Clifton DeBerry (che riceve trentaduemila preferenze). Poi viene assassinato Malcom X, la Guerra del Vietnam accelera, la coppia rinnova l'abbonamento e il marito decide che lo scenario piú adatto per l'azione rivoluzionaria è New York. Cosí preparano i bagagli e, insieme ai bambini, lasciano il campus dell'Università del Minnesota per trasferirsi in un appartamento di Brooklyn. Seguono altri dibattiti, altri libri, altre manifestazioni e la giovane accantona il sogno di diventare scrittrice per dedicarsi a un progetto piú grande, al sogno piú grande, che alla fine non lascia spazio a nient'altro. Viene assassinato il Che, viene assassinato Martin Luther King, viene eletto Nixon (lei ha votato per Fred Halstead — quarantuno milioni di voti), nasce un terzo bambino — cioè io — mentre la Guerra del Vietnam continua, le manifestazioni si fanno piú violente, gli incontri piú pressanti. Marito e moglie non si risparmiano, si spingono sempre piú avanti, sempre piú veloci, finché arriva il momento di una — breve — pausa, col marito che sta sulla soglia di casa, la mano sulla maniglia, lo sguardo basso, lontano dalla moglie e dai bambini, un'espressione imbarazzata e una ventiquattrore in mano. E quando l'orologio segna la mezzanotte, apre la porta e, in punta di piedi, se ne va per sempre in quella buona notte.

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La differenza tra noi e le altre famiglie povere del quartiere era che la nostra povertà era intenzionale e autoinflitta. Non una realtà inevitabile ma una condizione perseguita con tenacia. Non c'era alcuna ragione impellente perché vivessimo di stenti. Dagli abiti usati ai mobili di seconda mano, dai libri restituiti in ritardo in biblioteca senza pagare la multa, agli skateboard mai comprati, era tutto frutto d'artificio. È vero che eravamo senza soldi ma non eravamo senza alternative. Mia madre era molto colta; aveva un'educazione raffinata, un linguaggio forbito e una laurea in Letteratura inglese in un'epoca in cui la maggior parte delle donne non andava neanche al liceo. Senza contare che viveva a quindici minuti di distanza da un fratello facoltoso che nel corso degli anni l'aveva generosamente aiutata, arrivando a pagarle le spese quando lei aveva deciso di riprendere gli studi. E ci sarebbe stato anche il marito latitante che con argomenti persuasivi — o con la persuasione del sistema giudiziario — poteva essere spronato ad aiutarci.

Invece mia madre aveva scelto attivamente, coscientemente, non solo di essere poveri, ma di rimanere poveri, con grandi sofferenze per entrambi. Perché proprio soffrire, soffrire miseramente, era il punto. In questo stava la nostra realizzazione. Senza dubbio era sostenuta dalla filosofia secondo la quale c'era onore nella povertà, virtú nella miseria, nobiltà nel patimento. Per quanto i membri del Partito dei Lavoratori Socialisti in apparenza potessero deridere gli ideali cristiani che esaltavano la povertà e la rinuncia ai beni materiali, intimamente erano convinti che nulla fosse piú vergognoso del successo in una società moralmente fallita come la nostra. Non a caso quasi ogni compagno era di estrazione borghese ma aveva ripudiato la propria educazione e i titoli di studio per rispondere a una chiamata piú alta e profonda. In questa società prosperava chi ne condivideva la perversità e la mancanza di etica, chi sfruttava la classe operaia. Marx credeva che gli oppressi avrebbero ereditato la terra, e dopo di lui ogni comunista condivideva lo stesso credo, compresi Lenin, Trotsky e i membri del Partito dei Lavoratori Socialisti. Io e mia madre vivevamo secondo una versione del Discorso della Montagna leggermente ritoccata — ma solo leggermente. Quando finalmente sarebbe arrivata la rivoluzione, saremmo stati in prima fila tra gli eletti. Ci avrebbe pensato mia madre.

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[...] Tanti, tanti libri. Polverosi, ammuffiti, consumati. Frutto di sforzo e fatica, testimonianza di quello che si poteva realizzare se si voleva realizzare qualcosa. Due volte ventun'anni; Mark, il ragazzo del guantaio, o gli ultimi giorni di Richard Nixon; Il gentile; Ammazzando tutti; due copie di Batte il tamburo lentamente, una rilegata e l'altra tascabile. Era la vita dello zio che mia madre aveva sognato di vivere fino a quel giorno d'autunno di tanti anni prima quando, passeggiando per l'Università del Minnesota col marito e i due bambini, si era fermata un momento, solo un momento, per sentire cosa dicesse quel giornale, il Militant. A suon di tromba; La città dello scontento; Il lanciatore mancino; Un biglietto per un rammendo; Qualcosa su un soldato; Svegliati, stupido; Friedman & Son. Tutti erano stati regalati a mia madre, alcuni persino con la dedica, come scoprivo quando trovavo il coraggio di aprirli. "Due volte ventun'anni, a Martha e Mahmoud. Gennaio 1967".

Ma per quanti libri mio zio avesse scritto e mia madre avesse conservato, il vero autore della nostra libreria era la Pathfinder Press. Intorno e sopra ai libri di Mark Harris, quasi a rispondere alla sua produzione eclissandola, sminuendola, c'erano i libri di Marx (che per lungo tempo ho confuso con "i libri di Mark"), Engels, Lenin, Trotsky, Barnes... i padri e i figli, i grandi e i piccoli. Le origini del materialismo; L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato; L'empirismo e la sua evoluzione: una prospettiva marxista; James P. Cannon e i primi anni del comunismo americano; I primi cinque anni dell'Internazionale Comunista; I primi dieci anni del Partito Comunista americano; Storia del trotskismo americano; Strategie di difesa e principi del Partito dei Lavoratori Socialisti; La via americana al socialismo; La donna e la famiglia; La rivolta dei camionisti; Il potere del sindacato dei camionisti; Le strategie politiche del sindacato dei camionisti; La burocrazia del sindacato dei camionisti; Che Guevara parla ai giovani.

A volte quando restavo a casa solo, guardavo questi titoli e mi chiedevo cosa significassero, cosa ci fosse dentro. Quando li aprivo per vedere se c'era qualche immagine interessante, notavo che le copertine, le coste e le pagine erano rigide e fresche di stampa. Quei libri erano stati a malapena aperti, sfogliati, da mia madre. I titoli in sé erano abbastanza potenti, svelavano tutto quello che era necessario sapere. Non c'era bisogno di avventurarsi nel contenuto.

Qualcosa di triste era accaduto in passato, ecco quello che dicevano i titoli. Qualcosa di triste era accaduto e qualcosa era andato perduto. Il profeta disarmato; Il profeta in esilio; La rivoluzione tradita; L'ultima battaglia di Lenin. Tutto ciò che la Rivoluzione Russa aveva realizzato, con la sua opera monumentale, era stato distrutto nel 1924 con la morte di Lenin. Quel momento sciagurato che aveva dato il via all'ascesa di Stalin e al declino di Trotsky. Se solo il sofferente Lenin fosse riuscito a passare il testimone a Trotsky, tutto ora sarebbe stato diverso, il contrario di quello che era. La pace e la prosperità erano state a un passo, ma da allora si erano succedute tante generazioni e la nostra, l'ultima, era finita in un pantano da cui solo noi potevamo tirarla fuori. Sempre che ne fossimo all'altezza. Forse era possibile ma richiedeva il massimo impegno e il massimo sforzo da parte di noi tutti. Non "noi" esseri umani, non "noi" lavoratori ma "noi" membri del Partito dei Lavoratori Socialisti. Il futuro del mondo dipendeva da noi.

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Segue un silenzio imbarazzato. Mio padre con aria assente passa il dito avanti e indietro sopra la candela, facendo piegare e danzare la fiamma. Poi esamina la margherita nel vaso e chiede: "Ma è vera?" Continuiamo a sistemare le posate.

Infine, per rompere il ghiaccio, mi chiede: "Conosci la storia del Garment District, Sidsky?"

"Non molto," rispondo.

"Delle donne..." inizia, "delle povere donne..." Si interrompe. Aspetto che continui. Muove il dito sulla fiamma. "Hai letto la Storia della Rivoluzione Russa, Sidsky?"

"No, papà". Ho la vaga sensazione di non aver ancora detto un "si" stasera.

"Trotsky spiega che la rivoluzione ha avuto inizio con le cucitrici. Ce l'hai il libro? La prossima volta te lo porterò. Ma non iniziare dal primo capitolo. Inizia dal sesto". Poi, come se recitasse una poesia: "La lotta delle cucitrici è come il sole nascente a cui tutto il mondo guarda".

Naturalmente mio padre non sa niente della storia delle cucitrici. Sono sicuro che non ha mai letto un libro, visto un film, consultato un articolo in biblioteca sull'argomento. Lo conosce implicitamente. La mancanza di conoscenza non è un deterrente. Lui spazia allegramente su un'amplissima gamma di soggetti: l'evoluzione sociale dell'umanità dal momento della comparsa dell' Homo habilis; i fondamenti materialisti della civiltà antica; la Rivoluzione Francese, la Guerra Fredda. Mi intrattiene persino sul teatro. In genere sceglie soggetti cosí vasti, cosí appassionanti, che l'interlocutore comprensibilmente non si rende conto dell'inconsistenza degli argomenti che fornisce. Se gli si nomina l'Impero Ottomano e la spartizione che ha subito a opera delle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, alza lo sguardo come se si fosse stancato della discussione. "Ah sí?" chiederà con aria assente. Ma, nei termini piú generali, può parlare per ore con la massima verve dell'oppressione imperialista in Medio Oriente. È il suo ruolo. È un missionario socialista tra i selvaggi proletari, e ogni interazione sociale rappresenta un'opportunità per convertirli. Non ha importanza se lui stesso non conosce dettagliatamente il tema di cui parla; a lui importa solo la Verità. Ha appreso le sue nozioni sulle cucitrici da compagni che a loro volta le hanno apprese da altri compagni e riesce a capire che sono sostanzialmente corrette e non richiedono una significativa rielaborazione della sua concezione del mondo. Però non ha mai osato avventurarsi indipendentemente oltre il sentito dire. Un'esplorazione del genere sarebbe superflua, una gran perdita di tempo e, in determinate circostanze, potrebbe addirittura rischiare di mettere in discussione le conclusioni a cui è già comodamente giunto.

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Mio padre non lo sa, ma quando ero piccolo mia madre mi aveva messo sopra il letto una sua fotografia in bianco e nero incorniciata. Era stata scattata circa un anno prima che nascessi e lo ritrae su un palco mentre parla di fronte ai delegati durante un'assemblea politica da qualche parte nel Midwest. Nella foto indossa una camicia bianca, una cravatta scura e una giacca di lana scura su cui è attaccata una targhetta col nome; mostra un'incipiente calvizie e un po' di barba; porta gli occhiali. Sul davanti il palco è coperto dal poster di un personaggio con il volto interamente nascosto da un cartello che dice "Dekalb". Mentre parla, mio padre consulta gli appunti, con la consueta aria calma e sicura di sé. A un certo punto mi ero reso conto che il volto sul poster non apparteneva a un rivoluzionario iraniano, come avevo pensato, ma a Che Guevara. La scoperta mi aveva riempito di gioia perché se per me mio padre era un estraneo, il Che non lo era, e in un certo senso mi sembrava di esserci anch'io. Mia madre si era preoccupata di mettermi al corrente di tutti gli aspetti importanti della vita del Che: il suo ruolo nella rivoluzione cubana; il suo celebre, bellicoso discorso all'ONU; la sua esecuzione nella giungla boliviana. A forza di addormentarmi e svegliarmi, anno dopo anno, sotto quella fotografia, i due rivoluzionari si erano fusi finché il Che mi era diventato cosí familiare che sembrava mi appartenesse, che fosse lui mio padre e mio padre fosse il Che, che mio padre si trovasse sul poster e il Che sul palco a parlare di mio padre.

Da mia madre avevo anche saputo che, prima della mia nascita, lei e mio padre avevano accarezzato l'idea di chiamarmi Che. Alla fine, però, l'avevano scartata, pensando che con un nome come Che Sayrafiezadeh la mia vita sarebbe stata troppo difficile. Ma questa spiegazione non mi ha mai convinto fino in fondo, dato che l'alternativa prescelta non sembra certo fatta per agevolare il mio passaggio in questo mondo. Una volta mio padre mi ha confidato che nei nomi dei suoi tre figli si poteva ravvisare la sua maturazione politica. Non me lo ha detto per farmi un complimento, ma un complimento supremo. Stavamo passeggiando a Prospect Park; aveva appena piovuto e c'era un'atmosfera cosí intima e confidenziale che non potevo fare a meno di lasciarmi catturare.

Presumibilmente, mio fratello non era stato chiamato Jacob per ragioni politiche ma famigliari. Ci sono tre Jacob nella famiglia di mia madre: Jacob Finkelstein, suo nonno, proprietario immobiliare; Jacob Klausner, il prozio, fioraio; e Jacob Epp (nato Epstein), il protagonista del romanzo di mio zio Qualcosa su un soldato. C'è una bella simmetria nel fatto che il primo Jacob venga dalla famiglia di suo padre, il secondo dalla famiglia di sua madre, e il terzo dall'immaginazione. Il fatto che mio padre, che non ha nessun Jacob in famiglia, abbia accondisceso a dare a suo figlio il nome di un fioraio o di un proprietario immobiliare, per me è una prova che a quel tempo la sua personalità, la sua visione del mondo, la sua relazione con la moglie erano talmente diverse da essere praticamente irriconoscibili. Ma già all'epoca della nascita di mia sorella aveva cominciato a gravitare intorno a idee rivoluzionarie e alla bambina era stato dato il nome di Djamila Bouhired, una militante del Fronte Nazionale di Liberazione algerino imprigionata, torturata e sul punto di essere giustiziata per la sua lotta contro l'occupazione francese.

Quando è venuto il mio turno, cinque anni dopo, mio padre è tornato alla genealogia famigliare, ma stavolta quella della sua famiglia, con suo zio Said Salmasi, un rivoluzionario iraniano ritenuto il fondatore della prima scuola moderna in Iran. Nel 1907, quasi trent'anni prima che nascesse mio padre, Said Salmasi era stato ucciso combattendo contro lo scià durante la prima, e fallita, rivoluzione iraniana. Che potente antidoto dev'essere stato contro mio nonno paterno, un ex uomo d'affari che da anni aveva perso tutta la sua fortuna. Quando era nato mio padre, nel 1934, era sul lastrico e disoccupato. Aveva cinquantatré anni. E che potente antidoto dev'essere stato Salmasi conro mia nonna, cieca o quasi e altrettanto impotente del marito. Erano genitori apolitici, cosí mi ha detto mio padre. Apolitici e impotenti, disposti ad assistere alla Seconda Guerra Mondiale e all'occupazione dell'Iran senza un lamento o una protesta. Mio padre mi aveva raccontato che invece lui, bimbo di sette anni, dopo la scuola si arrampicava su una collina e guardava la lunga schiera di camion militari sovietici avanzare rombando sotto di lui, interminabili, indifferenti, l'uno dietro l'altro, finché, non riuscendo piú a contenere la rabbia, raccoglieva una manciata di ciottoli e glieli gettava addosso, ping, ping, ping. Ripeteva il rituale ogni giorno, finché una volta un sasso aveva spaccato un finestrino e il serpente di camion si era fermato. I soldati avevano preso il bambino e lo avevano consegnato alle autorità locali, che a loro volta lo avevano riportato a casa, ordinandogli di restare lí buono per tutto il resto della guerra con i genitori, lasciando che altri decidessero il corso degli eventi.

Sicuramente Said Salmasi avrebbe fatto qualcosa durante la Seconda Guerra Mondiale. E avrebbe fatto qualcosa in quella notte del 1953, quando í carri armati dello scià avevano marciato in città e tutto quello che aveva potuto fare mio padre era stato chiudersi in casa. E avrebbe fatto qualcosa nel 1979, quando la rivoluzione in cui era stato ucciso settant'anni prima era finalmente tornata col massimo furore.

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