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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Gad Lerner 9 1. Fatima 2.0 15 2. Smiracolo italiano 21 3. Dio difenda l'America 43 4. Unione Sovietica in salsa ortodossa 55 5. Europa, «la religione dei populisti è pietrificata» 67 6. Il Dio degli ungheresi 76 7. Brasile: l'alleanza tra militari, neoliberisti e pentecostali 85 8. Una passeggiata tra le macerie della Brexit 97 9. Francia, lo spauracchio dell'islam 105 10. Gli atei bigotti ed altri animali 113 11. Un antidoto di nome Francesco 130 Ringraziamenti 141 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Tornano i populismi, tornano i nazionalismi - e torna la Madonna di Fatima. Quando Matteo Salvini affida l'Italia, nonché il proprio successo elettorale, al «Cuore Immacolato di Maria», nel maggio del 2019, si rifà, sin dal linguaggio scelto, alle apparizioni portoghesi del 1917, un immaginario religioso carico di significati politici. E quando negli stessi giorni, a svariate migliaia di chilometri di distanza, il presidente Jair Bolsonaro consacra il Brasile ad una statua che raffigura la medesima Vergine di Fatima, mostra che quella del leader leghista non è una trovata estemporanea, ma scientemente si inserisce in una strategia ben coordinata dell'estrema destra globale. Che mescola i più recenti ritrovati del marketing politico alle icone novecentesche con spregiudicatezza, scaltrezza. E cialtroneria. [...] Fatima divenne, irresistibilmente, equivalente di reconquista cattolica. Cementato dalla guerra fredda, il suo mito politico si fece internazionale. Il regime fascista di António de Oliveira Salazar sfruttò i pellegrinaggi di massa a Fatima per rinsaldare l'identità cattolica del paese; per l'opposizione il popolo veniva tenuto a bada con una sorta di moderno panem et circenses, le tre «f» di fado, football e Fatima. La chiesa ufficiale alla fine ha riconosciuto l'autenticità delle apparizioni, ma nel corso dei decenni non sono mancate né cautela (in particolare da parte dei papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI) né aperto scetticismo. Il vescovo portoghese Ferreira Gomes parlò di «culto magico» e «religione utilitaristica», definendo Fatima una «Lourdes reazionaria». [...] Qualche anno dopo, nel settembre 2019, a Fatima si danno appuntamento diversi esponenti di peso della destra internazionale. Spiccano i nomi del premier ungherese Viktor Orbán e del capo di gabinetto di Donald Trump, Mick Mulvaney. L'occasione è un «pellegrinaggio» a porte chiuse organizzato da una sigla piuttosto opaca, l'International Catholic Legislator Network. Dovrebbe rimanere riservato ma, un po' spy story un po' commedia degli equivoci, la presenza, tra gli illustri ospiti, del cardinale Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong, vocale critico dello storico accordo siglato da papa Francesco con Pechino, suscita l'apprensione della Cina. Che - lo ha rivelato il settimanale portoghese Sábado - manda al santuario una squadra di «funzionari dell'ambasciata» per vederci più chiaro. I solerti informatori, però, cercano di intrufolarsi nelle riunioni e fotografare i partecipanti, insistono, iniziano a discutere con gli agenti dell'imponente apparato di sicurezza dispiegato per l'occasione. Scoppia un parapiglia, si apre un'indagine, addio riservatezza. Per la Madonna di Fatima non c'è pace. Assurta oltre un secolo fa a patrona de facto dell'anticomunismo, nell'era dei social network e delle fake news attira populisti di destra da ogni angolo del globo. | << | < | > | >> |Pagina 24E, a un certo punto, in pieno comizio elettorale in piazza Duomo a Milano, Matteo Salvini tira fuori un rosario e un vangelo. Più precisamente: bacia il rosario, giura sul vangelo. Gli esegeti del salvinismo spiegheranno, anni dopo, che «lo stesso leader leghista era rimasto sorpreso, dopo aver per la prima volta baciato il rosario [...], del consenso suscitato». Divorziato, indifferente, a essere eufemistici, delle cose di chiesa, né praticante né granché interessato alle tematiche bioetiche e tantomeno devoto (ammetterà di non pregare neppure il tanto esposto rosario), il leader della Lega diventa di punto in bianco il campione della simbologia cattolica. Non solo per intercettare i voti di qualche movimento cattolico conservatore in cerca d'autore; non tanto per rimarcare ancora una volta la sua distanza dalla Lega secessionista di Umberto Bossi che, negli anni ruggenti, si scagliava contro i «vescovoni», parte integrante di «Roma ladrona», e solo tardivamente recuperò una qualche cordialità con il Vaticano di Benedetto XVI; tanto meno per marcare la geografia politica che un giorno fu della Democrazia cristiana, ora che il Carroccio è primo partito del paese come allora fu la Balena bianca.Usare simboli religiosi semplici e popolari è piuttosto un segnale di fumo destinato ad un elettorato smarrito dalla globalizzazione e dalla crisi economica, una rassicurazione a buon mercato a chi mal sopporta una società secolarizzata, multiculturale e liquida, a quanti per paura di perdere i privilegi conquistati nel secondo dopoguerra cercano un nemico - che sia un immigrato musulmano, una coppia omosessuale che vuole sposarsi o una donna che rivendica la propria autonomia - a coloro che, per timore del futuro, hanno nostalgia di un piccolo mondo antico, voglia di strapaese. Con la consapevolezza che un certo disprezzo dell' intelligencija borghese nei confronti di questo devozionismo popolare non fa che cementare l'unione mistica tra il capo e il suo popolo. E un occhio agli algoritmi di Facebook, che si impennano quando un politico parla della Madonna di Fatima o di Medjugorje. | << | < | > | >> |Pagina 28Negli stessi anni in cui brilla la stella del leader leghista, un altro astro splende con sempre più forza nel cielo della destra italiana, fino a insidiare la luce di Salvini, quello di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia, erede di un postfascismo che nazionalista lo è da sempre, a differenza del parvenu leghista, cita anch'essa spesso e volentieri la religione; alle Madonne e ai rosari salviniani preferisce i presepi, si definisce volentieri cristiana. Celebre, al punto da essere remixato in una fortunata hit da discoteca, il suo urlo di battaglia dal palco di piazza San Giovanni in Laterano, ottobre 2019, per una manifestazione di «orgoglio italiano» insieme all'anziano Berlusconi e al gagliardo Salvini: «È il loro gioco, vogliono che siamo genitore uno e genitore due, genere Lgbt, cittadini X: dei codici! Ma noi non siamo dei codici, noi siamo persone, e difenderemo la nostra identità! Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana, non me lo toglierete!».Da notare: Meloni non si definisce «cattolica», ma «cristiana». Una scelta lessicale non casuale, che rievoca le «radici cristiane» care ad ogni buon sovranista europeo; si ricollega facilmente ai «cristiani perseguitati» del Medio Oriente, tema serissimo ma sovente strumentalizzato dalla destra transnazionale; sormonta distinzioni confessionali rispetto alla «christian right» evangelicale statunitense o al cristianesimo militante dei pentecostali brasiliani o alla «democrazia cristiana illiberale» ungherese. Più fondamentalmente, esplicita il riferimento non tanto al cristianesimo, la religione dei seguaci di Gesù Cristo, ma alla cristianità, la civiltà costantiniana che ha governato grazie all'alleanza fra trono e altare. Essere cristiana è un marcatore identitario, non fede. E come tale si affianca ad altri due capisaldi di questa identità - donna, italiana - che («è il loro gioco!») sarebbero minacciati dai nemici - le élite globalizzate? gli immigrati islamici? - e richiamano la triade, cara al fascismo, di Dio, patria e famiglia. | << | < | > | >> |Pagina 30Papa e sovranisti, la contraddizione perfettaEh sì, perché Jorge Mario Bergoglio e il politico sovranista sono in contraddizione perfetta. Sono entrambi l'espressione di un cambiamento epocale, in Santa Romana Chiesa e nella politica mondiale. Ma hanno idee opposte su quasi tutto, dall'immigrazione all'islam, dall'ecologia alla costruzione europea, dalla geopolitica al rapporto con la modernità. E nel corso dei mesi da Oltretevere si leva, anche per latitanza di alternative, la principale voce di opposizione all'Italia salviniana. Il ministro dell'Interno chiude i porti e il papa si porta dietro nell'aereo che lo riporta a Roma da Lesbo un gruppo di profughi musulmani, Francesco dialoga con la Cina e firma ad Abu Dhabi un documento sulla fratellanza umana con il grande imam di al-Azhar mentre Giorgia Meloni brandisce il «cristianesimo» come una clava, nelle periferie romane scoppia la rabbia neofascista contro le famiglie rom a cui viene assegnata una casa popolare e lui li riceve in Vaticano. Le due sponde del Tevere non sono semplicemente lontane: si detestano. Una contrapposizione frontale che ha tre caratteristiche. La prima: il papa popolare e i politici populisti non evitano lo scontro aperto, anzi. Salvini cita con insistenza Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, indossa in pubblico la maglietta «Il mio papa è Benedetto», frequenta personalità apertamente distanti dal pontefice regnante, se non ostili, da Steve Bannon al cardinale statunitense Raymond Leo Burke al cardinale italiano Camillo Ruini. E l'entourage papale non risparmia bordate al leader leghista: quando Salvini invoca la Madonna di Medjugorje per il decreto sicurezza, il gesuita Antonio Spadaro srotola sui social network la plurisecolare iconografia di Maria che soccorre i naufraghi; un altro gesuita, Bartolomeo Sorge, si spinge a scrivere che «la mafia e Salvini comandano entrambi con la paura e l'odio, fingendosi religiosi»; e quando il leader della Lega trionfa alle europee, il cardinale segretario di stato Pietro Parolin commenta, sottile, che la Santa Sede dialogherà anche con lui, sì, perché «il dialogo si fa soprattutto con quelli che non la pensano come noi e con i quali abbiamo qualche difficoltà e qualche problema» - più che un'apertura di credito la certificazione di una distanza colmabile solo dalla misericordia... La contrapposizione è esplicita perché la controtestimonianza altrui rafforza la propria testimonianza: se si dice che bisogna accogliere i migranti il concetto è chiaro, ma generico; se si dice, come ha fatto il papa con Donald Trump, che chi costruisce il muro tra Stati Uniti e Messico «non è cristiano», il concetto è molto più chiaro, perché si è incarnato nella storia. Lo scontro è tanto più ruvido perché i politici sovranisti e il papa giocano, per così dire, sullo stesso campo: i «populisti» affermano di rappresentare il «popolo», mentre nel nome di un altro popolo, il «popolo di Dio», Jorge Mario Bergoglio ha ripreso le fila del Concilio Vaticano II per riformare la chiesa, promuovere la sinodalità e la collegialità, coinvolgere maggiormente i laici, spingere i chierici ad abbandonare il clericalismo. La contrapposizione, infine, è irrinunciabile perché da essa dipende la definizione del cristianesimo del futuro: segno identitario o annuncio di misericordia, vessillo da contrapporre alle altre culture e religioni o fonte ispiratrice di dialogo, muro per sigillare i confini o ponte per oltrepassarli. | << | < | > | >> |Pagina 55Sulla terrazza romana di Casa Pound, nel giugno del 2018, Alexander Dugin ha esposto la sua visione del mondo, uno scontro apocalittico tra «globalismo» e «populismo», ha tessuto l'elogio dell'Italia giallo-verde, ed ha esposto una curiosa teoria sulla Russia e su Vladimir Putin: c'è un Putin lunare, che importa poco, e c'è un Putin solare. «È un momento storico», ha dettò «l'ideologo di Putin» in ottimo italiano, benché venato da forte accento russo. «Abbiamo avuto una nuova grande vittoria sulle forze globaliste mondialiste: dopo Putin, dopo Trump, dopo la Brexit, dopo Orbán, dopo Kurtz [il primo ministro austriaco], le forze dei popoli cominciano a vincere le élite antipopolari e l'Italia oggi sta al centro dell'avanguardia di questo processo». L'alleanza tra Lega e Movimento Cinque Stelle, che proprio in quei giorni muoveva i primi passi, è una riedizione - ohibò! - della «Roma eterna» e rappresenta una «sfida all'Unione europea», che dovrà chinarsi o «scomparire». Quanto al presidente russo, c'è un Putin «lunare», che è il Vladimir Putin in carne e ossa, e c'è un Putin «solare», che «forse non esiste, forse è una figura mitica, forse è un'idea, ma questa idea è più importante del Putin reale», perché è «lo schermo dove le nostre forze, le nostre energie e le nostre speranze sono proiettate», il «rappresentante autentico della geopolitica, della sovranità, dell'identità russa» che «ha creato le condizioni per la fine dell'egemonia americana liberista», l'affermarsi del «mondo multipolare contro il mondo unipolare». Il capofila, insomma, del populismo mondiale, che va «oltre la destra e la sinistra ma contro il centro liberista e globalista», ha spiegato Dugin. Lo scontro ha toni millenaristici: da una parte il liberismo - «la globalizzazione, Soros [George Soros, finanziere ebreo di origini ungheresi], l'atlantismo ideologico» - che pesca da sinistra «la politica del gender e tutte le perversioni», da destra «la difesa del capitale globale sfrenato», e cestina tutto il resto; dall'altra il «populismo», la «sfida per distruggere questo modello falso, questa dittatura, questo pensiero unico totalitario», e che invece, ha proseguito il pensatore russo citando Julius Evola e Antonio Gramsci , supera «l'antifascismo e l'anticomunismo imposti dal sistema che vuole uccidere i popoli» e libera finalmente gli europei. Nel segno «della libertà vera, della democrazia vera, della sovranità e della dignità delle culture e dei popoli», ha detto Dugin tra gli applausi dei militanti neofascisti. [...]
Vladimir Putin prende il potere, nel 2000,
per garantire stabilità e riportare ordine, ma anche
per riprendere il controllo statale dell'economia e
restituire orgoglio ai suoi concittadini. E col passare degli anni, insieme alla
curvatura autoritaria del
suo potere, ne accentua la coloratura ideologica. Il
crollo dell'Unione Sovietica ha lasciato un vuoto, e
Putin deve colmarlo. A un certo punto, si converte.
Lo zar dell'ortodessia «Porta sempre con sé una piccola croce. Non salta una messa di Natale e tantomeno a Pasqua. Bacia le sacre icone. E si scaglia sempre più volentieri contro l'Occidente, che ha "dimenticato le sue radici cristiane" e "cerca di parificare i diritti dei matrimoni omosessuali con quelli delle famiglie tradizionali. La fede in Dio con quella in Satana"», annotano gli osservatori più attenti già nel 2013. «Giunto al suo terzo mandato al Cremlino, Vladimir Putin ha scelto la strada dei valori ortodossi per cementare l'identità di un paese che due decenni dopo il crollo dell'Urss fatica a darsi una direzione. Un paese orfano della superpotenza, ma che vuole contare sulla scena internazionale e torna a sfidare l'America di Obama, come la partita negoziale sulla Siria sta dimostrando. Nei confusi anni Novanta Boris El'cin lanciò un "concorso alla ricerca di un'idea nazionale": nessuno lo vinse, perché non emerse alcun concetto convincente». Putin lo ha trovato. Nella conversione del leader russo si mescolano machiavellismo e sincerità, è difficile distinguere ragion di stato e motivazione personale. [...] Vladimir Putin è un leader autoritario e pragmatico. Ha ereditato un impero ferito, gli ha restituito l'orgoglio perduto. Da agente del Kgb ha assistito a malincuore al trionfo degli Stati Uniti, il nemico della guerra fredda; anni dopo, da presidente, ha assistito con piacere alle sue crescenti difficoltà, per non dire declino. È uscito dall'angolo in cui la storia aveva ricacciato la Russia proponendosi come dominus degli equilibri in Asia, in Medio Oriente, addirittura in Nord Africa. Ha schiacciato l'opposizione, ha fatto la guerra alla libera stampa, ha umiliato la società civile. [...] Con un rovesciamento sconcertante della storia, in pochi anni ha reso la Russia il faro del pensiero conservatore e dei leader populisti di destra di tutto il mondo. Non molti sanno, d'altronde, che il populismo nasce in Russia nell'Ottocento. Anzi, i populismi: c'era un populismo di sinistra (populism), quello dell'intelligencija illuminata sensibile alle istanze del popolo, rappresentato dal conte Lev Nikolaevic Tolstoj , scrittore immortale, che amava fare il contadino tra i suoi contadini. E c'era un populismo di destra (narodnost), quello del popolo che si identificava nel suo capo, lo zar. Come Vladimir Putin. Quello solare, di quello lunare poco importa. Lo Zar indiscusso di un'Unione Sovietica in salsa ortodossa. | << | < | > | >> |Pagina 97Il crocifisso, per i primi cristiani, era un tabù. Sventolato oggi dai politici populisti, Dio morto in croce, nudo e senza gloria, era raffigurato dai nemici del cristianesimo a mo' di oltraggio. Gli artisti cristiani dei primi secoli ne provavano vergogna. Sul portale ligneo del IV secolo della basilica di Santa Sabina, sul colle dell'Aventino, dove Timothy Radcliffe mi accoglie, è intagliata una del le primissime raffigurazioni di Cristo in croce, se non la prima in assoluto. Segno che i cristiani si erano finalmente appropriati dello scandalo. [...] «La democrazia in Inghilterra ha perso il contatto con il dramma della vita delle persone. Tutta la mia famiglia è conservatrice, ma io ho sempre votato laburista, perché il Labour era impegnato nelle battaglie delle persone comuni: minatori, costruttori di navi, agricoltori. Portava i loro sogni. Ma ora non lo fa più. I partiti sono diventati più esperti di tecnica politica che portatori di un sogno del futuro. Per alcuni il populismo rappresenta il recupero dell'entusiasmo. Il problema del populismo è che non crea una vera comunità, ma una folla. [...] Eppure il nazionalismo è di ritorno, non di rado ammantato di cristianesimo. «Con la globalizzazione il denaro fluisce dappertutto istantaneamente, va in giro per il pianeta a grande velocità e può diventare uno tsunami che distrugge tutto - riflette Radcliffe -. Molte nazioni avvertono un senso di impotenza e ogni politico deve presentarsi come il salvatore della nazione. In Inghilterra abbiamo un buon numero di salvatori, tutti Gesù Cristo! Il nazionalismo spesso ricorre alla religione, che sia il buddhismo in Myanmar, l'induismo in India, l'ebraismo in Israele o il cristianesimo in America, in Ungheria, in Italia». «Il patriottismo va bene, amare il proprio paese è giusto, ma usare la religione per battezzare il nazionalismo - prosegue il teologo domenicano - è sempre un tradimento della religione, e in particolare del cristianesimo. Il problema esiste: le forme globali di governo del mondo non stanno funzionando per proteggere persone che si sentono vulnerabili. Ma la risposta non è costruire muri. Le persone vogliono mantenere la propria cultura, ma la cultura è vera solo se è viva, come scrive il papa nella Evangelii gaudium. Il sogno di una cultura nazionale chiusa non ha senso. Bisogna vivere creativamente, è entusiasmante, è parte del viaggio epico». | << | < | > | >> |Pagina 113Quando era bambino, giunse nel paese di Gustave Le Bon un imbonitore, un mago coperto di vesti scintillanti, che vendeva a poco prezzo un rimedio contro tutti i mali, un elisir capace di assicurare la felicità. Le proteste ragionevoli del farmacista locale furono inutili. «Quel che il mago vendeva era l'elemento immateriale che guida il mondo e che non può morire: la speranza», annota lo studioso francese, e aggiunge: «I preti di tutti i culti, i politici di tutti i tempi, hanno mai venduto qualcosa di diverso?». La storia non si ripete, i populisti di oggi non sono i meneurs de foules di ieri, ma qualche incursione nel passato aiuta a capire il presente e a interrogare il futuro. | << | < | > | >> |Pagina 118Più fondamentalmente, è il concetto stesso di popolo che va posto in questione. Categoria mitica, più che sociologica, il popolo viene descritto dal populismo come omogeneo, compatto, mobilitato attorno al leader, con una mistificazione della realtà del tutto analoga alla nascita del nazionalismo di inizio Novecento. Masse di persone avevano sofferto una guerra mondiale (1914-18) e una crisi economica (1929), erano alienate dal sistema parlamentare, aderirono ad una proposta politica che era anche una promessa di appartenenza e rivincita. Per nazionalizzare le masse, ha notato lo storico George Mosse , il nazismo e il fascismo inventarono una sorta di religione laica, con miti, riti e simboli che cementavano il destino collettivo e il culto nazionale.Questa griglia analitica torna utile oggi, tanto più che la ricerca teorica ha tardato ad approfondire il nesso tra populismo e religione. E invece la religione è fondamentale per identificare, mobilitare, guidare un popolo. Seguendo il ragionamento di George Mosse, però, si può sostenere che la «sacralizzazione della politica» ha preceduto la «politicizzazione del sacro». I populismi, cioè, possono arrivare ad essere «religioni politiche», e solo in seconda battuta attingono alle tradizioni religiose vere e proprie. L'afflato religioso è intrinseco nella retorica populista: c'è un popolo «moralmente puro, nobile e virtuoso», «i paesi sono terre promesse dove "il popolo" ha diritti inviolabili alla cultura, all'eredità, al lavoro», i diritti sono minacciati da un doppio nemico, gli immigrati, ossia gli «invasori cattivi», e le élite, ossia la quinta colonna, e i politici populisti che combattono chi «minaccia il nostro stile di vita» sono «salvatori nazionali». Operare in nome di Dio, nonché del popolo, magari con qualche fake news, rende la missione indiscutibile, puntella l'autorità del leader, mobilita gli elettori, immunizza dalle critiche. La politica, dunque, si sacralizza. | << | < | > | >> |Pagina 124Alcuni di questi ideologi li abbiamo incontrati nel corso del libro, consiglieri coltivati e spregiudicati all'ombra di un leader politico: Steve Bannon dietro Donald Trump, Alexander Dugin attorno a Vladimir Putin, Lorenzo Fontana accanto a Matteo Salvini. A volte i leader non hanno bisogno di un ideologo, fanno da sé, come Viktor Orbán. Altre volte gli ideologi sono un gruppo più indeterminato, come i pastori pentecostali che sostengono e influenzano Jair Bolsonaro in Brasile; a volte, come in Francia, hanno il volto dell'ultima rampolla della famiglia dinastica della destra, Marion Maréchal-Le Pen. Alcuni escono più allo scoperto, altri rimangono maggiormente nell'ombra. Si ritrovano a Fatima, convergono al congresso delle famiglie di Verona o al convegno sui cristiani perseguitati di Budapest. A Roma si danno appuntamento a un convegno organizzato nel febbraio del 2020 dal biblista e politologo israeliano Yoram Hazony, autore del libro Le virtù del nazionalismo. Giorgia Meloni viene accolta con ammirazione, Marion Maréchal-Le Pen con benevolenza, Orbán come una star. Applausi per la Brexit, bordate all'Unione europea all'euro e alla globalizzazione finanziaria, nostalgia per l'alleanza di Ronald Reagan con Giovanni Paolo II. Il sottotesto, neppure tanto velato, è che oggi un presidente statunitense nazionalista c'è, manca un papa che sia suo alleato. A volte millantano, spesso svolgono un ruolo reale. Studiano, girano il mondo, stringono legami. Si confrontano, si influenzano, forniscono ai politici idee, argomenti, parole d'ordine. Impollinano la politica con le loro idee, che non casualmente ritornano uguali nei diversi angoli del globo.
Hanno percepito prima di altri la crisi della globalizzazione e del
multilateralismo, hanno subodorato per tempo l'onda lunga dell'identitarismo
e del comunitarismo, si sono resi conto che senza
cultura, senza l'uso delle idee e della storia, i loro
leader di riferimento avevano il fiato corto. E, attingendo nel gran calderone
della storia delle chiese, dove abbondano guerre di religione e crociate,
condanne agli infedeli e scomuniche agli eretici,
controllo sociale e conservatorismo, usano il sacro
per marcare territori, distinguere nemici, sradicare
la diversità. Intendono la religione come un fattore che mobilita, compatta,
riscalda. Nel deserto, ai loro occhi, il cristianesimo è un'oasi incontaminata,
nella confusione una parentesi omogenea, nella tempesta una struttura solida -
uno strapaese protetto, una famiglia tradizionale, un monastero
isolato. È il passato di cui avere nostalgia. È il baluardo di una civiltà
gloriosa e assediata. Dicono
di difendere il cristianesimo, ma lo trasformano,
sciaguratamente, in un'ideologia pietrificata, uno
scheletro, un monumento ai caduti.
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