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| << | < | > | >> |Pagina 5Oramai Adelina mi guarda solo con diffidenza. Anche adesso s'aggira intorno al tavolo roteando nervosamente lo straccio dentro il bicchiere e poi in silenzio se ne ritorna in cucina scuotendo il capo. Nel suo idioma da maestrina, ieri è arrivata perfino a dirmi: «Sempre piantato in questa casa, ma dov'è finito il mio fratello nomade, il Totò vagabondo che conosco? Nemmeno con quegli scioperati dei tuoi colleghi esci più?». Non sa se aggredirmi o deridermi, ma ha ragione lei. S'è accorta di quanto m'è accaduto e si spaventa perché non lo comprende. Intuisce che neanche io saprei spiegarglielo bene. Nemmeno se partissi dall'inizio. Bisognerebbe premettere che non ho mai saputo scrivere. Prima di qualche mese fa, mai avrei immaginato di poter superare la mia naturale ripugnanza a tracciare segni diversi dalle cifre della mia modesta contabilità o dall'annotazione di qualche raro appuntamento. Mai avrei potuto prevedere che un bel giorno sgorgassero dalla penna, nero su bianco, consonanti, vocali, apostrofi, che come anellidi e larve, strisciassero sulla carta a comporre parole. Nella nostra casa gli strumenti dello scrivere (penne, fogli bianchi), erano oggetti rari e spesso introvabili. Per di più, in quel periodo mi sopravanzava l'affanno di un'ignota stanchezza, una zavorra che specie verso sera mi rendeva penosa perfino la semplice deambulazione. L'avevo attribuita al rapido procedere della mia vita verso l'età matura (ho compiuto da poco quarantatré anni) e spiegata con un'angosciosa fantasia crepuscolare: l'idea che il sovrapporsi senza fine di giorni e avvenimenti sempre uguali avesse potuto scavarmi una qualche indecifrabile pozza interiore (mi scorrevano ossessive nella mente le acque immobili del lago di Garda abbandonato dopo solo tre giorni di vacanza) e che quell'ingorgo di liquidi torbidi, ristagnando senza via d'uscita, un giorno o l'altro avrebbe potuto sommergermi. Forse quegli appesantimenti serali ne rappresentavano oscuri segni premonitori. Ancor di più mi smarrii quando, dopo qualche tempo, progressivamente essi si trasformarono in veri e propri cedimenti. Sì cedimenti, proprio nel senso di cadute. Una mattina m'ero ritrovato confuso e semicosciente, disteso sulle mattonelle granigliate della stanza da pranzo. Le ansie di Adelina mi costrinsero a consultare il medico di famiglia che attribuì quei sintomi a un'eccessiva stanchezza. Mi prescrisse un ansiolitico e dei controlli clinici. Non assunsi l'uno, non mi sottoposi agli altri, perché non è da tali espedienti che mi aspetto la guarigione. Tutti questi noiosi contrattempi si concentrarono in un unico periodo e nel modo inatteso e bizzarro che dicevo, ma la svolta vera avvenne un sabato, mentre come al solito registravo i resoconti periodici delle nostre spese. Adelina è la sorella con la quale vivo da sempre. Nostro padre e nostra madre svanirono in un incidente d'auto che ancora non avevo compiùto cinque anni. Ci allevò una cugina nubile di nostra madre, Ziary, ritornata con qualche soldo al meridione dall'emigrazione degli anni '50. Per noi lei fu l'uno e l'altro genitore. Io, dopo un breve matrimonio senza figli e un prolungato, tormentato divorzio, ho sempre diviso la casa di Ziary con mia sorella. Fin dal principio della nostra coabitazione, ogni settimana Adelina mi consegnava i fogli quadrettati sui quali aveva annotato scrupolosamente le spese quotidiane della nostra famiglia. Il sabato e la domenica trascrivevo accurate sintesi dei suoi resoconti giornalieri nel tentativo di rendere compatibili le nostre sempre eccessive spese con la mia magra pagnotta mensile. Ero concentrato sulle colonne di cifre che tracciavo ordinatamente a mano e che più in basso totalizzavo faticosamente, quando sentii nella cucina una stoviglia cadere per terra e rompere il silenzio della casa col suo rumore deflagrante. Senza riflettere scrissi accanto alla somma delle uscite per frutta e verdura: un piatto in meno nella casa, come se l'evento potesse fare parte delle sommatorie positive e negative che stavo compilando. Un altro segno meno nella mia contabilità che non sapevo dove collocare. Si può affermare che nemmeno mi accorsi di quelle parole scritte. Assaporai un altro sorso del caffè lasciato raffreddare nella tazzina dorata e alzai lo sguardo verso lo specchio della credenza. Non possiedo una scrivania per dedicarmi in pace alle mie somme e quindi anche quel sabato avevo esiliato in un angolo il grande piatto viola di Murano, orgoglio di Ziary. Così mi conquistavo sul tavolo da pranzo uno stretto corridoio ove poggiare le mie penne e il quaderno. Da dietro quella trincea mi stavo fissando nello specchio della credenza che dalla parete opposta domina la stanza e il desco. Non sono un Telamone ma nello specchio ben poco di me sporgeva oltre il ripiano del tavolo. Forse per un'anomala altezza delle sedie di cui mai mi ero reso consapevole o per una postura del corpo o chissà, per un'inclinazione eccessiva del vetro, mi riflettevo solo dallo sterno in su. Rivolsi lo sguardo verso il basso, rilessi le mie sei parole scritte e capii che quella storia non poteva finire lì. Mi sembravano sconsolatamente incompiute, in solitaria attesa di qualcosa, come se dietro o sotto quei lemmi ne premessero degli altri attratti dalla residua parte di foglio quadrettato rimasta desolatamente vuota. Sotto l'ultimo rigo delle mie somme aggiunsi: è caduto per terra e s'è frantumato in mille pezzi, come a volermi giustificare la posta negativa, impropriamente inserita fra le scarole e le clementine. Ma c'era ancora dell'altro. Anche la seconda frase non aveva definito e circoscritto l'accaduto e allora dovetti precisare: l'urto è stato violento, il rumore impressionante, l'oggetto deve essere precipitato da molto in alto o Adelina lo deve aver scagliato lei con forza e... Sospesi la scrittura. Stavo veramente pensando che Adelina potesse avere uno scatto così vanamente rabbioso verso le proprie cose? Proprio lei, sempre intenta a custodirle con cura eccessiva e snervante. Il fragore del piatto era quello della sua stremata sopportazione? Il trascurabile, insolito gesto di annotare quell'irrisoria cronaca mi stava portando fuori strada. Non c'era dubbio. Se non avessi seguito l'incomprensibile impulso a registrare quella perdita non come un numero ma come un accadimento, nulla sarebbe mutato nella mia vita. Gli scarni, decisi segni tracciati, per una loro ignota energia, avevano dato rilievo e spessore a un avvenimento da nulla, causando poi un lento, impalpabile deragliamento dai quieti binari dei malsani pensieri d'ogni giorno. M'accorgevo di guardare Adelina, il piatto e la cucina in fondo alla casa con inedito sospetto e ancora la pressione di altre parole sembrava agitarmi lo scivoloso pennarello. Era un piatto del servizio buono? Evento impensabile ma foriero di gravi ambasce familiari, se fosse stato vero. Affrontai il rischio e mi dilungai a descrivere l'accaduto, convinto che quell'insistenza avrebbe potuto rivelarmi chissà quali inediti dettagli delle vicende che si svolgevano nella cucina. Quello che in altra occasione avrebbe suscitato solamente un "Cos'è stato Adelina?" e un suo "Niente Antonio", all'interno del mio insolito silenzio, inevitabile per l'applicazione dello scrivere, diventava un mondo sferico e misterioso nel quale io e lei ci guardavamo perplessi e diffidenti. Non lo ressi e con poca voce le domandai: «Ti sei fatta male? Cosa s'é rotto Adelina? Un piatto di Faenza?». Silenzio. Adelina s'era insospettita per qualcosa e non mi rispondeva? Rilessi l'ultima frase: scagliata con forza e di seguito continuai, e se fosse veramente uno di quei pezzi del costoso servizio che comprammo nelle Marche? Sarebbe per lei un colpo, un avvenimento distruttivo. Ma no, se fosse così, già avrei sentito singhiozzi di disperazione e richieste di soccorso. L'impulso a proseguire, a generare parole non diminuiva. Avvertivo confusamente d'aver messo in moto una parte di me fino ad allora bloccata e ignota, cioè quella frazione di cervello e di occhi che non vede ma percepisce nel modo particolare che si chiama "leggere" e ancor di più "scrivere". Insieme a tutto questo, lentamente si ricomponeva nella mia mente in inedite sequenze ogni recente collera di Adelina. Gli sportelli sbattuti, i rifiuti di salire con me in ascensore per un'asserita claustrofobia e poi, anche conti che non tornavano, i soldi che sembrava non bastassero mai. Adelina, la mia amata sorella, forse mi nascondeva qualcosa? Faceva la cresta sulla spesa? E per quali sue necessità? Dal luogo dove mi avevano casualmente trascinato le mie irrisorie scritture cominciavo a intravedere una rete di interrogativi prima mai considerati, a fantasticare su episodi insignificanti. Vaneggiamenti che sembravano dipartirsi dalla punta della mia mobile penna ed estendersi, come una ramificata frattura, dentro la recente geografia della mia vita. Però, questo allontanarmi dal quotidiano, circolare Golgota dei miei pensieri, dopo un attimo di smarrimento mi suscitò un sollievo e una leggerezza mai provate. La materia depositata dalla mia biro, con un'infezione repentina, inarrestabile, stava alleviando la pesantezza di ogni mia memoria, misteriosamente accorciando le distanze che mi separavano da essa. Emozioni dimenticate, ricordi pervenuti dalle più disparate epoche della mia vita e vertiginosamente risuscitati da quelle poche righe, mi trapassavano disordinatamente. Sì! Dovevo dare conto e acuire il tatto di questa mia nuova capacità. | << | < | > | >> |Pagina 62«Perché se n'aveva i' accussì ampress?», mormorò rabbiosamente la Vecchia. Ristabilì il suo traballante equilibrio con la mano sul baule verde, cimitero di certe sue tappezzerie asportate in fretta dai muri di una remota casa. Broccati rossi e giallo oro, a losanghe e verdi marezzati. Da molti anni la Vecchia non l'apriva più. La cassa di ferro correva lungo la parete maggiore della cucina e sul fornello bolliva disperatamente una minestra. La minestrina Knorr ai funghi, per l'obbligatoria devozione della cena. La sera già s'era infiltrata tra i fori delle serrande ma lì sembrava essersi fermata, aspettando pazientemente che la Vecchia, dopo aver mangiato, spegnesse la luce. Col suo manto sarebbe dilagata nella cucina e per il resto della casa. Le avrebbe fatto compagnia fino all'alba. La Vecchia zoppicò trascinandosi l'anca destra, facendosi forza con le mani sopra il fornello e poi sul tavolo di legno plasticato. Avanzava destramente, lungo questo corridoio di appoggi seminando l'aria della sua scia agliosa di lumaca testarda. La mano saltellava sulla parete ingiallita lungo la pista grigia che l'avrebbe condotta alla stanza da letto. «Malafemmine so'!!», rimestava fra i denti pensando a Carmelilla, la vigorosa cameriera che l'aveva abbandonata a mezza mattina. «A vuless' proprio vedè 'sta malatia rà figlia!!», borbottava fra sé. Questo delirio solitario, queste parole assegnate al vento non le creavano alcuna compagnia ma solo un'eco sonora della sua collera senile. Le note rabbiose di un illusorio dominio sulla realtà. La Vecchia s'abbandonò sulla poltrona di vilpelle rossa. Abbrunata dall'uso, era incastrata fra il letto e le cadenti intelaiature della finestra da dove pendevano opache tende di terital. Addossò la testa allo schienale e socchiuse gli occhi per dare un argine al dolore che s'irradiava dall'articolazione dell'anca fino al fianco. Ancora non ci credeva. Ancora si sorprendeva della sua vecchiaia. Malgrado anni le fossero sfuggiti, innumerevoli come biglie di un gioco da ragazza, nonostante il suo corpo scivolasse lentamente verso l'arbitrio della carne corrotta. A occhi chiusi pensava alla sua vita, un nastro interminabile dietro di lei. La sofferta infanzia nel collegio delle Dorotee, il mitico Periplo del Mediterraneo sullo yacht del padre amatissimo. Il ritorno, da sola, coi marinai torresi a scansare tempeste, l'adolescenza nel giardino di cedri ed eucalipti della villa sulla collina del Parco Grifeo. Come era diventata tanto vecchia, se aveva quei ricordi così solidi e presenti che le scorrevano avanti a piacimento, bastava chiudesse gli occhi per riposare. La sua scarsa memoria del presente mai aveva contagiato le trasparenze del passato, come era accaduto a Chinchina, ultima amica sopravvissuta che a stento la riconosceva. Per lei non era stato così. I volti antichi le erano sempre lucidi e presenti. Ora le sfilavano davanti i preparativi della sua partenza dal Collegio di Santa Dorotea, i richiami delle voci. I volti sudati delle amiche avevano il nitore della vita reale, molto più chiari delle immagini che carpiva attraverso le pupille innevate dalle cataratte. Saltò agli albori della sua vita coniugale, il passo vigile e proprietario nella casa patrizia, una lunga trafila di stanze e di saloni e l'estate rovente della sua gravidanza. Ranieri, il ginecologo amico che veniva a casa a raccogliere il suo frutto di primipara. Per vederci meglio doveva accogliere un assopimento che spesso tardava a venire. Senza ordine e necessità, le immagini, insieme al vigore luminoso che portavano con loro, le sfilavano nella mente nette e precise. Gli altri li chiamavano ricordi, ma per lei erano luci. Squillanti o fioche che fossero. Richiamare alla memoria. Più volte s'era sforzata di "rammentare", ma il transitare per quella parola le aveva evocato un tale spessore di tempo che una trama indecifrabile, una cortina di tulle le aveva offuscato la mente, egualmente alle cataratte di giorno. Da allora, ogni volta che si voleva perdere nella sua vita trascorsa, ricercava le luci, i chiarori, i barlumi, i riverberi che era riuscita a conservare dentro di sé e da lì si lasciava trascinare sulla globalità della scena. Un tramestio minaccioso di temporale la interruppe e lo scirocco rabbioso degli esordi autunnali le spalancò il balcone sempre socchiuso, illusorio antidoto all'affanno. Fece leva sul bracciolo della poltrona, saggiando i familiari lembi delle ferite di stoffa e si sollevò quel tanto che le permettesse di chiudere la finestra. Soffrì intensamente per quella semplice manovra. Sentiva la pioggia investire i vetri con l'insistenza e la violenza delle prime tropee settembrine, l'acqua scorrere abbondante per il suo balcone e precipitare giù con un mormorio di ruscello. Questa corrente gliene dischiuse un'eco nella mente. Le sembrò che quel precipitare chiassoso la dilavasse dai sedimenti delle notti precedenti, dalle angosce e dal dolore depositatisi nell'anima. I tuoni s'avvicinavano scuotendo l'aria immobile. Le luci del lampadario, rifratte fra i pendagli di vetro ingiallito, s'abbassarono e sussultando di un'ultima pulsazione, si spensero. Il buio era un testimone abituale delle sue notti e la Vecchia s'appiattì sulla poltrona lasciandosi sommergere dalla distesa sonora dell'acqua. Pensò con rammarico ai panni stesi. Si voltò verso la toilette incartapecorita da una trama vetrosa. Sopra di essa v'era appoggiato in bilico precario un largo specchio sbreccato agli angoli dove la Vecchia soffermò lo sguardo per un istante. Non si rimirava così da tanto tempo, forse da una mattina di molti anni prima, in attesa del taxi che la doveva portare al matrimonio del figlio. Nella superficie riflettente, ai barlumi di luce che la stanza trafugava dalle lampade del viale, intravide una forma senza più decisi contorni, vaga e inafferrabile. Temette che quanto di lei non riuscisse più a scorgere si fosse consumato e dissolto durante quella vita interminabile e quel poco ch'era rimasto fosse la misura di quanto scarso tempo le restasse da vivere. Appoggiò lo sguardo sul piano della toilette. Un vetro nero, popolato di cornici e di fotografie. Un languore smorzato, quasi una nota prolungata di fagotto, le parve per un attimo sovrastare la pioggia. In quell'intreccio di chiaroscuri non scorse niente, ma di nuovo l'eco di questa nota ripetuta la fece girare in allarme. Nell'offuscamento delle cataratte le sembrò di distinguere un'ombra. «Chi c'è là?», gridò con un tremito di gola», «chi è?», ripeté a voce più bassa. Per rincuorarsi, perché sentiva i suoi ventricoli scorazzare lontano da lei. «Non t'impressionare Maria, sono Gerardo», bisbigliò una voce. Un'intensificazione della nota precedente su di un tono più basso. «Ma chi Gerardo?», rispose lei impaurita. «Gerardo. Tuo marito! Ma quanti ne conosci con questo nome?». La nota oscillò lungo un vocalizzo di suoni bassi e inconsistenti che prima dell'ultima parola quasi declinavano nel silenzio. «Gerardo mio? Ma tu si muort tant'ann fa!», la Vecchia gridò per sovrastare quello sfarfallio di suoni che le esplodeva nel cervello. «E che vuol dire?», rispose la nota in un sussurro, «Maria, adesso calmati. Sono proprio io», la vibrazione acquisì un timbro affettuoso che le sembrò familiare. «Lo so che non mi credi», riprese dopo una lunga pausa, «hai bisogno che te lo dimostri? Il viaggio a Roma prima di sposarci, te lo ricordi? Non lo seppe mai nessuno e la fotografia in mezzo al Colosseo? Quella che tieni nel tiretto, nella scatola dei biscotti. Tu accanto a me. Quasi non ti si vede, attaccata al mio braccio». «Me la ricordo quella fuga Gerardo, ma che spavento mi hai fatto prendere!», e dopo un sospiro di esitazione, «dopo trent'anni ti fai sentire! Forse sei venuto per portarmi via insieme a te?». «Maria, ma che sciocchezze vai dicendo. Certo che no», rispose la nota lievemente irritata. «Ah! Poteva essere. Tutti m'abbandonano prima del tempo. La cameriera oggi e venticinque anni fa anche tu. Manco cinquantadue anni tenevi. Ho pensato che me ne dovessi andare anch'io, prima del tempo...», si interrupe per prendere fiato. | << | < | > | >> |Pagina 117Devo ancora aspettare. La pioggia scorre lungo le sue fibre martellando la strada e lo spiovente ardesia dell'Ospedale. A fatica i tergicristalli rimuovono le gocce pastose dallo scarno panorama. Il movimento e il rumore m'azzerano il pensiero. Chiuso, rattrappito, le gambe e le braccia legate ai comandi dell'utilitaria, le articolazioni faticosamente adattate agli spazi ristretti, mi basta sollevare un dito e la giostra si ferma. Un'onda d'acqua rabbiosa m'affonda il parabrezza. Meglio così, meglio questi intrecci fluorescenti che scorrono incanalati nei rivoli. Dall'alto trasuda un azzurro e uno straccio di cirri bianchi liberati dal sole. Devo ancora aspettare. Alla mia sinistra, la brutta ringhiera dei paracarri gialli e bianchi. Una quinta di cartone distesa fino alla grondaia della fermata dell'autobus. Qualche sparuta macchia di passante mi passa davanti in fretta. Le auto, coleotteri voraci, mi sfiorano e rapide svicolano. Il rosso dei loro stop mi sporca il vetro, si contagia come un carbonchio, macchia su macchia, poi cede e si piega nel filo dell'acqua che scorre. Io, come tutti, rattrappito, immobile a muover mignoli e alluci per procedere. Faticosamente aggrappato a questo clone di lamiera fraudolentemente diversa dalle altre, ad accalcarmi, a strapparmi, a divellermi dal fiume principale. Guardo l'orologio del cruscotto. Devo ancora attendere. Come si dice, ingannare il tempo. Apro il finestrino con una lieve pressione del dito indice. «Ma sta andando via?», mi precipita dentro. Sobbalzo nell'auto. Insieme all'aria umida m'è destinata questa donna scura e grassa, i riccioli allentati dalla pioggia. Mi scruta speranzosa come se potessi regalarle qualcosa. È oscena con la tintura nera che sotto la pioggia sembra colarle via da un momento all'altro. «Ma che andando via!», le rispondo con un urlo e un gesto minaccioso della mano. Il parabrezza è carico d'un olio trasparente. Cupole eccitate di ombrelli rivelano le traiettorie dei passi, la discronia delle andature. Una, a losanghe verdi, zoppica chiassosamente. Mi giunge ossessivo, il sibilo arbitrale dei parcheggiatori. Si vedono svettare fra le auto i loro berretti neri con gli stemmi falsi ove avvicinano la mano ad ogni mazzetta incamerata. Con ampi gesti delle braccia cercano di accaparrarsi nuova merce. Guardo l'orologio sul cruscotto. Per ora, devo aspettare. Sulla strada, i riflessi diluiscono in fibrille di colori, impronte di ruote si specchiano argentee e si dilavano a ogni nuova onda. L'acqua moltiplica le turbolenze vivaci degli spot e delle ogive spalancate. Lungo i due marciapiedi, filari di colossali fiammiferi ricurvi spargono un fioco riflesso sull'asfalto lucido e sugli eucalipti. Oltre il muro di cinta, proprio di fronte all'Ospedale. Dove mi sono messo a parcheggio, insieme alla mia auto. Rari passanti si riparano dall'insistente pervicacia dell'acqua attendandosi con la giacca, fin sopra la testa. Corrono decapitati verso il riparo della pensilina. Gente entra ed esce dall'Ospedale. Ha le porte girevoli di un Hotel scalcinato. Una nota d'ironica ricercatezza per irretire la morte che s'aggira entro il perimetro delle mura. Penetrano le calde popolane languidamente obese, sirene opulente come è conveniente per i mammiferi marini, sottoproletari pezzenti, lavoratori ambulanti e qualche triste macho di periferia, immiserito dai capelli strinati di giallo e dai piercing crudeli, tutti costretti a quell' introibo da un'ostinata speranza e dal quotidiano paternostro con la miseria e poi, questa è voce di popolo, "In quell'ospedale c'è una buona rianimazione". Al riparo della mia lamiera colorata, dei miei gesti coatti, apparentemente immune alla morte che mi scorre a fianco, scavo nella bobina dei miei pensieri, fino a quella sentenza popolare: "Lì c'è una buona rianimazione". Ti restituiscono l'anima. Fosse così, sarebbe il posto migliore del mondo. «Nunn'è niente, nunn'è nient», mi ha detto per calmarmi. Non ha nemmeno la cuffietta l'infermiere, solo una tuta di un verdone irritante. Più che a un Pronto Soccorso, questo posto assomiglia a un vecchio ufficio di collocamento. Quattro, cinque stanze, le poche attrezzature mobili trascinate da un ambiente all'altro. Il colore variegato del linoleum (grigio-beige-marrone) nasconde bene la sozzura che riemerge negli angoli oscuri dei muri scalcinati. In una di quelle stanze ho lasciato un vecchio, una sostanza, un succo vitale della mia esistenza. Tutto l'universo di tempo e di spazio che lui è stato si è addensato in quelle membra abdicate sul lettino affollato di lenzuola. Rimpicciolisce sempre di più. Nella distanza che ci separa, nel corpo che la sofferenza rende più minuto. Adesso l'ho abbandonato nelle mani dell'infermiere "scuffrato". A intervalli più o meno regolari una barella sferragliante traversa il corridoio per infilarsi in una delle stanze, qualcuna rimane fuori col suo carico, ferma in attesa. Nulla di cruento, solo la quieta mortalità quotidiana di vecchi senza respiro. L'anziano che ho portato io, è nella stanza di fronte, la più ampia, domato dal tubo e dai sedativi. Dopo molte barelle mi viene incontro un medico affannato. «Chi è lei?», non mi guarda. Si equilibra lo stetoscopio sul collo e poi sfila una cartella da sotto il braccio dove ne ha altre tre o quattro. «Il parente più stretto», rispondo io. Lui studia un attimo sui fogli e senza alzare gli occhi dice in fretta: «L'età c'è, ma può nutrire buone speranze. Non si preoccupi. Adesso lei qui non può fare più niente. Meglio che vada via. Attenda che arrivi l'orario, il tempo passa presto, coraggio», e mi appoggia una mano sulla spalla, un po' per solidarietà, un po' per avviarmi verso l'uscita. L'orario non c'è ancora, perciò sto aspettando. Si dice anche ammazzare il tempo. Ha smesso di piovere ma le foglie sgocciolano ancora la loro acqua saponosa d'eucalipto. Dal finestrino entra l'aspro degli alberi, il vapore mielato della terra bagnata e la puzza dell'asfalto che si asciuga. Sono solo le 13:50, ma vado. Mentre lo cerco quest'orario finalmente arriverà. Le porte girevoli dell'Hotel Rianimazione m'accolgono allegramente. Ci sono anche due portieri nell'atrio, assaliti dalla gente. Mi faccio largo: «Ognibene, signor Ognibene. S'è ricoverato solo qualche ora fa al Pronto Soccorso», dico fiducioso al mio turno. Apre e guarda il registro: «Ancora niente», m'informa. Mi è toccato un magrolino con le lenti spesse e la montatura pesante che gli scivola dal naso infantile. Abiti cadenti, poco stirati, cravatta a righe con uno smisurato nodo scappino. Per questo al mattino non si lava? Perde tempo per intrecciarsi quel ridicolo addobbo? «Sarebbe a dire?», rispondo io. «E non lo vedete?», mi porge un pezzo del librone, la spalla e una sfiammata di sudore e deodorante. «Non l'hanno registrato ancora, ma al Pronto Soccorso, sicuramente, non c'è più. Se sta meglio vi tocca andare al terzo piano, a Medicina Generale e se, disgraziatamente, è peggiorato, domandate alla Rianimazione. Nel sottosuolo». Quindi questo piano mezzano dev'essere il purgatorio. Dopo questa debilitante conversazione, s'immerge in una lunga pausa. «Avanti un altro», urla alla fine. Non rispondo, non ce n'è il tempo. Una ragazza spinge dietro di me. Si affaccia sopra le mie spalle per domandare anche lei la sua buona grazia. Qualcosa mi trascina verso il corridoio, inutilmente largo per la gente che c'è. Per attraversarlo forzo le vecchie porte d'alluminio argentato. In fondo vi sono gli ascensori. In un angolo di un ristretto passaggio, quasi nascosti alla vista. Lo capisco da una piccola folla che attende. Sono due le cabine e solo una lavora, l'altra è stata vistosamente abbandonata. La cornice d'intonaco è scalcinata, lo scorrevole d'alluminio mezzo aperto. A fianco, quella funzionante, ristrutturata da poco, nuova di zecca. Mi sembra di perdere l'equilibrio su di un piano sghembo, quasi le due aperture appartengano a fabbricati diversi che dopo un dissesto, si siano congiunti in quel punto. Non riesco a rimanere fra questa gente, in mezzo a questo territorio franoso di vite rassegnate, di voci mutilate, di miserie arresesi a ogni condizione. Sento il contagio degli sguardi, la tentazione, in quell'attesa, di sgretolarmi con loro. Non ho difese da opporre. Rinunzio. Salgo a piedi. Sono solo tre piani. Alle prime due rampe ho già l'affanno. C'è qualcosa che mi preme verso il basso, un raddoppio di gravità che insiste sulle scale. Finalmente approdo al pianerottolo del terzo livello. Simile al corridoio del piano terra, una vasta sala semideserta con le mattonelle consunte, due panche di ferro accostate al muro. Risalta contro il muro solo una donna in attesa, misera nei jeans di bancarella e nella vanteria di una sigaretta stretta fra le unghie scorticate. Mi rivolgo alla donna.
«È qui il reparto di Medicina Generale?».
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