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| << | < | > | >> |Indice__________________________________________________ PREMESSA ALL'EDIZIONE TASCABILE Terra in vista 6 PREFAZIONE Il paradiso è un'isola. Anche l'inferno. 10 __________________________________________________ MAR GLACIALE ARTICO Solitudine 32 Isola degli Orsi 36 Isola del principe Rodolfo 40 __________________________________________________ OCEANO ATLANTICO St. Kilda 46 Ascensione 50 Brava 54 Annobón 58 Sant'Elena 62 Trindade 66 Bouvet 70 Tristan da Cunha 74 Thule meridionale 78 __________________________________________________ OCEANO INDIANO Saint Paul 84 Isole Keeling 88 Isola del Possesso 92 Diego Garcia 96 Amsterdam 100 Isola di Natale 104 Tromelin 108 __________________________________________________ OCEANO PACIFICO Napuka 114 Rapa Iti 118 Robinson Crusoe 122 Howland 126 Macquarie 130 Fangataufa 134 Isola di Atlasov 138 Taongi 142 Norfolk 146 Pukapuka 150 Isole Antipodi 154 Floreana 158 Banaba 162 Campbell 166 Pingelap 170 Isola di Pasqua 174 Pitcairn 178 Semisopochnoi 182 Clipperton 186 Raoul 190 Socorro 194 Iwo Jima 198 San Giorgio 202 Tikopia 206 Pagan 210 Isola del Cocco 214 Takuu 218 __________________________________________________ OCEANO ANTARTICO Laurie 224 Deception 228 Franklin 232 Isola di Pietro I 236 |
| << | < | > | >> |Pagina 6Terra in vista
Premessa all'edizione tascabile
QUESTO ATLANTE è, come ogni atlante, il frutto di un viaggio di esplorazione. Cominciò tre anni fa, quando, girando intorno al mappamondo alto come un uomo nella sala di cartografia della Biblioteca statale di Berlino, lessi i nomi di quelle minuscole macchie di terra che parevano essersi perse nella vastità dell'oceano e che, proprio per la loro lontananza, mi facevano un effetto particolarmente invitante. Mi parevano promettenti in una maniera simile alle zone bianche situate oltre le linee tratteggiate che tracciano l'orizzonte del mondo conosciuto sulle vecchie carte geografiche. Se il nostro mondo non fosse già del tutto scoperto, forse mi sarei imbarcata su una nave con la speranza di essere la prima ad avvistare una terra ancora sconosciuta o addirittura a metterci piede, per scrivere il mio nome nei futuri atlanti solo in virtù di questo semplice fatto. Ma i tempi in cui ogni circumnavigazione del globo ci riservava nuovi litorali e nuovi nomi sono definitivamente finiti. Non mi restava che fare le mie scoperte in biblioteca, spinta dal desiderio di trovare nelle rare carte geografiche e nella lontana letteratura di viaggio la mia isola, per prenderne possesso non con fervore colonialista, ma con bramosia.
In questo, le mie fantasie coincidevano nel modo più assoluto con l'immagine
comune dell'isola come luogo idilliaco e utopico, con l'idea molto allettante di
poter fare tutto daccapo
e in modo diverso se solo si fosse trovato il luogo perfetto, lontano dalle
costrizioni della terraferma, un posto dove quietarsi, riaversi e finalmente
concentrarsi sulle cose essenziali.
CIÒ CHE INCONTRAI durante il mio viaggio di esplorazione, tuttavia, non
furono romantici scenari alternativi, bensì isole delle quali c'era solo da
augurarsi che fossero rimaste sconosciute, luoghi poveri
e sconvolgenti, la cui ricchezza consiste unicamente
nel gran numero di terribili avvenimenti accaduti su
di esse. Così, mentre mi imbattevo in una storia orribile dopo l'altra e
cominciavo a bere litri di succo d'arancia per prevenire lo scorbuto, la
malattia da carenza di vitamine che si aggirava in tutti i racconti,
fui assalita prima da un deprimente raccapriccio, poi
da un piacevole orrore. Era come con le rappresentazioni del giudizio
universale, dove è l'inferno
con i suoi mostri spaventosi e le torture raffigurate
nei dettagli ad avvincere lo sguardo e non il Giardino
dell'Eden. Forse il paradiso è bello, ma non è interessante.
INTERROGARSI SULLA VERIDICITÀ di questi testi è fuorviante. Non può esserci nessuna risposta definitiva. Non ho inventato nulla. Ma ho trovato tutto, ho scoperto queste storie e le ho fatte mie come fecero i navigatori con le terre da loro scoperte. Tutti i testi contenuti in questo libro sono frutto di ricerche, ogni dettaglio è stato attinto alla fonte. È impossibile verificare se tutto sia accaduto proprio così, anche perché le isole, al di là delle loro reali coordinate geografiche, restano comunque superfici di proiezione delle quali non possiamo impossessarci con metodi scientifici, ma solo con mezzi letterari. Questo atlante è quindi soprattutto un progetto poetico. Se è possibile viaggiare intorno al globo, allora la vera sfida consiste nel restare a casa e scoprire il mondo da lì. Berlino, giugno 2011 | << | < | > | >> |Pagina 10Il paradiso è un'isola. Anche l'inferno.
Prefazione
SONO CRESCIUTA CON L'ATLANTE. E naturalmente, da "figlia dell'atlante", non andavo mai all'estero. Che una bambina della mia classe fosse nata davvero a Helsinki, come c'era scritto sul suo documento d'identità, aveva per me dell'incredibile. H-e-l-s-i-n-k-i: queste otto lettere divennero la chiave per un altro mondo, e ancora oggi mi capita di trattare con mal celato stupore i tedeschi che, per esempio, sono nati a Nairobi o a Los Angeles, e non di rado li considero solo degli sbruffoni, proprio come se affermassero di venire da Atlantide, da Thule o da El Dorado. Naturalmente so che Nairobi e Los Angeles esistono davvero. Queste città infatti sono segnate sulle carte. Ma che qualcuno possa esserci stato realmente, o che addirittura ci sia nato, per me è inconcepibile, oggi come allora. [...]
Naturalmente, il mappamondo corrisponde alla Terra più di
quanto facciano le carte raccolte nell'atlante; nelle
camerette dei ragazzi, inoltre, crea un'atmosfera
piena di nostalgia dei paesi lontani. La sua sfericità,
però, è tanto geniale quanto critica. La forma sospesa
della Terra non ha margini, non conosce un sopra e
un sotto, non ha un inizio né una fine e fa sì che un
lato del globo rimanga sempre nascosto.
NELL'ATLANTE invece la Terra è ancora comprensibile e piatta come lo è stata per tanto tempo, prima che i viaggi di esplorazione assegnassero contorni e nomi alle promettenti macchie bianche corrispondenti alle zone inesplorate e liberassero i confini dei planisferi dai mostri marini e dalle strane razze di esseri spaventosi che vi scorrazzavano. Alla fine sparì anche quell'enorme e fantastico continente nell'emisfero australe, il cui nome era due volte sbagliato: Terra australis incognita. Se quella terra era sconosciuta, perché allora aveva un nome? La volontà di abbracciare il mondo con un solo sguardo solleva problemi che non hanno soluzioni soddisfacenti. Tutte le proiezioni offrono una raffigurazione deformata del mondo: se sono corretti le distanze e gli angoli, allora non lo sono le relazioni tra le superfici. Questo è il caso, per esempio, di quell'immagine della Terra che riproduce fedelmente le distanze angolari, ma deforma spudoratamente le proporzioni dei territori. L'Africa, che è il secondo continente in ordine di grandezza, sembra allora avere le stesse dimensioni dell'isola più grande del mondo, la Groenlandia, che in realtà è quattordici volte più piccola. Non è semplicemente possibile proiettare la superficie curva della Terra su un piano e, allo stesso tempo, riprodurre fedelmente le aree, le lunghezze e gli angoli. Il planisfero bidimensionale è un compromesso che rende la cartografia un'arte a cavallo tra l'astrazione sfacciatamente semplificante e l'appropriazione estetica del mondo. Alla fine si tratta semplicemente di comprendere il mondo, di orientarlo verso nord e di abbracciarlo con uno sguardo, come Dio. Così ci viene presentata un'immagine presumibilmente oggettiva dell'intera Terra, con ambizioni di verità scientifica, e non si esita a chiamare il planisfero terrestre "Carta del Mondo", come se il sistema solare o l'universo non esistessero. È chiaro che dovrebbe chiamarsi, invece, "Carta della Terra". Non si parla, infatti, di "mondografia"! [...] IN REALTÀ, C'È TUTTA una serie di isole talmente distanti dalla loro madrepatria da non rientrare nelle carte nazionali. Per lo più, in questo caso, il cartografo le omette; qualche volta ottengono un posto in un angolino, stipate dentro la cornice di un riquadro, sospinte ai margini, con una scala tutta loro, ma senza alcuna informazione sulla loro reale posizione. Queste isole diventano così le note a piè pagina della terraferma, in un certo senso superflue, ma infinitamente più interessanti del poderoso corpus continentale. È comunque solo una questione di punti di vista se un'isola come l' --> isola di Pasqua (174) sia da considerarsi remota. In ogni caso, i suoi abitanti, i Rapa Nui, chiamano la loro patria Te Píto o te Henua, l'"ombelico del mondo". Sull'infinita Terra sferica, ogni punto può diventare il centro.
Un'isola come questa, opera di vulcani attivi e spenti, è distante solo
se la si guarda dalla terraferma. Il fatto che la terra
più vicina disti settimane di viaggio in nave la rende
nelle teste degli abitanti del continente un luogo ideale. Questa terra
circondata dall'acqua diventa la superficie di proiezione perfetta per
esperimenti utopici e paradisi terrestri: nel XIX secolo, sull'isola
--> Tristan da Cunha (74),
nell'Atlantico meridionale, sette clan vissero in un'armonia microcomunista,
sotto la sovranità patriarcale dello scozzese William Glass. Il dentista
berlinese Ritter, stanco della civilizzazione e della crisi economica, fondò nel
1929, sull'isola delle Galapagos
--> Floreana (158)
un eremo in cui rinunciò a tutto il superfluo, compresi i vestiti.
E l'americano Robert Dean Frisbie si trasferì negli
anni venti sull'atollo del Pacifico
--> Pukaapuka (150),
dove - secondo un classico cliché della letteratura dei
mari del sud - trovò una notevole e invidiabile libertà.
Qui, l'isola appare un mondo a sé stante, ancora allo
stato naturale originario, come il paradiso prima del
peccato originale: impudico ma innocente.
AL FASCINO di questi posti isolati cedette anche il marinaio californiano George Hugh Banning. All'inizio del XX secolo navigò sul Pacifico come semplice marinaio con l'intimo desiderio di naufragare da qualche parte. Per lui non aveva importanza dove, "fintanto che si trattava di un posto abbandonato da Dio, completamente circondato dall'acqua". Ma all'inizio ebbe sfortuna e dovette constatare disilluso: "Facevamo scalo solo alle isole 'interessanti', come Oahu e Tahiti, dove gli involucri delle gomme da masticare e i modi di dire americani sono tanto frequenti quasi quanto le bucce di banane e i bisbigli del vento tra le cime delle palme."
Alla fine fu fortunato e poté partire con una spedizione diretta in acque
messicane su uno dei primi yacht con motore diesel e comandi
elettrici. La nave faceva rotta verso le isole della California meridionale
(--> Socorro (194)),
che Banning sapeva con sicurezza non essere state quasi mai visitate, perché lì
non c'era
niente,
come diceva la gente.
Quando, prima della partenza, gli chiesero cosa ci
fosse di interessante laggiù, lui rispose: "Niente,
niente; e proprio questo è il bello".
IL FASCINO del "bel niente" attirò anche le spedizioni nei ghiacci eterni (--> isola del principe Rodolfo (40)), alla ricerca del letterale Nulla rappresentato dai poli, dopo che le nazioni che viaggiavano intorno alla Terra avevano già scoperto mondi ricchi di vegetazione e materie prime e se li erano spartiti tra loro. Così anche la terra ancora inesplorata dell'antartica --> isola di Pietro I (236) rappresentava un'inaccettabile offesa per l'ambizione insita nell'uomo di lasciare delle tracce, e offriva, inoltre, la possibilità di assicurarsi un posto nella storia. Tre spedizioni non riuscirono a sconfiggere l'isola che è quasi completamente ghiacciata. Vi si approdò solo nel 1929 - 108 anni dopo la sua scoperta - e fino agli anni novanta inoltrati erano sbarcate più persone sulla luna che su quest'isola. | << | < | > | >> |Pagina 22NON DI RADO tra i pochi visitatori giunti sul posto si diffonde il puro raccapriccio e di fronte a quello spazio chiaramente limitato si insinua l'inquietante pensiero del rischio di venir abbandonati lì e di dover tirare avanti fino alla fine dei propri giorni su un'isola sperduta.La rupe nera di --> Sant'Elena (42) diventò l'isola dell'esilio e della morte di Napoleone, la feconda e verde --> Norfolk (146) nonostante il suo rigoglio paradisiaco, divenne la più temuta colonia penale dell'Impero Britannico; per gli schiavi naufraghi dell' Utile, la minuscola isola --> Tromelin (108) rappresentò sì, in un primo momento, la fatidica salvezza, ma la presunta riconquistata libertà su quell'isola, grande neppure un chilometro quadrato, finì presto in una lotta per la pura sopravvivenza. L'isola remota è per sua natura una prigione, circondata dalle monotone e insormontabili mura di un mare ostinatamente presente; lontana dalle rotte commerciali che, simili a cordoni ombelicali, uniscono le colonie di oltreoceano alla terra madre, l'isola è il luogo adatto per raccogliervi tutto ciò che è indesiderato, scartato e anomalo.
Nell'isolamento di questi spazi, scoppiano liberamente
terribili malattie e si impongono costumi sconcertanti, come nel caso delle
misteriose morti infantili a
--> St. Kilda (46)
o della prassi tremenda e al tempo stesso apparentemente obbligata
dell'uccisione dei bambini a
--> Tikopia (206).
Nella situazione eccezionale dell'isola, crimini come lo stupro
(--> Clipperton (186)),
l'omicidio
(--> Floreana (158))
e il cannibalismo
(--> Saint Paul (84))
sembrano addirittura programmati. Lo scandalo degli abusi avvenuti a
--> Pitcairn (178),
dimostra che ancora oggi si creano zone dove vigono leggi che contraddicono il
nostro senso della giustizia. Su quest'isola vive la piccola comunità dei
discendenti degli ammutinati del
Bounty;
nel 2004 la metà degli uomini adulti residenti sull'isola fu giudicata colpevole
di aver violentato regolarmente per decenni donne e bambini. A loro difesa, gli
accusati fecero appello a un diritto consuetudinario
centenario, perché già i loro antenati avevano avuto
rapporti sessuali con tahitiane minorenni. Può darsi
che il paradiso sia un'isola. Lo è anche l'inferno.
LA VITA IN REGIONI circoscritte, comunque, è tranquilla solo in rarissimi casi e invece di realizzare l'utopia di una comunità egualitaria, accade più spesso che essa si trasformi nel regime del terrore di uno solo. Le isole sono percepite come colonie naturali che aspettano soltanto di essere assoggettate. È questo che ha reso possibile che un guardiano del faro messicano e una millantatrice austriaca si proclamassero rispettivamente re di --> Clipperton (186) e imperatrice delle Galapagos a --> Floreana (158). I piccoli continenti diventano mondi in miniatura nei quali, lontano dagli occhi del mondo, è possibile violare i diritti internazionali (--> Diego Garcia (96)), far esplodere bombe atomiche (--> Fangataufa (134)) o innescare catastrofi ecologiche (--> isola di Pasqua (174)).
Ai margini dell'infinito globo terrestre non ci aspetta nessun giardino
dell'Eden. Al contrario, gli uomini giunti qui da tanto lontano si trasformano
nei mostri che loro stessi avevano scacciato
dalle carte con un faticoso lavoro di esplorazione.
E TUTTAVIA sono proprio gli avvenimenti terribili
a possedere il più grande potenziale narrativo e le
isole sono il luogo perfetto dove ambientarli. Mentre l'assurdità della realtà
si disperde nella vastità dei grandi continenti e viene così relativizzata,
sull'isola essa è evidente. L'isola è uno spazio teatrale: tutto
quello che accade qui, si concentra quasi inevitabilmente in storie, drammi da
camera, diventa materia letteraria. È tipico di questi racconti che verità e
fantasia non siano più separabili: la realtà diventa finzione e la finzione si
realizza.
GIA GLI ESPLORATORI divennero famosi per le loro scoperte come se queste fossero il frutto di uno sforzo creativo, come se avessero non solo trovato nuovi mondi, ma li avessero addirittura inventati. Sotto questo aspetto, l'attribuzione di un nome geografico gioca un ruolo significativo: è come se il nome aiutasse davvero quel posto a esistere. Come accade durante il battesimo, anche qui viene suggellato un patto tra l'esploratore e la sua scoperta che legittima la presa di possesso di quella terra presumibilmente senza padrone. Questo accade persino quando l'isola viene avvistata solo da lontano o è già abitata e ha già un nome. Vale qui lo stesso principio di tutte le imprese: scribere necesse est, vivere non est; solo ciò di cui sia stato scritto è veramente accaduto. Colui che pianta la bandiera, quindi, si sforza di consolidare le rivendicazioni nazionali con ogni sorta di informazioni: calcola le coordinate, cartografa il territorio e distribuisce nomi geografici nella propria lingua. La Norvegia, facendo realizzare l'unica carta attuale dell' --> isola di Pietro I (236), ne rivendicò il diritto di possesso, sebbene i trattati antartici avessero sospeso qualsiasi azione di rivendicazione territoriale.
La cartografia dell'isola segue la sua scoperta, il
nuovo nome è una nascita. La natura sconosciuta è,
allo stesso tempo, occupata e posseduta, l'atto di conquista si ripete sulla
carta. Si può affermare che un luogo esiste veramente solo dopo che sia stato
localizzato e misurato correttamente. Ogni carta è, così, il
risultato e l'esercizio del potere colonizzatore.
CHE LA CARTA E L'ISOLA talvolta si fondano e non siano più separabili l'una dall'altra, lo dimostra la storia di August Gissler: alla fine del XIX secolo, durante gli annosi scavi sull' --> isola del Cocco (214) a un certo punto la mappa del tesoro sostituì l'oro cercato. La promessa contenuta nella cartina dell'isola, alla fine, aveva più valore dell'introvabile tesoro. Fu anche la carta di un'isola disegnata da lui stesso a indurre Robert Louis Stevenson a scrivere il suo romanzo di avventura: "La forma di questa isola colpì la mia fantasia in modo straordinario. Lì c'erano porti che mi incantavano come sonetti e consapevole di essere guidato dal destino chiamai la mia opera L'isola del tesoro". Il titolo di un altro romanzo definisce non solo un genere letterario nei dizionari enciclopedici di letteratura, ma ha influenzato anche gli atlanti. Nel 1970, un'isola dell'arcipelago Juan Fernandez fu ribattezzata per attirare i turisti. Su quest'isola, che una volta si chiamava Más a Tierra - "situata più vicina alla terra" - Alexander Selkirk aveva vissuto, avant la lettre, un'avventura simile a quella di Robinson Crusoe. Oggi, tuttavia, l'isola non porta il suo nome, bensì quello del suo revenant letterario: Isia --> Robinson Crusoe (122). Per rendere perfetta la confusione, l'isola chiamata un tempo Màs Afuera - "situata più a largo" - che si trova 160 chilometri più a ovest, si chiama adesso Isla Alejandro Selkirk, sebbene quest'ultimo non ci sia mai stato. Nelle carte è possibile superare la penosa monotonia di quell'orizzonte che sull'isola, giorno dopo giorno, divide in due il campo visivo e sul quale, forse, in lontananza, molto debolmente - come un sorprendente Deus ex machina - si delinea la tanto agognata nave che porta il cibo o fa sperare in un ritorno a casa. E quando la terra scoperta non soddisfa le aspettative, è sempre possibile vendicarsi al momento di darle un nome. Così Ferdinando Magellano nel 1521 e John Byron nel 1765 chiamarono alcuni atolli delle Isole Tuamotu "isole della Delusione". Il primo perché su quelle aride isole non trovò né l'acqua di cui aveva assoluta necessità né qualcosa di commestibile, l'altro perché gli abitanti di quelle terre che nel frattempo erano state colonizzate si rivelarono inaspettatamente ostili. Molti nomi suonano mitici e fiabeschi. Sull' --> Isola del Possesso (92) scorre il fiume Stige e la capitale di --> Tristan da Cunha (74) si chiama Edinburgh of the Seven Seas, sebbene per la popolazione indigena sia semplicemente the Settlement, "l'Insediamento"; come potrebbe essere altrimenti, visto che è l'unico nel raggio di 2400 chilometri?
I nomi geografici riflettono soprattutto i desideri e le nostalgie degli
abitanti e degli "abitatori", come definisco in questo atlante coloro che vivono
su un'isola remota soltanto temporaneamente. Gli uomini di stanza a
--> Amsterdam (100)
chiamano "Vergine" un capo dell'isola, i
due vulcani sono i "Seni", mentre un terzo cratere è
ufficialmente denominato "Venere". Qui il paesaggio
insulare si trasforma definitivamente in una pin-up
e in un surrogato erotico. L'isola sembra essere un
posto che, allo stesso tempo, è la realtà e la sua metafora.
LA CARTOGRAFIA dovrebbe essere annoverata finalmente tra i generi poetici e l'atlante tra la bella letteratura: dopotutto fa onore alla sua denominazione originaria Theatrum orbis terrarum, "Teatro del mondo". Consultare le carte può sì alleviare il desiderio di viaggiare in paesi lontani che esse suscitano e addirittura sostituire il viaggio, ma allo stesso tempo offre molto di più di un appagamento estetico. Chi apre le pagine di un atlante non si limita a cercare i singoli posti esotici, ma desidera smodatamente tutto il mondo in una sola volta. Il desiderio crescerà sempre di più, e sarà più grande della soddisfazione ottenuta attraverso il raggiungimento di ciò che si è tanto agognato. Ancora oggi preferisco un atlante a ogni guida di viaggio. | << | < | > | >> |Pagina 30| << | < | > | >> |Pagina 32SolitudineLA SOLITUDINE si trova nel mar Glaciale Artico, al centro del mare di Kara. Quest'isola fa pienamente onore al suo nome: è desolata e fredda, stretta, in inverno, in una banchisa di ghiaccio. La temperatura media annuale è di 16 gradi sotto zero; in piena estate, qualche volta, il termometro sale appena sopra lo zero. Qui non vive nessuno. Una vecchia stazione meteorologica giace sprofondata nella neve; gli edifici abbandonati, con vista sul sottile cordone litoraneo, dietro la palude ghiacciata, dormono nel ventre della baia. Viene ritrovata una vertebra cervicale appartenente a un rettile preistorico. Qualche anno più tardi, un sommergibile della marina militare tedesca spara granate sulla stazione, distrugge le baracche, uccide la guarnigione: la Unternehmen Wunderland — "Operazione Paese delle Meraviglie" —, spara sulla Solitudine: è una delle ultime azioni di questo commando. Durante la guerra fredda la stazione polare viene ricostruita e diventa una delle più grandi dell'Unione Sovietica. Il nome di battesimo che il capitano di Tromsø aveva dato a questo fazzoletto di terra è dimenticato, l'isola della Solitudine diventa in russo l'isola del Ritiro. 11 suo visitatore, adesso, non è più un prigioniero, bensì un'eremita, che sconta in silenzio i suoi anni nel deserto di ghiaccio, fino al momento in cui potrà tornare sulla terraferma, da santo. Nella baracca verde di legno ci sono i viveri rimasti, congelati, ghiacciati, come le apparecchiature per la misurazione della pressione atmosferica, della temperatura, della direzione del vento, delle radiazioni cosmiche e dell'altezza delle nuvole. L'imbuto per la raccolta delle precipitazioni è sepolto sotto la neve. Alla parete con le palme disegnate è appeso un ritratto di Lenin con il pizzetto. Nel diario di bordo sono accuratamente riportati i lavori di manutenzione svolti, il livello dell'olio e della benzina delle singole macchine. L'ultima annotazione fuoriesce dalle colonne, con il pennarello rosso c'è scritto: "23 novembre 1996. Oggi è arrivato l'ordine di evacuazione. L'acqua è stata fatta defluire, il generatore diesel è spento. La stazione è..." L'ultima parola non è leggibile. Benvenuti nella Solitudine. | << | < | > | >> |Pagina 44| << | < | > | >> |Pagina 74Tristan da CunhaLE RIVOLUZIONI sono proclamate sulle navi, le utopie sono vissute sulle isole. È confortante credere che ci debba essere qualcosa oltre all' hic et nunc. È proprio di questo che trattano i due libri presenti sugli scaffali della borghesia illuminista: la Bibbia e Die Insel Felsenburg. Ma il paradiso è molto lontano e sembra più facile raggiungere il regno dei cieli che un'isola nell'Atlantico meridionale, la repubblica insulare, lo stato dei giusti, il modello di un mondo migliore. La legge di questa terra, la cui forma ricorda una campana di vetro, è semplice e coraggiosa: tutti sono uguali, tutti dividono tutto e su tutti veglia un meraviglioso patriarca. La felicità si realizza nel matrimonio monogamo. Nove tribù scambiano tra loro vettovaglie; la frutta e la vite crescono selvatiche. Alcuni passaggi segreti conducono all'interno attraverso grotte e cascate. L'accesso all'isola è consentito soltanto a persone buone e prescelte. Chi è cattivo, chi ha in mente solo la malvagità, affoga comunque nel mare crudele. Chi, invece, si arena qui e vuole rimanere, deve raccontare la sua vita come se fosse la storia di un estraneo. I naufraghi sono ancora i migliori utopisti. Un nuovo inizio, una vita fondamentalmente migliore, un altro Io, sono possibili. "Subito all'isola di Felsenburg", pensa Arno Schmidt che crede di averla trovata in Tristan da Cuhna. Perché lì, cento anni dopo la pubblicazione del romanzo di Johann Gottfried Schnabel, visse il patriarca William Glass insieme con i suoi fedeli, nel semplice microcomunismo di quel piccolo arcipelago, come Schnabel aveva predetto. Arno Schmidt chiede un'edizione integrale dell'isola di Felsenburg e un pezzo di terra sulla lontana isola: "Ma non bisognerebbe concedermi = assegnarmi colà un posto da colono, a me che indicai = decantai come interessantissima questa che è la più inconsueta di tutte le isole? Solo 20 acri; proprio accanto alla piccola stazione radio; e una baracca di lamiera ondulata di 80 metri quadri? La traversata la pago = la finanzio io stesso." Schmidt rimane nella sua brughiera. Su Tristan da Cunha non cresce la vite. E l'isola di Felsenburg non è ancora segnata sulle carte. | << | < | > | >> |Pagina 78Thule meridionaleDOVE SI TROVA Thule? Ai confini estremi. Al circolo polare. Poco prima del punto in cui termina la Terra: l'ultima postazione del mondo conosciuto, un'isola dell'estremo Nord, dove il mare è così tetro e impetuoso che nessuno vuole andarci, lontana giorni di viaggio dai mari conosciuti. Il secondo viaggio del capitano Cook fa rotta verso sud. Deve trovare finalmente la Terra australis, l'imponente continente che si estende senza fine sulle carte, un'enorme massa di terra in un clima temperato, ricca di risorse del suolo e di uomini civilizzati: famosa in tutto il mondo e tuttavia incognita. Nel gennaio del 1775 la sua Resolution entra per la quarta volta nell'oceano meridionale. Ma ancora una volta enormi piattaforme di ghiaccio e pezzi di iceberg alla deriva li costringono a tornare indietro; quando poche miglia dopo il 60° grado di latitudine sud, fanno rotta di nuovo verso nord, tutti a bordo sono contenti. I marinai ne hanno abbastanza di quel clima umido e nebbioso, del freddo terribile, di lavorare con le attrezzature ghiacciate e dei continui assideramenti e dolori reumatici. Alcuni, per lo sfinimento, cadono in uno stato di deliquio che dura dei giorni. Improvvisamente s'imbattono nelle nere scogliere di una terra ghiacciata, scoscesa e piena di grotte: i cormorani abitano le sue vette, le onde impetuose la frustano in profondità. Nuvole spesse coprono le sue montagne, solo un'unica cima innevata sporge sopra di esse, alta almeno due miglia. Dopo cinque miglia, si trovano davanti un'altra montagna, l'estremità meridionale di questa terra povera, forse la punta più a nord del continente cercato, che - questo adesso è sicuro — non può valere molto; una terraferma fatta di antichi nevai e ghiacci che non si sciolgono mai: tetra, fredda, spaventosa. Questa parte del mondo è condannata per sempre a rimanere allo stato naturale, avvolta in una spessa oscurità. Qui si trova la nuova Thule, l'altra estremità del mondo conosciuto. | << | < | > | >> |Pagina 82| << | < | > | >> |Pagina 108TromelinIL 17 NOVEMBRE 1760 la Utile, una nave della compagnia delle Indie orientali, lascia Bayonne, nel sudovest della Francia, diretta alle isole Mascarene. La nave fa scalo in Madagascar per rifornirsi di scorte alimentari e il capitano Jean de La Fargue - andando contro le disposizioni del governatore - prende a bordo sessanta schiavi con l'intenzione di venderli insieme alle altre merci all'Île de France, l'odierna Mauritius. Durante il viaggio, tuttavia, una tempesta porta fuori rotta la Utile. La nave si incaglia sul fondo, si infrange contro la scogliera di questa piccola isola, una striscia di spiaggia con qualche palma, lunga appena due chilometri e larga ottocento metri, chiamata isola di Sabbia. Quasi tutti quelli che riescono a mettersi in salvo a terra sono feriti o mutilati e sembrano più dei fantasmi che degli uomini. I sopravvissuti cominciano a costruire una barca con i pezzi del relitto. Due mesi dopo il naufragio, l'imbarcazione è pronta. I marinai francesi spariscono su di essa promettendo di cercare aiuto: 122 uomini, stretti gli uni agli altri in un addio per sempre. Sull'isola rimangono gli schiavi. Sono liberi, ma la loro libertà non misura neanche un chilometro quadrato; sono prigionieri come non lo sono mai stati, schiavi della loro volontà di sopravvivenza. Accendono un fuoco, scavano un pozzo, si cuciono vestiti di piume, catturano uccelli marini, tartarughe e crostacei dal mare. Molti di loro sono così disperati che si lasciano trasportare alla deriva su una zattera: qualsiasi cosa è meglio che rimanere prigionieri su un pezzettino di sabbia, in balia della speranza e della vita. Gli altri sorvegliano il fuoco. Dopo quindici anni è ancora acceso. Dei sessanta schiavi sono rimasti sette donne e un bambino, ancora un lattante. Il 29 novembre 1776 l'equipaggio della corvetta La Dauphine li prende a bordo e li porta all'Île de France. Sull'isola di Sabbia non lasciano nient'altro che il legno carbonizzato del fuoco spento e il nome del loro salvatore, un ufficiale della marina reale, il capitano di corvetta Chevalier de Tromelin. | << | < | > | >> |Pagina 112| << | < | > | >> |Pagina 118Rapa ItiIN UNA PICCOLA CITTÀ situata nelle propaggini dei Vosgi, un bambino di sei anni è tormentato da un sogno ricorrente nel quale qualcuno gli insegna una lingua completamente sconosciuta. Ben presto il piccolo Marc Liblin non la parla più fluentemente soltanto in sogno, pur senza sapere da dove venga o se esista davvero. Marc è un bambino solo, molto dotato e assetato di sapere. Da adolescente divora più libri che pane. All'età di trentatré anni vive appartato dal mondo, in Bretagna. Qui, alcuni ricercatori dell'Università di Rennes lo notano, vogliono decifrare la lingua dei suoi sogni e tradurla. Per due anni alimentano i loro enormi calcolatori con gli strani suoni di Marc. Inutilmente. Un giorno, i ricercatori hanno l'idea di andare per i bar del porto a chiedere ai marinai in libera uscita se qualcuno di loro abbia già sentito quella lingua da qualche parte. In un'osteria di Rennes, Marc Liblin si esibisce in un assolo, monologando davanti a un gruppo di tunisini. A un certo punto l'uomo dietro il banco, un ex appartenente alla marina, si intromette e dichiara che ha già sentito una volta questa parlata, sulla più solitaria di tutte le isole della Polinesia. E conosce un'anziana signora, la moglie divorziata di un militare, che abita in una casa popolare di periferia e che parla proprio in quel modo. L'incontro con la signora polinesiana cambia la vita di Liblin: Meretuini Make apre la porta, Marc la saluta nella sua lingua e lei risponde subito nell'antico Rapa della sua terra. Marc Liblin, che non ha mai lasciato l'Europa, sposa la sola donna che lo capisce e nel 1983 parte con lei per l'isola dove si parla la sua lingua. | << | < | > | >> |Pagina 170PingelapQUI PERSINO I MAIALI sono bianchi e neri, come se gli animali fossero stati creati proprio per loro, per i molti abitanti di Pingelap che non vedono i colori. Né la porpora fiammante dei tramonti, né l'azzurro dell'oceano, né il giallo abbagliante dei frutti maturi della papaia e neanche la scura pervinca nella fitta giungla di alberi del pane, di palme di cocco e di mangrovie. La colpa è di una piccolissima mutazione del cromosoma numero 8 e del tifone "Liengkieki" che secoli orsono devastò l'isola. Allora morirono molti abitanti di Pingelap e solo una ventina sopravvissero alla successiva carestia, tra loro anche il portatore del gene recessivo che presto si impose tra gli stretti consanguinei. Oggi il dieci per cento degli abitanti dell'isola soffre di daltonismo totale. Altrove sono meno di uno su trentamila. È possibile riconoscerli dal capo chino, dal continuo strizzare gli occhi che tremano incessantemente, dalle rughe sopra il naso causate dalla ristrettezza dello sguardo. Evitano la luce e il giorno, spesso escono solo al crepuscolo dalle loro baracche, alle finestre delle quali hanno incollato fogli colorati. Nell'oscurità, invece, diventano attivi e si muovono più liberamente di tutti gli altri. Molti sostengono di ricordare sempre i loro sogni e alcuni dicono addirittura di vedere di notte i branchi scuri di pesci nell'acqua profonda, di riconoscerli alla luce debole della luna riflessa dalle piccole pinne. Il loro mondo è grigio, ma i daltonici di Pingelap dicono di riuscire a vedere cose che rimangono nascoste a coloro che percepiscono i colori: un'insospettata molteplicità di gradazioni di luminosità. Si indignano ogni volta che sentono le stupide chiacchiere sulla magnificenza dei colori che — ai loro occhi — distraggono solo dall'essenziale: dalla ricchezza delle forme e delle ombre, delle strutture e dei contrasti. | << | < | > | >> |Pagina 222| << | < | |