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| << | < | > | >> |Pagina 9«Ma tu pensi veramente che il nostro amore abbia una possibilità?» Farid non aveva fatto questa domanda per ricordare a Rana la faida tra le loro due famiglie, ma solo perché si sentiva depresso e non vedeva alcuna speranza. Tre giorni prima il suo amico Amin era stato sorpreso e trascinato via dalla polizia mentre usciva di casa. Dopo l'unione di Siria ed Egitto, nella primavera del 1958, era iniziata una vera e propria caccia ai comunisti. Il 1959 era stato particolarmente tragico. Il presidente Satlan aveva tenuto discorsi infiammati contro il regime del dittatore Damian in Iraq e contro i comunisti. Nemmeno quando l'anno stava ormai volgendo al termine c'era stato un po' di respiro, le jeep dei servizi segreti sfrecciavano anche di notte attraverso la città cariche delle loro vittime. Le famiglie si nascondevano dietro lacrime di paura. Si parlò della sanguinosa notte di San Silvestro. Un sussurro passò di bocca in bocca e fece crescere ulteriormente la paura dei servizi segreti, che sembravano avere spie in ogni casa. Quel giorno a Farid l'amore sembrava un lusso. Aveva trascorso con Rana un paio d'ore indisturbate nella casa della sua defunta nonna. Qui a Damasco ogni incontro con lei era un'oasi nel deserto della solitudine. Non come le settimane passate a Beirut, dove si erano nascosti sette anni prima. Là ogni giorno iniziava e finiva tra le braccia di Rana. Là l'amore era stato un mare dolce e avvolgente. La casa di sua nonna non era ancora stata venduta. Claire, sua madre, gli aveva dato le chiavi quella mattina. «Ma non tirarti giù le mutande», gli aveva detto scherzando. Anche se il sole splendeva, la giornata era molto fredda. Quando era entrato in casa era stato investito da un sentore di muffa e umidità. Aprì le finestre per far entrare aria fresca e accese il fuoco nelle stufe della cucina e della camera da letto. Non c'era nulla al mondo che Farid odiasse più dell'odore di freddo umido e stantio. Quando arrivò Rana, poco prima di mezzogiorno, le due stufe erano già roventi. Lei scherzò: «Ma dovevamo incontrarci all' hammam o a casa di tua nonna?» Era incantevole come sempre, ma lui non riusciva a liberarsi della sensazione di un imminente pericolo. Mentre la baciava pensò all'indiano che durante un'inondazione aveva cercato di salvarsi su un tetto e che invece era lentamente sprofondato in quella morte bagnata. Farid si aggrappò alla sua ragazza come uno che sta per affogare. Sentiva il cuore di lei battergli contro il petto. Nonostante il calore della stufa aveva freddo, e solo per pochi secondi la risata di lei, che prorompeva improvvisa arrivando indomita fino a lui, riuscì a liberarlo dalla sua paura. «Oggi sei proprio un modello di educazione», lo punzecchiò lei quando, dopo qualche ora, lasciarono la casa. «Sembra quasi che mia madre ti abbia incaricato di controllarmi. Non ti sei neanche tirato giù le mutande...» E rise forte. «Tua madre non c'entra niente», disse lui, e avrebbe voluto spiegarle, ma le parole inciampavano fra di loro. Camminò in silenzio accanto a lei attraverso i vicoli fino al parco Sufanije, vicino a Bab Tuma. Ogni jeep che passava lo faceva trasalire. Dalle radio dei bar arrivavano le parole del presidente, che annunciava una lotta accanita contro i nemici della repubblica. Satlan aveva una bella voce virile. Quando parlava, gli arabi si esaltavano. E la radio era la sua scatola magica. Con più dell'ottanta per cento di analfabeti, l'opposizione non aveva alcuna possibilità. Chi tiene in pugno le stazioni radio ha il popolo dalla sua parte. E il popolo amava Satlan; solamente una minuscola e disperata opposizione lo temeva e, dopo quella feroce ondata di arresti, una strana paura aveva avvolto la città. Ma ben presto i damasceni avrebbero dimenticato tutto e sarebbero tornati sorridenti alle loro occupazioni, pensò Farid quando raggiunsero il parco. La sua paura era una belva feroce che lo divorava. Continuava a pensare ad Amin, il piastrellista, che adesso doveva sopportare i tormenti della tortura. Amin non era semplicemente un suo amico. Era anche il contatto tra l'associazione dei giovani comunisti, che Farid presiedeva da un paio di mesi, e la divisione del partito a Damasco. Solo pochi giorni prima gli aveva assicurato di aver tagliato tutti i fili che portavano a lui. Amin era un esperto combattente clandestino. Un paio di settimane prima, improvvisamente, durante la colazione, la madre di Farid aveva detto che la morte dei suoi genitori e dei suoi zii la faceva sentire allo stesso tempo triste e nuda, come se le mura protettrici dei suoi antenati le fossero crollate intorno, lasciandola pericolosamente vicina all'abisso. Ora anche lui stava guardando dritto nell'abisso. Tutto sembrava vacillare. Il suo amico Josef seguiva ciecamente Satlan e inveiva contro gli «agenti di Mosca», come il presidente chiamava i comunisti. Diceva che Farid era nel partito sbagliato, che era l'unico essere umano in mezzo a una moltitudine di persone senza cuore ed era tempo che ne uscisse. Ma come poteva Josef parlare in questo modo? Rana per Farid era una grande fortuna. La amava così tanto che quasi desiderava separarsi da lei, per proteggerla dal pericolo della persecuzione. Le guardò l'orecchio. Anche solo per quello, per quel piccolo innocente orecchio, non poteva fare a meno di amarla. Rana tacque a lungo; sembrava osservare i bambini che giocavano nel parco, ma in realtà il suo sguardo era attratto da una ragazza che, un po' discosta dal gruppo, si esibiva in un piccolo spettacolo. Danzava e faceva giravolte, per poi bloccarsi improvvisamente e crollare a terra, come se fosse stata colpita da una pallottola. Qualche istante dopo si rialzava e ricominciava a ballare, per poi lasciarsi cadere di nuovo. Era da molto che a Damasco non si vedeva una giornata così: la benedizione delle piogge invernali era stata annullata dal freddo primaverile. Tutti i fiori e le gemme erano congelati. Era la prima giornata di sole dopo un'eternità di umido. I pallidi abitanti della città vecchia uscivano, tossendo, dalle loro case d'argilla, che non erano fatte per reggere al freddo, e andavano a cercare i parchi e i giardini fuori dalle mura della città. Gli adulti grigliavano la carne, bevevano tè, giocavano a carte, chiacchieravano o fumavano i loro narghilè, fissando il vuoto. I loro figli giocavano chiassosi, i bambini con i palloni, le bambine con gli hula-hoop che erano arrivati nuovi nuovi dall'America e in un batter d'occhio avevano conquistato Damasco. Le ragazze cercavano di far roteare il cerchio di plastica ondeggiando il bacino. La maggior parte di loro era ancora piuttosto goffa, ma qualcuna riusciva già a farlo girare per alcuni minuti. Il freddo sembrava non sfiorare nemmeno la ragazza che danzava. I suoi movimenti avevano una strana rilassatezza estiva. Rana le osservò il collo e si chiese che disegni avrebbe tracciato il suo sangue nell'aria, se fosse stata colpita da una pallottola. Lo schizzo di sangue di sua zia Jasmin aveva disegnato sulla parete il simbolo dell'infinito, un otto orizzontale. Era stato dieci anni prima. Jasmin, la sorella più giovane del padre di Rana, era ritornata da Beirut, dove si era nascosta a lungo con il marito musulmano per sfuggire all'ira della sua famiglia. Aveva nostalgia di Damasco, la sua città, e di sua madre. Per qualche secondo sulle labbra di Rana apparve un sorriso, ma solo per scomparire subito dopo. Č destino di famiglia che tutti gli innamorati debbano fuggire a Beirut, pensò. Un giorno d'estate la zia Jasmin l'aveva invitata nella famosa gelateria Bakdash nel suk al Hamidije. Le aveva detto tranquillamente, quasi per caso: «La vita in Arabia si muove da sempre tra due nemici inconciliabili – l'amore e la morte – e io ho scelto l'amore». Ma la morte non accettò la sua decisione. Samuel, il nipote di Jasmin, le sparò davanti all'ingresso di un cinema; il suo accompagnatore riuscì a fuggire incolume. A lui Samuel non indirizzò neanche un colpo; rimase in piedi accanto alla zia sanguinante, gridando ai passanti: «Ho salvato l'onore della mia famiglia cristiana, perché mia zia l'aveva trascinata nel fango sposando un musulmano». Molti passanti avevano applaudito. Samuel, il figlio viziato della zia Amira, aveva allora sedici anni e non era ancora maggiorenne. Fu rilasciato dopo un anno di prigione. I parenti lo portarono in trionfo cantando per le strade fino alla casa dei suoi genitori. Là, più di cento persone festeggiarono fino all'alba il suo atto d'eroismo. Solo Basil, il padre di Rana, rimase lontano dai festeggiamenti. Li trovava troppo primitivi, benché lui pure giustificasse l'uccisione della sorella. Aveva disonorato la famiglia. Solo Samia, la nonna, fece sapere a Samuel e a sua madre che lo malediceva ogni giorno quando si alzava e ogni sera prima di addormentarsi. Jasmin era stata la sua figlia prediletta. Per questo si mormorava che Samuel – anche se su incarico di qualcuno – avesse ucciso la zia con l'odio di sua madre, che si era sempre sentita trascurata. Da allora Rana non aveva più rivolto la parola al cugino. Ogni volta che veniva a trovare suo fratello Jack, lei si chiudeva in camera. Non aveva nemmeno più varcato la soglia della casa di sua zia Amira. Al contrario, la foto della zia Jasmin era appesa nella sua cameretta accanto all'immagine della Madonna. Rana tacque a lungo in questo freddo giorno di marzo e strinse forte le mani calde di Farid. La danzatrice cadde di nuovo, questa volta con la massima eleganza, e rimase immobile per qualche istante, prima che le mani ricominciassero a svolazzare come piccole farfalle, segno che nel corpo sdraiato era ritornata la vita. Lontano, qualcuno cantava allegramente versi traboccanti di malinconia e disperazione: «Mi costringo alla separazione / per poterti dimenticare». Erano versi della nuova canzone della cantante egiziana Umm Kalthum. Ahmad Rami, il timido e sensibile poeta autore dei versi, negli anni Cinquanta aveva celebrato il suo amore per lei in più di trecento canzoni, senza che quell'amore fosse mai corrisposto. «Ho bisogno di tempo», disse Rana, «per trovare una risposta.» | << | < | > | >> |Pagina 124In un freddo giorno di febbraio dell'anno 1933, Elias ritornò a Mala con una valigia in mano. Il suo arrivo sembrò non interessare a nessuno in casa Mushtak. Scese dall'autobus e si diresse a passi lenti verso casa. La porta era chiusa. Sua cognata Hanan, la moglie di Salman, aprì e gli indicò bruscamente la sua camera, una stanza al piano terra vicino all'entrata posteriore. Anche sua madre aveva trascorso là i suoi ultimi giorni. Dopodiché vi avevano alloggiato i servi. La stanza era ammobiliata poveramente. Il letto consisteva in una vecchia traversa di legno e il materasso era imbottito di paglia e foglie di mais secche. Puzzava di urina e di sudore. La coperta era grigia per lo sporco. Solo il cuscino e due asciugamani consunti erano per lo meno puliti. «Da mangiare te lo porto io in camera, ogni giorno a mezzogiorno. Lo sai che il signore non ti vuole vedere, ma tu puoi abitare qui, finché non hai trovato un altro alloggio.» Era la voce di Hanan a parlare, ma le parole erano quelle di suo padre, perciò non poté odiare Hanan per quelle due frasi assurde. Ciò nonostante si sentì umiliato. Un'estranea gli dava disposizioni nella casa paterna e gli spiegava che poteva vivere in quel buco e che avrebbe ricevuto un solo pasto al giorno. Fece ricorso a tutta la sua forza per non piangere. «E Salman?» disse, e non sapeva se chiedere prima perché suo fratello non venisse a salutarlo o perché permettesse che trattassero lui, Elias, come un cane rognoso. «Salman ha molto da fare», rispose la donna, e uscì. Ci sta proprio bene nella casa dei Mushtak, pensò seguendola con lo sguardo. Aveva un passo stranamente senile. Si sedette sull'orlo del letto e fissò la sua valigia marrone. Davanti ai suoi occhi continuava a ripresentarsi il convento che bruciava. Sentiva chiaramente le grida. Tre gesuiti erano periti tra le fiamme, i padri più valorosi. Erano riusciti a salvare tutti gli studenti, prima di bruciare in quel modo orribile. Quell'orrore aveva avuto inizio già nell'estate del 1932. Elias stava per lasciare il convento e accettare un posto qualsiasi dai francesi: voleva abitare a Damasco e amare le donne, quando erano iniziati i disordini. Ogni giorno c'era gente che protestava, e tutte le manifestazioni erano in qualche modo dirette contro i francesi. Anche se le sommosse erano contro la corruzione dei costumi, ogni tumulto degenerava sempre in violenza antifrancese. Il governatore francese della città, in risposta, scagliava sui dimostranti la sua truppa più brutale. I senegalesi erano famigerati per la loro durezza. Picchiavano senza pietà. Ogni giorno c'erano morti e feriti. Fratello Andreas fu il primo a capire che i disordini avrebbero portato alla fine dell'insediamento dei gesuiti a Damasco. Lo presero in giro. Dietro alla loro missione c'era la grande potenza della Francia con tutto il suo peso, gli aveva detto l'abate Rafael Herz, un uomo arrogante e ingordo. «La Francia?» si meravigliò fratello Andreas. «La Francia è troppo lontana e la plebaglia troppo vicina.» Ma nessuno lo capì. Fu il 7 ottobre, alla festa di San Sergio, che la prima ondata raggiunse la porta. Circa cento uomini, mentre scappavano davanti ai manganelli e alle baionette dei senegalesi, gridavano: «Abbasso la Francia! Abbasso i cristiani, adoratori della croce, porci!» Lanciarono delle pietre, una delle quali colpì la croce sopra la porta del convento. La croce precipitò. In tutto l'autunno, nel Sud del paese non era caduta neanche una goccia d'acqua. Quando durante l'inverno tutto il seminato era seccato, migliaia di uomini erano migrati al Nord. Avevano davanti agli occhi le immagini delle belle e verdi città, mormoravano le loro preghiere e speravano di sfuggire alla morte per fame. Da lì in poi i disordini diventarono sempre più violenti. Dove infuriavano, lasciavano solo nuda distruzione. Spazzavano via tutto, come una tempesta nel deserto. I soldati francesi respingevano gli attacchi senza pietà. E quando i dimostranti si ritiravano, portando via i loro feriti, bestemmiavano e giuravano vendetta. Quel gennaio fu freddissimo, e il cielo avaro di acqua. Alla porta Sud della città, Bab al Sigir, i soldati impedirono a un'enorme ondata di contadini provenienti dal Sud di fare irruzione a Damasco. Il flusso di uomini si precipitò lungo le mura della città, assalì le due porte di Bab Sharki e Bab Tuma e si avventò sul quartiere cristiano. Furono distrutti negozi e venne appiccato il fuoco nelle chiese e nelle case. Ma solo il convento dei gesuiti andò effettivamente in fiamme. Due autocarri dell'esercito bloccarono le vie di fuga e spararono sulla folla. Quel giorno morirono tre soldati e settanta contadini. Il convento dei gesuiti bruciò fino alle fondamenta. Elias aveva da settimane la sensazione di dover lasciare il convento, ma aveva paura di comunicare la sua decisione alla direzione e a suo padre. Gli uni erano troppo buoni con lui. Lo consideravano il loro miglior novizio. L'altro, la sfinge di Mala, era già abbastanza amareggiato. Un fallimento al convento sarebbe stato la sua condanna a morte. Stava aspettando l'occasione giusta e nell'armadietto teneva ormai solo la biancheria necessaria alla giornata. Tutto il resto era nella valigia sotto al letto. Era sera quando fratello Andreas piombò nella chiesa piccola urlando: «La casa brucia!» I vicini aiutarono con dei secchi d'acqua a spegnere il fuoco, o perlomeno a evitare che si propagasse alle altre case costruite in legno e argilla. Fu un miracolo se ad andare in fiamme fu solo il convento dei gesuiti. I padri del convento fecero alloggiare provvisoriamente gli studenti salvati dall'incendio in un vicino palazzo della missione dei lazzaristi francesi, ma pochi giorni dopo fu chiaro che il convento andava chiuso. Padri e insegnanti dovevano andare a Beirut, gli studenti a casa. Solamente fratello Andreas sarebbe rimasto ancora un po', per sbrigare le faccende fino a che anche il terreno non fosse stato venduto. Le rovine non si potevano più restaurare. Andreas salutò Elias con le lacrime agli occhi. | << | < | > | >> |Pagina 255Dopo la grande rivolta della Siria nel 1925, gli occupanti francesi avevano mantenuto a lungo la situazione più o meno calma. Elias era entusiasta della durezza dell'alto commissario francese, che dalla metà degli anni Trenta aveva riportato l'ordine. Ogni minima infrazione veniva subito punita con la pena capitale e gli arabi avevano abbassato la testa. Ma ora le carte si stavano rimescolando un'altra volta.Il generale Louis Weygand, che aveva guidato con pugno di ferro la colonia siriana fino a maggio, era stato richiamato a Parigi per guidare l'esercito francese contro le truppe di Hitler. A Damasco i francesi avevano tuonato che la linea Maginot era inespugnabile e che Hitler ci si sarebbe miseramente dissanguato, ma due settimane più tardi i tedeschi erano già nella capitale. Le truppe coloniali erano divise. Alcuni volevano collaborare con i tedeschi e resero omaggio al governo del maresciallo Pétain, insediatosi a Vichy con il consenso dei nazisti, altri invece si unirono al Comitato francese di liberazione nazionale, guidato da un giovane ufficiale di nome Charles de Gaulle, in esilio a Londra, che organizzava la resistenza contro i tedeschi. Ovunque ci furono scontri sanguinosi tra le due fazioni. Il comando delle truppe francesi a Damasco si schierò dalla parte dei tedeschi e dichiarò guerra alla Gran Bretagna e ai francesi in esilio. A Damasco regnava un caos terribile, ulteriormente fomentato da agenti tedeschi ben addestrati. Si disse che un forte contingente di truppe inglesi si stesse riunendo in Palestina, al confine meridionale della Siria, per occupare di nuovo il paese e liberarlo dai seguaci dei nazisti. Il governo amministrativo siriano sotto l'occupazione francese non durò neanche due settimane. Cadde, fu ricostituito e cadde di nuovo. Il caos della guerra e lo scarso raccolto provocarono la prima carestia dopo il 1918.
La folla amareggiata gridava il suo dolore, portando le vittime al cimitero,
e vedeva nei francesi e in tutti gli altri cristiani del mondo dei senza Dio, la
cui uccisione era diventata il primo dovere dei musulmani. Molti cristiani di
Damasco rinforzarono le loro case e tennero a portata di mano grandi quantità di
secchi d'acqua, poiché il fuoco era lo strumento di lotta preferito dal popolo.
A ogni incontro con i vicini, Claire sentiva che amavano Hitler solo perché odiavano i francesi. Anche Madeleine trovava barbari i francesi e raccontava storie terribili sulle umiliazioni inflitte dai soldati. Quando le truppe di Hitler entrarono marciando a Parigi, i siriani festeggiarono la vittoria. Erano felici che l'odiato generale francese Weygand, che aveva versato così tanto sangue siriano, fosse stato colto di sorpresa dai tedeschi. C'erano due canali radiofonici di notizie arabe all'estero. Uno si trovava a Cipro ed era vicino agli inglesi. Informava con obiettività anche sui peggiori incidenti, in un arabo monotono, come se stesse parlando della raccolta del grano in Argentina. A Elias piaceva per la precisione delle informazioni. L'altro canale era a Berlino. Claire lo ascoltava volentieri, quando Elias non c'era. Lo speaker si chiamava Junus al Bahri. Era stata Madeleine a farglielo notare. Nel quartiere cristiano lo si ascoltava solo di nascosto, per paura delle spie francesi, ma nel quartiere musulmano Claire vide un gruppo di oltre quaranta uomini seduti intorno a una radio, dalla quale la voce metallica di Junus sputava veleno sugli inglesi. Dei francesi diceva solo che erano dei figli di puttana; i bersagli delle sue frecciate velenose erano esclusivamente gli inglesi. Sono una razza di bugiardi, diceva quasi rauco per l'agitazione. Era un maestro nei discorsi appassionati, recitava poesie e sure del Corano, riportava notizie e poi imprecava in un modo che Claire non aveva mai sentito prima, né sentì mai più in seguito. Junus non aveva neanche paura di gridare, dopo una marcia austriaca: «Inglesi, ecco un messaggio per voi, Hitler si fotterà vostra madre. Sì, la fotterà», ripeteva affinché nessuno pensasse di essersi sbagliato. Un'altra volta Junus spiegò che Hitler durante un'intervista confidenziale aveva detto che dopo la sua vittoria sarebbe passato all'Islam come Napoleone, Goethe e tutti gli altri uomini importanti prima di loro. Claire sapeva che quella su Goethe era una leggenda, ma Napoleone si era effettivamente dichiarato a favore dell'Islam e in Egitto si era messo il turbante per imbrogliare gli egiziani. Ma il fatto che Hitler volesse passare all'Islam la sorprese molto. Tuttavia quella notizia fece battere il cuore a milioni di arabi. | << | < | > | >> |Pagina 362La prima volta che Farid osò andare nel quartiere musulmano senza essere accompagnato, aveva appena compiuto dodici anni. Aveva saputo a scuola che quel giorno i musulmani celebravano la loro grande festa sacrificale. Josef non ci volle andare, per lui era tutto troppo rumoroso e troppo sporco. Sebbene abitassero molto vicino ai cristiani, i musulmani vivevano e festeggiavano in modo diverso. Per Farid erano come un popolo esotico, in un certo qual modo più fisico, più colorato, più rumoroso e più forte. In seguito trovò un altro termine: più primitivo. I richiami dei venditori alle bancarelle della fiera erano più allegri del solito. Tutte le case erano decorate, appesi ai balconi c'erano teli colorati e tappeti a mo' di bandiere. E qua e là c'erano gruppi di persone attorno a due o più uomini che si esibivano in una gara. Farid guardò due ragazzini vestiti con i tradizionali costumi dei contadini. Ognuno di loro portava una scimitarra e un piccolo scudo rotondo d'acciaio. Saltellavano e danzavano, e picchiavano con le scimitarre sulle pietre della pavimentazione stradale, sprizzando scintille. Poi si attaccavano l'un l'altro. Era tutto studiato e i colpi cadevano, a ritmo cadenzato, solo su scimitarre e scudi. Un paio di metri più avanti c'era uno che faceva ballare il suo cavallo tutto bardato. L'uomo sosteneva che era un cavallo arabo, ma molti ne dubitarono a gran voce, perché gli arabi erano cavalli fieri, che nella corsa sapevano gareggiare con il vento, ma che mai e poi mai avrebbero ballato. Inoltre quella bestia, per essere un assil, un vero cavallo arabo, aveva un corpo un po' troppo tozzo. In un altro punto c'era una lotta con canne di bambù, che sembrava molto più pericolosa di quella con le scimitarre. I due uomini avevano canne sottili e lunghe e uno scudo rotondo di cuoio imbottito di cotone. Andarono al centro del cerchio formato dagli spettatori, si baciarono a vicenda le dita e poi, come espressione di rispetto e di cautela nei confronti dell'avversario, fecero tre passi indietro. Infine cominciarono, ognuno per conto proprio, a danzare e a picchiare con la canna di bambù sullo scudo o per terra. La canna roteava nell'aria e provocava un fischio che faceva venire la pelle d'oca. Alla fine gli uomini si gettarono l'uno sull'altro, e i colpi che davano erano veri, non solo una scena come nella battaglia delle scimitarre. Un arbitro controllava il combattimento e con un segnale ne decretò la fine. Quando i due si inchinarono per raccogliere l'applauso, Farid notò i segni rosso sangue dei colpi sulle braccia, sul collo e anche sul viso. Farid proseguì e vide per la prima volta un teatrino delle ombre, che a quel tempo era molto famoso a Damasco. Nel quartiere cristiano non c'era neanche questo. Ma gli studenti musulmani ne parlavano sempre entusiasti. In un bar era stato allestito un piccolo palcoscenico con uno schermo. La sala era piena; vi sedevano sia adulti sia bambini, che si godevano felici un'avventura del personaggio di Karagös, che litigava sempre, e che ogni volta ci sbatteva il naso. Farid era stupito del fatto che il narratore, dietro al telo sul quale si muovevano le ombre, non avesse alcun riguardo per la morale e la sensibilità degli spettatori. Continuavano a piovere parole come «figlio di puttana» o «ruffiano». Gli eroi della storia non avevano sederi o posteriori, ma culi. Le figure non facevano un po' d'aria, ma scorreggiavano fortissimo e uno con le sue scorregge riuscì addirittura a mettere in moto un mulino per cereali e a sfamare la sua famiglia. Gli spettatori ridevano picchiandosi le mani sulle cosce. Di colpo erano diventati tutti come dei bambini. Farid non comprese bene di cosa effettivamente parlasse quella storia, ma non poté fare a meno di ridacchiare, perché Karagös sbagliava tutto, ma proprio tutto, e si imbrogliava sempre. Tutto il quartiere era per strada, in festa. Le case sembravano tutte vuote. Dai cristiani, durante le feste, succedeva l'esatto contrario. Le strade erano vuote e le case piene di ospiti, che al massimo uscivano per andare in processione da un palazzo all'altro, dove poi continuavano a festeggiare. Farid correva contento per le strade, mangiò qualcosa qua e là, bevve succo e airan, una bevanda ghiacciata allo yogurt, si comprò sacchetti interi di semi di zucca, e varie volte un dolce grondante grasso e sciroppo. Non si rese affatto conto che si stava lentamente ma inesorabilmente rovinando lo stomaco. Nonostante la tremenda diarrea che gli venne alla sera, considerò sempre questa festa sacrificale musulmana la più bella che avesse mai visto. | << | < | > | >> |Pagina 538Elizabeth, la ragazza inglese di Rasuk, in autunno parlava già l'arabo incredibilmente bene. Il suo accento era quasi impercettibile, ma era buffo, e in più Elizabeth sapeva imprecare come un ragazzo di strada. L'amore di Rasuk per Elizabeth cresceva. Raccontava orgoglioso di quanti le facessero gli occhi dolci, per poi ricevere in cambio solo un bidone. Amava solo lui e stavano benissimo insieme. Rasuk voleva fare al più presto il servizio militare, per poter poi avere diritto a un passaporto. «Senza il servizio militare non ti danno il passaporto. Ma io non voglio andarmene illegalmente. Solo per il fatto che Elizabeth ama così tanto Damasco, voglio poterci ritornare quando voglio», disse. Con l'aiuto di lei voleva aprire in Inghilterra un bazar orientale e aveva già trovato dieci fornitori a Damasco che erano contenti di poter vendere all'estero i loro lavori in legno, ottone, acciaio e stoffa. Quando parlava di Elizabeth, Rasuk elogiava la sua schiettezza, il suo coraggio e soprattutto il suo rispetto per la libertà. «Da noi non è così. Qui, se qualcuno ti ama, ti si incolla addosso. La tua libertà personale è un fattore di disturbo, un pericolo per l'amore. Č per questo che da noi ci si sforza di lasciare al proprio partner meno libertà possibile. Elizabeth è proprio il contrario. Per lei la mia libertà è sacra», raccontò un pomeriggio ad Amin e agli altri del circolo. «Ma in un certo qual modo gli europei per noi non vanno bene», disse Amin. Farid si meravigliò che proprio lui dicesse una cosa del genere. Aveva sempre pensato che ad Amin non piacessero i concetti di nazione e nazionalismo. Ma non disse nulla. «Sì, loro forse amano più la libertà, ma non conoscono il concetto di onore», affermò Badi, un insegnante della scuola elemenare che veniva dal Sud. «Tutti hanno l'onore. Č una sciocchezza credere che l'onore sia un privilegio solo nostro», ribatté duro Rasuk. «No, non intendevo questo», l'insegnante prese di nuovo la parola, «ma ogni popolo vive secondo una propria scala di valori. Per uno al primo posto c'è la conquista di nuove aree per la patria, per l'altro la felicità della famiglia, per un terzo c'è l'onore della donna. Capite?» Tutti e dieci gli ascoltatori annuirono. «Ora siamo arrivati al nocciolo della questione», disse Taufik. «Qualcuno vuole ancora tè, prima che cominci il dibattito? Non ho voglia poi di perdermi qualche passaggio.» In quattro volevano il tè, altri ordinarono acqua o caffè. «Allora non parlate più finché non ritorno. Sarò di nuovo qui in un attimo.» Quando Taufik ebbe portato le bevande e incassato i soldi, sedette nell'ultima fila, da dove poteva controllare il bar. «Cominciate pure», disse. «Č proprio questo concetto di onore che per me non ha senso», Rasuk riprese il filo del discorso. «Da cinquecento anni veniamo picchiati, umiliati e derubati, e il nostro onore lo circoscrivi unicamente a un pezzettino di pelle nel punto più nascosto della donna. Non è normale, o no?» Esplose una protesta. «Sta da un paio di mesi con un'inglese», disse Michel, il falegname, «e già non vuole più saperne dell'onore degli uomini.» «Stai bene a sentire, ragazzo», continuò Sadik, il verduraio, «tu a un arabo puoi prendere tutto, ma non l'onore. Gli europei possono essere superiori a noi in tante cose, ma non su questo punto. Nelle questioni d'onore, noi siamo avanti.» Rasuk lanciò a Farid un'occhiata che diceva tutto. Proprio Sadik, che truffava i suoi clienti in tutti i modi possibili! Quello spilorcio parlava di onore arabo? «Al tuo posto», lo apostrofò Farid, «non parlerei così forte dei valori degli arabi. Lo sai qual era la caratteristica che i nostri antenati aborrivano più di ogni altra?» «Quale?» chiese Sadik con il suo sguardo stupido. «L'avarizia», rispose Farid, e contro il verduraio si alzarono urla, risate, trilli e fischi. «Ma comunque Sadik ha ragione», dissero al di sopra del frastuono Badi, l'insegnante, e Basil, il muratore. «Ci hanno preso tutto, ma il nostro onore resta, e io preferirei morire piuttosto che sposare una donna con la quale altri hanno fatto l'amore prima di me», aggiunse Basil. Alcuni annuirono. Anche Amin. Era amico di Basil e Badi. «E non lo trovate buffo?» disse piano Azar. «Più forte», lo esortò Taufik, «non capisco neanche una parola.» «Non trovate buffo il fatto che sia proprio la verginità a essere così sacra per noi?» «E cosa ci sarebbe di buffo?» ringhiò un uomo basso che Farid non conosceva. Lo chiamavano Edward. «Questo è buffo: gli uomini, che normalmente rispettano molto poco la donna, ripongano tutto il loro onore proprio lì, dove la donna fa la pipì? Che uomini miseri e senza onore sono questi europei, che conquistano terre e mari e si spingono fino nel mondo degli atomi, mentre i nostri fieri uomini si arricciano i baffi nella loro arretratezza e si sentono superiori a tutti perché hanno sposato donne ancora vergini.» Un mormorio risentito si sollevò da varie direzioni contro Azar. «E certamente voi tutti sapete», lo appoggiò Rasuk, «che un paio di nostri ginecologi non fanno ormai altro se non ricucire imeni. Studiano in America e sacrificano anni della loro vita, per poi ritornare e fare un semplice lavoro da calzolai per l'onore degli uomini.» Alla fine di ottobre Rasuk fu arruolato e contava di terminare il servizio di leva entro il gennaio del 1961. Un mese più tardi avrebbe sposato Elizabeth e si sarebbe trasferito in Inghilterra. A quel punto lei avrebbe terminato i suoi studi a Damasco. Ma le cose andarono diversamente. | << | < | > | >> |Pagina 703Quando rinvenne, si trovava in un letto bianco, e bianche erano anche le pareti e il soffitto. Sentiva delle grida come di una bestia impaurita e c'era un forte odore di canfora. Le faceva male la schiena e aveva la lingua secca. Rabbrividì. Aveva la testa pesante come il piombo, ma a poco a poco riuscì a voltarla da un lato. In quella stanza spoglia c'era un'altra donna, che era legata al letto con tre cinghie. Era scheletrica e aveva la pelle scura e grinzosa come la mummia nuda che una volta Rana aveva visto al museo egizio. La donna non si muoveva. Rana pensò che fosse morta e fu assalita da una strana paura. Dove si trovava? Perché era sdraiata insieme a una donna morta in quello sgabuzzino? Pensavano che fosse morta anche lei? Quando la donna girò la testa da un lato, Rana tirò un sospiro di sollievo. Da quel viso scarno ed emaciato il dolore parlava come da un dipinto dei tormentati che affollavano il cammino di Cristo. «Vogliono avvelenarmi», disse la donna con voce roca. «Mi hanno iniettato il veleno per farmi morire lentamente, così loro possono ereditare la mia casa.» La donna emise un sospiro sibilante e guardò il soffitto. «E tu? Chi ti ha portato qui? Vogliono avvelenare anche te?» Rana scosse la testa. Voleva dire che non lo sapeva, ma era sicura che nessuno volesse avvelenarla. Rana diede un'occhiata al proprio corpo e vide che non era legata. Si alzò, ma il freddo della stanza la fece tornare subito sul letto bianco. Pensò all'arcobaleno e si meravigliò di non essere più bagnata, e anche di non avere più addosso i suoi vestiti, bensì quel grande camice. «Li devi imbrogliare», sussurrò la donna. «Se vuoi sopravvivere qua dentro, non devi essere sincera con nessuno. Sii assente, fai la morta», aggiunse quasi impercettibilmente. Come era finita lì? si chiese Rana. I suoi genitori l'avevano tenuta ferma, e poi? Dov'era suo marito? Cosa aveva fatto lui? «Fai come me, viaggia nell'aria, veleggia tra le tempeste, visita spiagge e palazzi, gioca con i bambini e cerca avventure con uomini affascinanti. Io vado a passeggiare a Damasco, mangio il gelato al suk al Hamidije, mentre quell'idiota di dottore fa domande al mio corpo morto, lo imbottisce di pillole amare, lo ausculta, lo misura e lo fotografa. Siccome però io non rispondo alle sue domande, ma a quelle della mia vicina di tavolo della gelateria, lui non mi capisce e mi prende per matta. Ma io glielo lascio credere. Qui ad al Asfurije, nella casa degli uccellini, sono al sicuro dagli avvelenamenti, finché non torna mio figlio dall'America e mi porta via.» La donna raccontava cose confuse e Rana cercò di ritornare al momento che ora diventava sempre più chiaro nella sua memoria. Suo marito era andato verso la porta e in quello stesso istante aveva capito che avevano telefonato a un medico. Per che cosa? Lei si sentiva bene. Un po' triste, forse, ma perché un medico? Voleva alzarsi dal divano e seguire suo marito verso la porta per dirgli che poteva anche mandare via il dottore, perché ora si sentiva di nuovo bene. Ma sua madre l'aveva tenuta per il braccio destro e aveva gridato al padre, il quale esitava, di non dormire e di tenerla anche lui. Rana aveva cercato di liberarsi. «Lasciatemi in pace e andate a casa», aveva pregato i suoi genitori, ma loro sembravano non capire le sue parole, anzi la tennero seduta sul divano ancora più saldamente. Aveva gridato di paura perché pensava che i suoi genitori fossero impazziti, poi aveva sentito la puntura.
Rana passò due settimane in psichiatria. Poi il dottor Husam, che faceva le
veci del primario, la dimise su richiesta della sua famiglia. Rana ritornò a
casa. Sembrava che stesse meglio. Le medicine, le buttò nella spazzatura quello
stesso giorno.
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