Autore Frank Schätzing
Titolo Il quinto giorno
EdizioneTea, Milano, 2014 [2005], I grandi , pag. 1036, cop.fle., dim. 14x21,5x5,5 cm , Isbn 978-88-502-2106-6
OriginaleDer Schwarm
EdizioneKiepenheuer & Witsch, Köln, 2004
TraduttoreSergio Vicini
LettoreGiorgio Crepe, 2015
Classe fantascienza , thriller , mare












 

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Indice


PROLOGO                                    7

PARTE PRIMA     Anomalie                  23

PARTE SECONDA   Château Disaster         449

PARTE TERZA     Independence             673

PARTE QUARTA    Discesa                  925

PARTE QUINTA    Contatto                 983

EPILOGO                                 1013

NOTA DELL'AUTORE                        1023

Ringraziamenti                          1027


 

 

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Pagina 9

14 gennaio



Huanchaco, costa del Perú

Senza che il mondo ne sapesse nulla, quel mercoledì si compì il destino di Juan Narciso Ucañan.

Solo alcune settimane dopo, il suo caso s'inserì in un contesto più ampio, anche se il suo nome non venne mai evocato. Era semplicemente uno dei tanti. Se fosse stato possibile chiedergli cos'era successo quel mattino, sarebbero emerse le analogie con vicende simili, avvenute contemporaneamente in tutto il globo. E forse l'esperienza del pescatore, proprio perché derivava da un'ingenua visione del mondo, avrebbe rivelato una serie di complesse corrispondenze, destinate a diventare palesi soltanto in seguito. Ma Juan Narciso Ucañan non poteva dire più nulla e lo stesso valeva per l'oceano davanti alla costa di Huanchaco, nel nord del Perú. Ucañan rimase muto come i pesci che si erano presi la sua vita. Quando infine la sua vicenda fu inserita in una statistica, gli avvenimenti erano già arrivati a un diverso grado di sviluppo ed eventuali informazioni sulla fine di Ucañan erano ormai d'interesse secondario.

Del resto, anche prima del 14 gennaio, nessuno s'interessava particolarmente a lui o alla sua esistenza.

Così almeno la vedeva Ucañan. Non gli piaceva che, nel corso degli anni, Huanchaco fosse diventata un paradiso balneare. Gli stranieri restavano sbalorditi di fronte a un mondo che sembrava perfetto, con gli indigeni che uscivano in mare su barche di giunchi apparentemente fuori dal tempo. La maggior parte dei suoi compaesani lavorava sui pescherecci a strascico, nelle fabbriche di farina e olio di pesce che, nonostante la diminuzione del pescato, consentivano al Perú di restare tra i primi Paesi nella produzione ittica insieme col Cile, con la Russia, con gli Stati Uniti e con le principali nazioni asiatiche. A dispetto del Niño, Huanchaco si sviluppava in ogni direzione, hotel si affiancavano a hotel e le ultime riserve naturali venivano sacrificate senza scrupoli. Tutti, in un modo o nell'altro, riuscivano a combinare affari. Tutti tranne Ucañan, cui non era rimasto altro che la sua pittoresca barchetta, un caballito. Erano stati i conquistadores a chiamarla così, sbalorditi alla vista di quelle bizzarre imbarcazioni. Ma era solo questione di tempo: anche i caballitos sarebbero spariti.

Tutto lasciava pensare che il millennio appena cominciato avesse deciso di eliminare Ucañan.

Ormai gli sembrava di non essere più padrone delle proprie sensazioni. Da una parte si sentiva punito. Dal Niño, che, a memoria d'uomo, aveva sempre colpito il Perú e contro cui non poteva fare nulla. Dagli ambientalisti, che nei loro congressi parlavano di overfishing e di diboscamento; in quelle occasioni, le teste dei politici si giravano lentamente a guardare gli armatori dei pescherecci, e allora si capiva che avevano gli stessi interessi. Poi guardavano Ucañan, che comunque non era responsabile del disastro ecologico. Non era stato lui a volere le fabbriche galleggianti e neppure i trawler giapponesi e coreani che, a duecento miglia marine dalla costa, attendevano solo di fare incetta di pesci. Ucañan non aveva colpa di nulla, ma stentava a crederci. Quella era l'altra sensazione che lo faceva sentire un miserabile. Come se fosse lui a strappare al mare tonnellate di tonni e di sgombri.

Aveva ventotto anni ed era uno degli ultimi del suo popolo.

I suoi cinque fratelli maggiori lavoravano a Lima. Lo consideravano uno sciocco perché si ostinava a uscire in mare con una barca più piccola di una tavola da surf, aspettando nelle acque costiere ormai spopolate bonitos e sgombri che non arrivavano mai. Cercavano di spiegargli che non si poteva restituire la vita ai morti. Ma quella che Ucañan voleva salvare era la vita di suo padre, che, nonostante i suoi settant'anni, era uscito a pesca ogni giorno. Almeno fino a qualche settimana prima. Ormai il vecchio Ucañan non ci andava più: restava sdraiato in casa, afflitto da una tosse strana e col viso coperto di macchie; perdeva progressivamente lucidità, però Juan Narciso si era convinto che, se avesse tenuto in vita le antiche tradizioni, pure il vecchio sarebbe rimasto vivo.

Più di mille anni fa, ancor prima dell'arrivo degli spagnoli, gli antenati di Ucañan, gli yunga e i moche, usavano barche di giunchi. Avevano popolato la regione costiera dall'estremo nord fino alla zona dell'odierna città di Pisco, e rifornivano di pesce la grande capitale Chan Chan. Allora, il territorio era ricco di wachaques, acquitrini prossimi alla costa, alimentati da fonti sotterranee di acqua dolce. Lì un tempo cresceva lussureggiante la canna di palude, con cui Ucañan e quelli che erano rimasti nelle sue stesse condizioni legavano ancora i loro caballitos, non diversamente da come avevano fatto i vecchi. Costruire un caballito richiedeva abilità e calma interiore. Erano imbarcazioni singolari. Lunghe dai tre ai quattro metri, con la prua a punta, ricurva verso l'alto, quei fasci di giunchi erano leggeri come piume e praticamente inaffondabili. Una volta ce n'erano a migliaia a solcare le onde della zona costiera: era il tempo della «pesca d'oro», perché anche nelle giornate peggiori i pescatori tornavano a casa con un bottino molto più ricco di quello che gli uomini come Ucañan neppure osavano sognare.

Ma gli acquitrini erano spariti e, con loro, anche i giunchi.

Il Niño almeno era prevedibile. Ogni due anni, nel periodo di Natale, la corrente di Humboldt, di solito fredda, si riscaldava a causa dell'assenza degli alisei e il mare s'impoveriva di sostanze nutritive, quindi sgombri, bonitos e acciughe non arrivavano. Visto il periodo in cui si manifestava, gli antenati di Ucañan avevano chiamato quel fenomeno El Niño, «Gesù Bambino». A volte, Gesù Bambino si limitava a portare un po' di confusione nella natura senza gravi conseguenze, ma ogni quattro o cinque anni scatenava una punizione divina sugli uomini, come se volesse eliminarli dalla faccia della Terra: uragani, temporali trenta volte più violenti del solito e valanghe di fango costavano la vita a centinaia di persone. Il Niño andava e veniva, era sempre stato così. Non ci si poteva fidare di lui, ma in qualche modo ci si poteva arrangiare. Tuttavia, da quando la ricchezza del Pacifico era stata depredata dalle reti a strascico, la cui dimensione era tale da poter contenere dodici jumbo jet uno di fianco all'altro, le preghiere non servivano più a niente.

Forse, mentre i flutti facevano ondeggiare il suo caballito, Ucañan pensava: Sono davvero stupido. Stupido e colpevole. E forse sono colpevoli anche le associazioni dei pescatori e quelli che hanno firmato gli accordi internazionali. Tutti noi ci siamo affidati alla protezione di un santo cristiano che non può nulla contro El Niño.

Un tempo in Perú c'erano gli sciamani, rifletté. Ucañan aveva sentito raccontare di ciò che gli archeologi avevano trovato nel tempio precolombiano nei pressi della città di Trujillo, immediatamente alle spalle della Piramide della Luna: novanta scheletri, uomini, donne e bambini, uccisi a pugnalate. In un tentativo disperato di fermare la devastante marea del 560, il sommo sacerdote aveva sacrificato la vita di novanta persone, e il Niño se n'era andato.

Chi bisognava sacrificare per fermare l'overfishing?

Ucañan rabbrividì a quel pensiero. Era un buon cristiano, amava Gesù Cristo e san Pedro, il protettore dei pescatori. Aveva sempre partecipato con devozione ai festeggiamenti per il giorno di san Pedro, in cui la statua di legno del santo veniva portata in barca di villaggio in villaggio. Al mattino erano tutti in chiesa, ma di notte bruciavano i sacri fuochi. Lo sciamanesimo era in piena fioritura. Ma quale dio poteva venire in soccorso, visto che lo stesso «Gesù Bambino» non era responsabile della miseria dei pescatori, sopraffatto com'era dalla confusione delle forze della natura e dagli interventi di politici e lobbysti?

Ucañan guardò il cielo e socchiuse le palpebre.

Prometteva di essere una bella giornata.

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Pagina 127

6 aprile



Kiel, Germania

Due settimane dopo aver consegnato a Tina Lund i risultati definitivi delle analisi sui vermi, Sigur Johanson era seduto in un taxi che lo stava portando nel luogo più rinomato tra i geografi marini europei, il centro di ricerca Geomar.

Quando servivano notizie sulla formazione, sullo sviluppo e sulla storia del fondale marino, si consultavano sempre gli scienziati di Kiel. Persino James Cameron era andato lì per avere un riscontro sulla fattibilità di progetti come The Abyss o Titanic. Il lavoro degli scienziati del Geomar era difficile da spiegare alla gente comune. A prima vista, rovistare tra i sedimenti e misurare la salinità dell'acqua non sembravano attività destinate a portare un contributo concreto alla soluzione dei più urgenti problemi dell'umanità. In effetti, era difficile spiegare ai profani ciò che, ancora all'inizio degli anni '90, la maggior parte degli scienziati non aveva voluto credere: i fondali marini, lontani dalla luce e dal calore del sole, non erano un deserto roccioso privo di vita. Là sotto, la vita brulicava. Certo, si conoscevano da tempo le specie esotiche lungo le pareti dei camini idrotermali degli abissi. Tuttavia, quando fu chiamato a lavorare al Geomar, nel 1989, il geochimico Erwin Suess dell'Oregon State University aveva raccontato cose ancora più bizzarre: oasi di vita nei pressi delle fonti fredde abissali, misteriose energie chimiche che salivano dall'interno della Terra e massicci giacimenti di una sostanza che, fino ad allora, aveva ricevuto pochissima attenzione, in quanto ritenuta un prodotto bizzarro e privo d'importanza: l'idrato di metano.

Da poco le scienze della Terra cominciavano a uscire dall'ombra in cui loro stesse — come la maggioranza delle scienze — si erano relegate troppo a lungo. Cercavano di aprirsi all'esterno, nutrivano la speranza di poter prevedere e controllare le catastrofi naturali, le trasformazioni climatiche e ambientali. Sembrava che il metano potesse dare una risposta ai problemi energetici del futuro. La fame d'informazioni della stampa si era risvegliata e i ricercatori avevano imparato – all'inizio con timidezza, poi progressivamente con modi da popstar – a piegare a proprio vantaggio l'interesse che si era risvegliato,

Il taxista che stava portando Johanson verso il fiordo di Kiel sembrava non aver capito nulla di tutto ciò. Da venti minuti esprimeva il suo dissenso, chiedendosi come fosse possibile che avessero messo un centro di ricerca costato milioni nelle mani di alcuni pazzi, di gente che, ogni due mesi, partiva per una crociera dispendiosa, mentre quelli come lui riuscivano a campare a stento. Johanson, che parlava perfettamente il tedesco, non aveva voglia di correggere quelle convinzioni, anche perché il taxista era un fiume in piena. Inoltre parlava gesticolando e faceva sbandare paurosamente la macchina.

«Non si sa che cosa combinano», stava infatti brontolando. «Ma lei è un giornalista?» chiese poi, vedendo che Johanson non gli rispondeva,

«No. Sono un biologo.»

L'uomo cambiò argomento all'istante e si dedicò alle devastanti conseguenze delle frodi alimentari. Evidentemente aveva visto in Johanson uno dei responsabili di quello spreco. Borbottava contro la verdura geneticamente modificata, i costosissimi prodotti biologici e intanto provocava il suo passeggero. «Ah, un biologo. Lei sa che cosa si può mangiare senza preoccupazioni? Io non lo so. Non si può mangiare più nulla. Non si dovrebbe mangiare più nulla di quello che c'è in commercio. Non bisognerebbe dargli più nemmeno un centesimo.»

L'auto finì sulla corsia opposta.

«Se non mangia, morirà di fame», disse Johanson.

«E allora? Che importanza ha di cosa si muore? Se non si mangia si muore, se si mangia si muore per quello che si mangia.»

«Lei ha senza dubbio ragione. Personalmente, tuttavia, preferirei morire mangiando un filetto piuttosto che nello scontro con quell'autocisterna.»

Per nulla impressionato, il taxista imboccò l'uscita, tagliando tre corsie e sempre procedendo a grande velocità. L'autobotte strombazzò. Alla sua destra, Johanson vide il mare. Procedevano lungo la riva orientale del fiordo di Kiel. Dalla parte opposta, enormi gru svettavano verso il cielo.

Evidentemente il taxista aveva preso male l'ultima osservazione di Johanson, perché non aveva più detto una parola. Attraversarono le strade della periferia con le casette dal tetto spiovente, finché non comparve l'ampio complesso di edifici di cemento, vetro e acciaio che non avevano nulla a che fare con quella tranquillità piccolo borghese. Il taxista svoltò in modo brusco nella zona dell'istituto e si fermò facendo stridere le gomme. Johanson ispirò profondamente, pagò e scese con la consapevolezza di aver vissuto negli ultimi quindici minuti un'esperienza decisamente peggiore di quella sull'elicottero della Statoil.

«Mi piacerebbe proprio sapere che cosa combinano là dentro», disse il taxista. Sembrava quasi che parlasse al volante.

Johanson si chinò e lo guardò attraverso il finestrino del passeggero. «Lo vuole davvero sapere?»

«Sì.»

«Cercano di salvare il lavoro dei taxisti.»

L'altro lo guardò, sbalordito. «Non capita spesso di portare qui dei clienti...» mormorò.

«Ma per farlo la sua macchina deve muoversi. Se finisce la benzina, i vostri rottami potete anche demolirli, a meno che non si possa farli funzionare con qualcos'altro, e quel qualcosa è nel mare. Metano. Combustibile. Stanno cercando di renderlo utilizzabile.»

Il taxista aggrottò la fronte, poi disse: «Sa qual è il problema? Che nessuno ci spiega queste cose».

«C'è su tutti i giornali», replicò Johanson.

«C'è sui giornali che legge lei, caro signore. Nessuno si sforza di spiegarlo a me.»

Johanson era tentato di rispondere. Invece si limitò ad annuire e chiuse la portiera. Il taxi voltò e sfrecciò via.

«Dottor Johanson!» gridò qualcuno. Da un edificio rotondo di vetro uscì un giovane abbronzato e venne verso di lui.

Johanson gli strinse la mano. «Gerhard Bohrmann?»

«No, Heiko Sahling, biologo. Il dottor Bohrmann arriverà con un quarto d'ora di ritardo, sta tenendo una lezione. Posso accompagnarla da lui, oppure magari andiamo a berci un caffè al bar.»

«Lei che cosa preferisce?»

«Per me è lo stesso. Molto interessanti i suoi vermi, sa?»

«Se ne è occupato lei?»

«Ce ne siamo occupati tutti. Venga, conserviamo il caffè per dopo. Gerhard finirà tra poco; intanto andiamo a sentire la sua lezione.»

Entrarono in un foyer molto elegante. Sahling lo condusse lungo una scalinata e sopra una passerella d'acciaio. Per essere un istituto scientifico, il Geomar somigliava fin troppo a un edificio che volesse vincere un premio architettonico, pensò Johanson.

«In genere le lezioni si tengono nell'auditorium», spiegò Sahling. «Ma oggi abbiamo in visita una scolaresca.»

«Lodevole.»

Sahling sorrise. «Per i quindicenni non c'è differenza tra un auditorium e un'aula. Allora abbiamo girato con loro per tutto l'istituto. Avevano il permesso di guardare ovunque e di toccare quasi tutto. Abbiamo tenuto il deposito delle rocce per ultimo. Lì Gerhard racconta loro la storia della buona notte.»

«Su che cosa?»

«Sugli idrati di metano», rispose Sahling. Aprì una porta a vetri. La passerella proseguiva anche oltre. Il deposito delle rocce era grande come la metà di un hangar. L'edificio era aperto verso il molo e Johanson fissò lo sguardo su una nave molto grande, Lungo le pareti erano accatastate casse e apparecchiature. «Qui vengono immagazzinati provvisoriamente i campioni», disse Sahling. «Prevalentemente sedimenti e campioni di acqua marina. Archiviamo la storia della Terra. Ne siamo particolarmente orgogliosi.» Sollevò una mano, facendo un cenno di saluto. Da sotto, un uomo molto alto rispose e tornò a dedicarsi al gruppo di adolescenti. Johanson si appoggiò al parapetto della passerella e lo ascoltò.

«... Uno dei momenti più eccitanti che abbiamo vissuto», stava dicendo il dottor Gerhard Bohrmann. «La benna, a circa ottocento metri di profondità, aveva scavato alcuni quintali di sedimenti infarciti di una sostanza bianca e aveva versato i frammenti sul piano di lavoro. Per essere precisi, solo quello che era arrivato in superficie.»

«Era nel Pacifico», mormorò Sahling. «Nel 1996, sulla Sonne, circa cinquanta miglia marine al largo dell'Oregon.»

«Dovevamo fare in fretta. L'idrato di metano è molto instabile e inaffidabile», proseguì Bohrmann. «Credo che non ne sappiate molto di queste cose, quindi cercherò di spiegarlo in modo che nessuno muoia di noia. Che succede negli abissi marini? Tra le altre cose, c'è del gas. Il metano biogeno, per esempio, si forma in milioni di anni, attraverso la decomposizione dei resti di animali e piante. Quando le alghe, il plancton e i pesci si decompongono, liberano una gran quantità di carbonio organico. Della decomposizione si occupano alcuni batteri. Negli abissi marini, ci sono temperature molto basse e una pressione straordinaria. Ogni dieci metri, la pressione dell'acqua aumenta di un bar. I sommozzatori in carne e ossa arrivano a cinquanta metri di profondità, massimo settanta. Ma è tutto lì. Il record d'immersione con aria compressa è di centoquaranta metri, ma è una cosa che sconsiglio vivamente. Simili tentativi in genere finiscono con la morte. E qui stiamo parlando di una profondità di cinquecento metri! Lì la fisica funziona a modo suo. Per esempio, se una grande concentrazione di metano sale dall'interno della Terra fino al fondale marino, laggiù succede una cosa straordinaria. Il gas si lega con l'acqua fredda degli abissi e diventa ghiaccio. Vi sarà capitato di leggere sul giornale il concetto di ghiaccio di metano. Non è del tutto corretto. Non è il metano a congelare, bensì l'acqua circostante. Le molecole dell'acqua si cristallizzano in minuscole strutture a gabbia, al cui interno si trova la molecola di metano. Comprimono il gas e lo costringono in uno spazio più ristretto.»

Uno studente alzò la mano, esitante.

«Hai una domanda?»

Il ragazzino nicchiò. «Cinquecento metri non è proprio profondo, vero?» disse infine.

Bohrmann lo osservò per alcuni secondi in silenzio, poi disse: «Non sei particolarmente impressionato, vero?»

«Sì, certo. Pensavo solo che... Jacques Picard è stato con un batiscafo nella fossa delle Marianne, ed è profonda undicimila metri. Voglio dire, quella sì, che è profonda. Perché quel ghiaccio non si trova anche laggiù?»

«Tanto di cappello... Hai studiato la storia dei viaggi umani negli abissi. E tu, cosa pensi?»

Il ragazzo rifletté un po', poi scrollò le spalle.

«Ma è chiaro», rispose una ragazza al suo posto. «Laggiù c'è pochissima vita. Dai mille metri di profondità viene decomposta poca materia, quindi c'è poco metano.»

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18 aprile



Vancouver Island, Canada

Non finiva mai.

Anawak sentiva gli occhi stringersi e arrossarsi, le palpebre gonfiarsi e tutt'intorno gli si erano formate rughette che non avrebbe dovuto avere, perché era troppo giovane. Era rimasto a fissare lo schermo finché la testa non gli era caduta sul tavolo. Dopo il delirio sulla costa occidentale, non aveva fatto altro che guardare video, senza peraltro riuscire ad assimilare che una minima parte del materiale. Erano registrazioni la cui esistenza era dovuta a una delle invenzioni più rivoluzionarie nella ricerca sul comportamento: la telemetria animale.

Alla fine degli anni '70, i ricercatori avevano sviluppato un metodo rivoluzionario per osservare gli animali. Fino ad allora, erano state possibili solo osservazioni imprecise sulla zona di diffusione e sulle migrazioni di alcune specie; di conseguenza, sulla vita di molti animali, sui loro sistemi di caccia, sulla riproduzione e sui bisogni di ogni singolo individuo era possibile solo fare speculazioni. Naturalmente c'erano migliaia di animali oggetto di costante osservazione, ma quasi sempre vivevano in cattività e non era possibile trarre conclusioni attendibili sul loro comportamento in natura. Un animale in cattività non faceva nulla di quello che avrebbe fatto se fosse stato in libertà, più o meno come un carcerato in cella non offriva dati significativi sulla vita che avrebbe condotto come uomo libero.

E anche se gli animali venivano studiati nel loro ambiente naturale, le conoscenze restavano insufficienti: o scappavano o non si facevano neppure vedere. Nei fatti, più un ricercatore osservava l'oggetto dei suoi studi, più quello si allontanava. Nel caso di specie meno timide – come gli scimpanzé o i delfini –, gli esemplari osservati regolavano il proprio comportamento sulla base dell'osservatore, reagivano aggressivamente o con curiosità, talvolta diventavano vanitosi e si mettevano in posa; in breve, impedivano ogni conoscenza oggettiva. Quando poi si stancavano, scomparivano nella boscaglia, volavano via o s'immergevano sotto la superficie dell'acqua, dove finalmente si comportavano in maniera conforme alla loro natura. Ma era impossibile seguirli.

Fin dai tempi di Darwin i biologi si erano posti domande cui non avevano saputo rispondere: come sopravvivono gli animali nelle fredde acque dell'Antartico? Come si può osservare un biotopo sotto una coltre di ghiaccio? Come si vede il mondo durante il volo sul Mediterraneo verso l'Africa se non si è su un aereo, bensì sulla schiena di un'oca selvatica? Che cosa capita a una singola ape nel giro di ventiquattr'ore? Come si ottengono dati sulla frequenza dei colpi d'ala, sul ritmo cardiaco, sulla pressione del sangue, sul comportamento alimentare, sulle prestazioni fisiologiche nell'immersione, sull'immagazzinamento dell'ossigeno e sulle conseguenze dell'influsso antropico, come il rumore delle navi o le esplosioni sottomarine, sui mammiferi marini?

Come raggiungere gli animali là dove nessun essere umano poteva seguirli?

La risposta era arrivata con una tecnologia grazie alla quale gli spedizionieri potevano determinare la posizione dei loro mezzi senza lasciare l'ufficio, e gli autisti riuscivano a trovare una strada in città sconosciute. Quella tecnologia era già comunemente acquisita senza che si sospettasse che di li a poco avrebbe rivoluzionato la zoologia.

La telemetria.

Già alla fine degli anni '50, gli scienziati americani avevano elaborato progetti per dotare di sonde alcuni animali. La marina degli Stati Uniti aveva iniziato a lavorare coi delfini ammaestrati, tuttavia i primi tentativi erano falliti per le dimensioni delle trasmittenti, troppo pesanti. A che cosa serviva raccogliere informazioni con un cronotachigrafo sulla schiena di un delfino, se proprio quello strumento ne influenza il comportamento? Era stato un problema irresolubile finché la microelettronica non era andata incontro a una svolta: minuscoli cronotachigrafi e telecamere ultraleggere fornivano ogni informazione sulla vita degli animali, senza che questi ultimi ne fossero infastiditi. Essi vagavano per le foreste oppure s'immergevano sotto i lastroni di ghiaccio del McMurdo Sound portandosi appresso un oggetto high-tech di appena quindici grammi. Gli animali fornivano così informazioni sul loro stile di vita, sull'accoppiamento, sul modo di cacciare e sulle rotte di migrazione. Era possibile volare in mezzo mondo con uccelli di ogni specie. La tecnologia si era evoluta a tal punto che anche gli insetti erano stati dotati di microtrasmittenti che pesavano un millesimo di grammo, prendevano l'energia dalle onde radar e rimandavano onde a frequenza raddoppiata, in modo che i dati fossero ricevibili anche a oltre settecento metri di distanza.

La maggior parte delle misurazioni erano affidate alla telemetria satellitare, un sistema tanto semplice quanto geniale. I segnali dei trasmettitori degli animali venivano ricevuti da ARGOS, un sistema di satelliti dell'agenzia spaziale francese CNES, e poi rispediti alla centrale di controllo a Tolosa e verso Fairbanks, negli Stati Uniti, da dove, nel giro di meno di due ore, venivano diffusi a una serie d'istituti in tutto il mondo.

La ricerca su balene, foche, pinguini e tartarughe marine si era sviluppata come un settore specifico della telemetria, permettendo di osservare il più affascinante, perché quasi inesplorato, spazio vitale della Terra. Cronotachigrafi ultraleggeri immagazzinavano dati provenienti da notevoli profondità: registravano temperatura, profondità e durata delle immersioni, posizione, direzione e velocità. Ma il loro segnale non era in grado di passare attraverso l'acqua, così i satelliti ARGO erano condannati alla cecità rispetto agli abissi marini. Le megattere, che trascorrevano la maggior parte della loro vita lungo le coste della California, rimanevano in superficie al massimo un'ora al giorno. Quindi, mentre gli ornitologi potevano osservare le cicogne migratrici e ricevere dati in tempo reale, i ricercatori marini erano come tagliati fuori non appena le balene s'immergevano. Per poterle studiare davvero, avrebbero dovuto seguirle sul fondo del Pacifico con la telecamera, ma per un sommozzatore sarebbe stato impossibile e i sommergibili erano troppo lenti e poco manovrabili.

Ma gli scienziati dell'University of California di Santa Cruz erano infine riusciti a trovare la soluzione: una telecamera sottomarina del peso di pochi grammi e resistente alla pressione. Avevano fissato lo strumento a diversi cetacei. In breve, si erano scoperti alcuni fenomeni sorprendenti e, nel giro di poche settimane, le conoscenze sui mammiferi marini si erano considerevolmente ampliate. Sarebbe stato fantastico poter seguire balene e delfini con le sonde trasmittenti come si faceva con gli altri animali, ma purtroppo era difficile, se non impossibile. Ecco perché Anawak non poteva avere tutte le informazioni che avrebbe desiderato sull'ambiente delle balene. Nel contempo, però, le informazioni erano anche troppe: nessuno sapeva dire a che cosa bisognasse prestare particolare attenzione, quindi ogni informazione poteva essere importante. Migliaia di ore di filmati e registrazioni audio, misurazioni, analisi, statistiche.

«Progetto Sisifo», come lo chiamava John Ford.

Perlomeno Anawak non si poteva lamentare per la mancanza di tempo: la Davies Whaling Station era stata sollevata dalla responsabilità degli incidenti, ma era chiusa; solo le grandi navi percorrevano la zona costiera occidentale del Canada e del Nordamerica. Quello di Vancouver Island non era stato un incidente isolato; episodi simili erano avvenuti contemporaneamente da San Francisco fino all'Alaska. Nel corso della prima ondata di attacchi, oltre cento piccole navi e barche erano state affondate o gravemente danneggiate. Durante il fine settimana, il numero degli attacchi era drasticamente diminuito, ma solo perché nessuno osava uscire in mare se non su grandi traghetti o cargo. Continuavano a rincorrersi notizie contraddittorie e anche sul numero delle vittime c'erano informazioni poco affidabili. Diverse commissioni e unità di crisi internazionali avevano iniziato il loro lavoro, ma finora l'unica conseguenza era stata la presenza invasiva di velivoli. Ovunque lungo la costa crepitavano elicotteri, in cui stavano pigiati soldati, scienziati e politici che fissavano il mare con uno stato d'animo comune: la perplessità.

Seguendo la prassi di quegli staff, i dirigenti dei settori operativi del team governativo avevano coinvolto specialisti esterni. L'acquario di Vancouver, con Ford al vertice, fu adibito a centro per la raccolta dei dati rilevanti. Erano stati coinvolti praticamente tutti gli istituti e tutte le strutture di ricerca che si occupavano di vita marina. Per Ford era un peso opprimente, un compito di cui faticava a tracciare i contorni. Nel corso del tempo, erano stati elaborati scenari per ogni possibile avvenimento – dal terremoto del secolo all'attacco terroristico –, però non per un caso come quello. Ford non esitò a lungo e a sua volta propose come consulente Anawak, che, tra gli scienziati del Nordamerica e del Canada, meglio di tutti sapeva che cosa passava nella testa di una balena. Perché solo là poteva trovarsi la risposta: posto che le balene fossero animali intelligenti, si doveva pensare che fossero impazzite? E, in caso contrario, cos'era successo?

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3 maggio



Thorvaldson, scarpata continentale norvegese

Clifford Stone era nato ad Aberdeen, in Scozia, secondo di tre figli. Fin dai primi anni di vita, gli era andato tutto male. Era piccolo, mingherlino e animato da una cattiveria che non aveva nulla d'infantile. La sua famiglia lo trattava con distacco, come se fosse una disgrazia, un contrattempo penoso che, se ignorato, sarebbe diventato meno gravoso da sopportare. Clifford non doveva portare la responsabilità del primogenito e non era coccolato come la sorella minore. Non si poteva dire che fosse maltrattato, perché in fondo non gli mancava nulla.

Tranne il calore delle attenzioni.

Non aveva mai provato la sensazione di eccellere in qualcosa.

Da bambino non aveva amici e, intorno ai diciotto anni, aveva cominciato a perdere i capelli. Nessuno sembrava interessato alla possibilità che lui si diplomasse brillantemente. Il suo professore gli aveva comunicato il risultato finale con una certa sorpresa, come se si fosse accorto soltanto allora di quel ragazzo insignificante, con gli occhi neri così penetranti. Ma era un ottimo risultato, così il professore gli aveva fatto un cenno gentile col capo, gli aveva sorriso e nello stesso istante si era dimenticato quel viso magro.

Stone aveva studiato ingegneria, rivelandosi molto portato per quella materia. Finalmente – e all'improvviso – aveva ottenuto quel riconoscimento cui aveva sempre ambito. Ma esso era rimasto confinato nell'ambito della sua vita professionale. Lo Stone privato era pressoché inesistente e non tanto perché nessuno volesse avere rapporti con lui, quanto perché lui stesso non si concedeva una vita privata. Il semplice pensiero di una vita privata gli faceva paura, significava ricadere nella mancanza di considerazione da parte degli altri. L'ingegnere Clifford Stone, con la sua intelligenza brillante, faceva carriera alla Statoil, ma disprezzava per le sue paure l'uomo calvo che la sera tornava a casa da solo, finché arrivò a togliergli ogni diritto all'esistenza.

Il colosso petrolifero era diventato la sua vita, la sua famiglia, la sua ragion d'essere, perché dava a Stone qualcosa che, a casa, lui non aveva mai provato. La sensazione di essere davanti agli altri. Di essere il primo. Era una sensazione nel contempo inebriante e angosciosa, un inseguimento continuo. Col passare del tempo, Stone aveva cominciato a nutrire una vera ossessione per la supremazia assoluta, benché nessun successo lo appagasse veramente, dato che non avrebbe saputo come e con chi festeggiare i trionfi. Quando raggiungeva una meta, era incapace di fermarsi anche solo per un attimo. Andava avanti come un ossesso. Fermarsi un attimo, probabilmente, avrebbe significato gettare uno sguardo a un ragazzo magro, dai lineamenti straordinariamente adulti; un ragazzo ignorato tanto a lungo che, alla fine, aveva iniziato a ignorare se stesso. E non c'era nulla che Stone temesse più di quegli esigenti occhi neri.

Alcuni anni prima, la Statoil aveva creato un settore che doveva occuparsi della sperimentazione di nuove tecnologie. Stone si era reso immediatamente conto delle possibilità insite nell'imminente messa in opera di stazioni automatizzate per l'estrazione. Dopo aver sottoposto ai vertici dell'azienda una serie di proposte, gli era stata affidata la costruzione di una stazione, ideata dalla rinomata industria tecnologica FMC Kongsberg. In quel periodo, le stazioni sottomarine non erano una novità, ma il prototipo Kongsberg proponeva un sistema totalmente innovativo, economico e in grado di rivoluzionare le estrazioni offshore. Il governo ne era a conoscenza e approvava la costruzione, ma non in via ufficiale. E Stone sapeva che l'installazione era stata affrettata. Si temeva che associazioni come Greenpeace, se avessero saputo dell'esistenza di quella stazione, avrebbero richiesto una serie di test supplementari che si sarebbero protratti per mesi, se non per anni. La diffidenza era comprensibile; l'estrazione del petrolio era pur sempre ai primissimi posti nella statistica degli errori umani e delle scelte moralmente discutibili. Nessun groviglio d'interessi tra quelli che percorrevano il pianeta teneva gli ambientalisti col fiato sospeso quanto i cosiddetti interessi vitali dell'industria degli oli minerali. Così l'installazione era rimasta un segreto. Anche quando la Kongsberg aveva pubblicato il progetto su Internet, non aveva detto che la Statoil l'aveva già messo in attività. Laggiù negli abissi lavorava un fantasma che non toglieva il sonno ai suoi costruttori soltanto perché funzionava in automatico.

Stone non aspettava altro. Dopo infinite serie di test, si era convinto di aver escluso ogni rischio. A che cosa sarebbero serviti ulteriori esperimenti? I risultati ottenuti avrebbero soddisfatto anche la tipica insicurezza che lui credeva di scorgere nei colossi industriali a conduzione statale e che disprezzava. C'erano inoltre due fattori che escludevano ogni dilazione. Il primo era l'aumento delle possibilità di Stone di entrare, in quanto precursore tecnologico, negli spaziosi uffici del management board. Il secondo era che la guerra del petrolio, nonostante la strumentalizzazione della politica internazionale e gli attacchi armati per il controllo di Stati sovrani, minacciava di risolversi in una sconfitta per tutte le parti in gioco. In fondo, il problema non era prevedere quando sarebbe uscita l'ultima goccia di petrolio, ma quando l'estrazione non sarebbe più stata economicamente vantaggiosa. Il tipico sviluppo della resa di un giacimento seguiva le leggi della fisica. Dopo la prima perforazione, il petrolio veniva spinto fuori dalla pressione e spesso zampillava per decenni. Col tempo, però, la pressione si riduceva. Sembrava che la terra non volesse più dare il petrolio, che lo trattenesse in minuscoli pori con una pressione capillare. In tal modo, ciò che all'inizio usciva spontaneamente, ora doveva essere estratto con grande spesa. Costava un capitale. La quantità estratta diminuiva rapidamente molto prima che il giacimento fosse esaurito. Sottoterra poteva esserci ancora petrolio, ma, se estrarlo richiedeva più energia di quanta ne procurasse, allora era meglio lasciarlo dov'era.

Era quello il motivo per cui gli esperti dell'energia, alla fine del Secondo Millennio, si erano così clamorosamente sbagliati, affermando che le riserve fossili erano assicurate per decenni. In teoria avevano ragione. La terra era imbevuta di petrolio, ma o non si poteva raggiungere o non c'era proporzione tra le spese e i ricavi.

Questo dilemma, all'inizio del Terzo Millennio, aveva portato a una situazione inquietante. L'OPEC, che negli anni '80 era stata considerata morta e sepolta, festeggiava una rinascita da zombie. Non perché avesse sciolto il dilemma, ma semplicemente perché disponeva delle riserve maggiori. Ai Paesi del mare del Nord, che non volevano farsi imporre il prezzo dall'OPEC, restava solo la possibilità di abbassare drasticamente i costi, sfruttando gli abissi marini con stazioni totalmente automatizzate. L'interesse per le profondità abissali doveva però fare i conti con una serie di problemi, a partire dalle condizioni estreme di pressione e temperatura. Per chi fosse riuscito a risolverli, tuttavia, si sarebbero spalancate le porte di un secondo Eldorado. Non in eterno, è vero, ma sufficientemente a lungo per un settore che viveva grazie a un mondo disperatamente dipendente da petrolio e gas.

Stone, la cui vita era determinata dal desiderio di arrivare primo, aveva preparato una perizia, forzato i tempi per lo sviluppo del prototipo e consigliato la costruzione. La Statoil lo aveva assecondato. D'improvviso, il suo spazio d'azione e il suo credito erano aumentati enormemente. Lui curava in modo esemplare i contatti con le società incaricate dello sviluppo del progetto e otteneva la precedenza assoluta per i desideri e le esigenze della Statoil. Ma era sempre perfettamente consapevole di camminare sul filo del rasoio. Finché non ci fossero state critiche sull'attività del colosso industriale, il consiglio di amministrazione avrebbe visto Stone come un vero conquistatore. Tuttavia, se si fossero dovuti presentare all'opinione pubblica per spiegare situazioni di emergenza, senza dubbio l'avrebbero mollato. L'uomo migliore era sempre il miglior capro espiatorio. Stone sapeva che doveva riuscire a ottenere un posto nel consiglio di amministrazione prima che a qualcuno venisse in mente di sacrificarlo. Bastava che il suo nome fosse collegato una volta soltanto alle idee d'innovazione e di profitto e tutte le porte si sarebbero spalancate. A lui sarebbe bastato scegliere in quale compiacersi di entrare.

Almeno aveva immaginato la faccenda in questi termini.

E adesso stava su quella maledetta nave.

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Tsunami

Il mare era pieno di mostri.

Da tempo immemorabile, esso offriva spazio a miti, metafore e paure primordiali. I compagni di Ulisse erano caduti vittime di Scilla, un orrendo mostro a sei teste. Per intimorire la vanitosa Cassiopea, Poseidone aveva creato Ceto e, per vendetta, aveva scatenato contro Laocoonte — insospettito dal cavallo di legno lasciato sulla spiaggia di Troia — due giganteschi serpenti marini, che avevano avvolto nelle loro spire lui e i suoi figli. Alle sirene si poteva sfuggire soltanto tappandosi le orecchie con la cera. Ondine, sauri di mare, polpi giganti, Vampyroteuthis infernalis popolavano le fantasie più inquietanti. Persino la bestia della Bibbia, quella con «dieci corna e sette teste», era uscita dal mare. Ma proprio la scienza, per sua natura votata allo scetticismo, da quand'era stata ritrovata la latimeria e dimostrata l'esistenza dei calamari giganti, parlava del nocciolo di verità contenuto non solo nelle leggende, ma anche nelle notizie più inquietanti. Per millenni, l'umanità aveva temuto gli abitanti degli abissi, ma poi si era messa con entusiasmo sulle loro tracce. Per lo spirito illuminato non c'era nulla d'inviolabile, nemmeno la paura. I mostri erano diventati i migliori compagni di gioco, gli autentici eppure immaginari animali di peluche della ricerca.

Tranne uno.

Il peggiore di tutti. Esso trascinava nel panico anche la mente più illuminata. Quando si sollevava dal mare e arrivava sulla terra portava morte e distruzione. Il suo nome si doveva ai pescatori giapponesi, che in alto mare non percepivano nulla del suo orrore e poi, al loro ritorno, trovavano il villaggio distrutto e i parenti morti. Avevano trovato per quel mostro una parola che tradotta alla lettera voleva dire «onda in porto». Infatti tsu stava per «porto» e nami per «onda».

Tsunami.

La decisione di Alban di far rotta verso le acque profonde dimostrava che lui conosceva il mostro e le sue caratteristiche. L'errore più grande sarebbe stato quello di cercare l'apparente protezione del porto.

Così fece l'unica cosa giusta.

Mentre la Thorvaldson combatteva col mare grosso, la scarpata e i margini dello zoccolo continentale continuavano a scivolare nell'abisso. Si era generato un vortice che faceva sprofondare ampie superfici del mare. Le onde si allargavano dal luogo della frana, propagandosi con violenza ad anello in tutte le direzioni. Ma sopra il centro di quel cataclisma — un'area di diverse migliaia di chilometri quadrati — erano ancora così piatte da risultare indistinguibili dalle onde di tempesta. Superavano di circa un metro il livello del mare.

Ma poi raggiungevano la zona piatta dello zoccolo continentale.

A suo tempo, Alban aveva imparato che cosa rendeva diverse le onde di uno tunami da quelle normali... In pratica tutto. Normalmente, il moto ondoso dipendeva dai venti. Quando l'irradiazione solare riscaldava l'atmosfera, il calore non si divideva equamente in tutte le zone della superficie terrestre. C'erano venti regolatori che, facendo attrito con la superficie dell'acqua, generavano onde. Gli stessi uragani sollevavano il mare al massimo a quindici metri. Le onde giganti, come le famigerate freak waves, erano eccezioni. La velocità di punta delle normali onde di tempesta era intorno ai novanta chilometri all'ora e l'effetto dei venti era limitato agli strati superficiali del mare. A una profondità di duecento metri era tutto tranquillo.

Le onde dello turami, invece, non venivano create in superficie, ma negli abissi. Non erano il risultato della velocità del vento, ma di una scossa sismica, e le onde generate dalla scossa si muovevano a una velocità molto superiore. E l'energia si diffondeva lungo tutta la colonna d'acqua, sino al fondale marino. In tal modo, le ondate toccavano sempre il fondo, a qualunque profondità. Era tutta la massa d'acqua a entrare in movimento.

Il miglior esempio di cosa fosse uno tsunami era stato mostrato ad Alban non con una simulazione al computer, ma in un modo molto più semplice. Qualcuno aveva riempito d'acqua un secchio di stagno e l'aveva colpito sul fondo, dall'esterno. Sulla superficie si erano formate diverse onde concentriche. I colpi si erano diffusi a tutta l'acqua contenuta nel secchio, che era stata spinta fuori sotto forma di onda.

Gli avevano detto che doveva immaginarsi quell'effetto moltiplicato per milioni di volte.

Semplice.

Lo tsunami generato dallo smottamento viaggiò all'inizio in tutte le direzioni a una velocità che toccava i settecento chilometri all'ora, con creste molto lunghe e basse. Soltanto la prima ondata trasportò un milione di tonnellate d'acqua e una corrispondente quantità d'energia. Dopo pochi minuti, raggiunse il margine della piattaforma continentale. Il fondale marino, divenuto più pianeggiante, frenò l'onda e ne rallentò il fronte, senza però ridurre l'energia trasportata. Le masse d'acqua continuarono a spingersi in avanti e, dato che la velocità era diminuita, cominciarono ad accavallarsi. Più il fondale diventava basso, più lo tsunami si alzava, mentre la lunghezza delle sue onde si restringeva drammaticamente. Sulle loro creste cavalcavano le onde della tempesta. Allorché lo tsunami raggiunse le prime piattaforme di trivellazione sullo zoccolo continentale del mare del Nord, la velocità era scesa a quattrocento chilometri all'ora, ma esso era già diventato alto quindici metri.

Quindici metri non erano un'altezza tale da preoccupare eccessivamente le piattaforme. Almeno finché si trattava di normali onde di tempesta.

Ma le ondate che si propagavano dal fondale marino fino alla superficie dell'acqua, accompagnate da una montagna d'acqua alta quindici metri, avevano l'effetto d'urto di un jumbo jet.

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«Naturalmente sapevo che le focene della Marina avevano ottenuto un grande successo nei primi anni '70 in Vietnam, dove avevano protetto il porto a Cam Ranh Bay, bloccando i sabotaggi sottomarini dei vietcong. E la prima cosa che ti raccontano in Marina, e ne sono orgogliosi. Quello che non ti raccontano sono le circostanze in cui è avvenuto quel successo. Non spendono neppure una parola sullo Swimmer Nullification Program, che in effetti funziona in maniera un po' diversa. Gli animali vengono addestrati a strappare maschera, pinne e respiratore ai sommozzatori nemici. Una cosa già piuttosto brutale in sé, vero? Ma in Vietnam quegli animali avevano anche coltelli lunghi e affilati sul muso e sulle pinne e alcuni esemplari portavano addirittura degli arpioni sul dorso. Quello che attaccava sott'acqua non era più un delfino o una focena, ma una macchina per uccidere. Comunque robetta in confronto a quello che si sono inventati in seguito, quando hanno piazzato sui musi degli animali delle siringhe da conficcare nei sommozzatori, cosa che gli animali facevano diligentemente. Per il sommozzatore colpito, il problema era che la siringa iniettava nel suo corpo tremila psi di anidride carbonica, cioè anidride carbonica compressa. Il gas si diffondeva nel giro di qualche secondo e la vittima esplodeva. In quel modo, dai nostri animali, sono stati uccisi più di quaranta vietcong e per sbaglio anche due americani, ma qualche perdita era normale.»

Anawak aveva la nausea.

«Qualcosa del genere è accaduto negli anni '80, nel Bahrein», proseguì Greywolf. «Era la mia prima volta al fronte. Il mio sistema aveva fatto diligentemente il proprio lavoro.., e io allora non sapevo nulla di MKO. Non sapevo neanche che lanciavano gli animali col paracadute nelle zone che non era possibile raggiungere, anche da tre chilometri di altezza, benché non tutti sopravvivessero. Alcuni erano lanciati dagli elicotteri senza paracadute, da venti metri sul livello del mare. Altri ancora venivano mandati ad attaccare le mine agli scafi delle navi e dei sommergibili nemici. Talvolta si aspettava che gli animali fossero sufficientemente vicini e poi li si faceva esplodere con un comando a distanza. Operazioni kamikaze. L'ho saputo poco tempo dopo.» Greywolf rimase per un po' in silenzio, quindi riprese: «Avrei dovuto smettere già allora, Leon, ma la Marina era la mia casa. Là ero felice. Non so se riesci a capire, ma era così».

Anawak rimase in silenzio. Lo capiva fin troppo bene.

«Mi consolavo col fatto di appartenere ai good guys. Ma il comando generale aveva deciso che sarebbe stato un bene inserirmi nel programma MKO. I bad guys pensavano che avessi un talento eccezionale nel trattare con gli animali.» Greywolf sputò. «Avevano ragione, quei figli di puttana. E io sono stato un idiota perché, invece di prenderli a pugni, ho accettato. Mi ero convinto che la guerra fosse così. Gli uomini cadevano in combattimento, saltavano sulle mine... Allora perché piangere per qualche delfino? Così sono arrivato a San Diego, dove stavano lavorando per dotare le orche di testate nucleari...»

«Come?»

Greywolf lo guardò. «Ti meravigli? Io ho smesso da tempo di meravigliarmi. Ci sono progetti per spedire in giro le orche con quelle cose. Una bomba di quel genere pesa sette tonnellate e un'orca adulta può portarla per chilometri e chilometri prima di raggiungere un porto nemico. È praticamente impossibile fermarla. Non so a che punto siano arrivati, ma credo che, a tutt'oggi, abbiano risolto parecchi problemi. Allora eravamo nel pieno degli esperimenti. In quell'occasione, sono stato testimone anche di un altro esperimento. La Marina si compiaceva di mostrare ai giornalisti dei video nei quali i delfini nuotavano con una mina in bocca e poi la riportavano indietro, anziché far esplodere il culo al comandante del sommergibile cui era destinata. E su queste basi che la Marina sostiene che simili commando killer non esistono. In effetti cose del genere accadono, ma molto raramente. Nella peggiore delle ipotesi, salta in aria una barca con tre uomini, una cosa che la Marina può tranquillamente sopportare. E che comunque non ha impedito di continuare gli esperimenti.» Greywolf fece una pausa, quindi proseguì: «Se non riesci a tenere sulla rotta giusta un'orca nucleare, però, le cose cambiano. La Marina può mandare quante orche vuole, ma deve essere sicura che agli animali non vengano idee stupide. E la strada migliore per evitare idee stupide è... toglierle».

«John Lilly», mormorò Anawak.

«Chi?»

«Un ricercatore. Negli anni '60 ha condotto esperimenti sul cervello dei delfini.»

«Ah, sì, ne ho sentito parlare», disse Greywolf, pensieroso. «In ogni caso, sono stato testimone di come bucavano la testa dei delfini. Era il 1989. Facevano dei piccoli buchi nella scatola cranica con martello e scalpello. Gli animali erano svegli e dovevano essere tenuti fermi da diversi uomini robusti, perché cercavano di saltar giù dal tavolo operatorio. Mi avevano spiegato che non era tanto per il dolore, quanto perché il rumore li infastidiva. In effetti, la procedura appariva molto più dolorosa di quanto probabilmente fosse in realtà. Nei buchi infilavano degli elettrodi per stimolare il cervello con impulsi elettrici.»

«Sì, questo è John Lilly!» esclamò Anawak. «Ha cercato di preparare una sorta di carta geografica del cervello.»

«Credimi, la Marina ha già preparato le sue carte», commentò amaramente Greywolf. «Mi sentivo male, ma ho tenuto la bocca chiusa. Mi hanno mostrato un delfino in una vasca: portava sul dorso un dispositivo, come se avesse addosso delle briglie. Il dispositivo controllava gli elettrodi nella scatola cranica. Riuscivano a guidare l'animale attraverso impulsi elettrici. Era stupefacente, bisogna ammetterlo. Potevano far nuotare il delfino a destra o a sinistra, spingerlo a saltare... Potevano fare in modo che aggredisse e colpisse manichini di sommozzatori oppure bloccavano la sua fuga e lo mettevano in una sorta di standby. Che l'animale lo facesse di sua spontanea volontà o no era assolutamente irrilevante. Quel delfino non possedeva più la minima volontà. Funzionava come un'automobilina telecomandata, era un... giocattolo. Loro erano entusiasti. Si profilava un grande successo. Nel 1991, eravamo in viaggio per il Golfo e avevamo con noi una dozzina di questi delfini telecomandabili; a San Diego, intanto, stavano lavorando sulle orche nucleari. Io continuavo a tenere chiusa la mia boccaccia e cercavo di convincermi che quel progetto non mi riguardava. I miei delfini cercavano le mine, venivano alimentati bene e coccolati. Loro insistevano perché m'impegnassi attivamente con MKO, ma in qualche modo ero riuscito a ottenere una pausa di riflessione, una cosa non particolarmente gradita nell'esercito, perché presuppone che tu pensi! Comunque sia, ci passarono sopra. Superammo lo stretto di Gibilterra per fare una serie di test in mare aperto. All'inizio filò tutto liscio. Poi iniziarono i problemi. Nei laboratori e negli acquari di San Diego il comando a distanza funzionava perfettamente, ma in mare aperto gli animali erano sottoposti anche ad altri stimoli. Gli inconvenienti si accumularono. In natura l'esperimento non funzionava – perlomeno non come i dirigenti del progetto avevano immaginato – e così gli animali divennero un rischio per la sicurezza. Non potevamo riportarli in America e nessuno voleva portarli con sé nel Golfo. Gettammo l'ancora al largo della Francia. Là c'è un istituto partner in cui esperti francesi collaboravano al programma MKO. I francesi non sono i nostri migliori amici, ma ne sanno parecchio di ricerche marine... Insomma speravamo di avere qualche risposta. Ci accolse un certo René Guy Busnel, che mi fu presentato come direttore del rinomato Laboratoire d'Acoustique Animale. Promise d'interessarsi del nostro problema e c'invitò a una visita. Come prima cosa, in quel rinomato laboratorio, ci si presentò un delfino completamente mutilato, bloccato in un dispositivo a morsa. Nel suo dorso era infilato un coltello lungo un braccio. Non chiesi quale scopo avesse, però gli assistenti del laboratorio ci consegnarono una cartolina dell'istituto che loro avevano firmato col sangue del delfino. Nel darcela, ridevano tutti.»

Greywolf si fermò. Dal profondo della sua enorme cassa toracica giunse un suono indefinibile, come un sospiro di rassegnazione.

«Busnel ci parlò degli esperimenti sul cervello e arrivò alla conclusione che qualcosa non andava. Evidentemente i direttori del progetto avevano trascurato un elemento o l'avevano valutato nel modo sbagliato. Ritornati a bordo, si tenne il consiglio di guerra in cui si decise di eliminare i delfini. Li liberammo in mare e, quando si furono allontanati di qualche centinaio di metri, sulla nave qualcuno schiacciò il bottoncino di uno strumento. Avevano inserito delle capsule esplosive negli elettrodi, per impedire che quella tecnologia finisse in mani nemiche. L'esplosivo non era molto potente, ma bastava per distruggere gli elettrodi e la bardatura. Sarebbero morti anche gli animali. Poi continuammo il nostro viaggio.» Greywolf si morse il labbro inferiore. Poi guardò Anawak. «Sono quelli i delfini trovati sulla costa francese. La notizia dell' Island Earth Journal si riferisce a loro. Adesso lo sai.»

«E tu hai...»

«Ho detto loro che ne avevo abbastanza. Cercarono di farmi cambiare idea, ma invano. Naturalmente non volevano vedere scritto nei dossier che il loro miglior addestratore se ne andava per motivi... innominabili. Su una cosa del genere si gettano sempre orde d'imbrattacarte e la televisione rizza le orecchie, sai come vanno queste cose. Tergiversarono. Alla fine ci mettemmo d'accordo: loro mi avrebbero dato un bel mucchio di soldi e io avrei accettato un congedo per motivi di salute. Io ho militato nei SEALS. I miei scompensi cardiaci non esistono. Ma nessuno si sogna di fare domande stupide se vieni congedato per problemi cardiaci. E io ero fuori.»

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