Copertina
Autore Bernhard Schlink
Titolo La nostalgia del ritorno
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Nuova biblioteca 39 , pag. 280, cop.ril.sov., dim. 15x22x2,8 cm , Isbn 978-88-11-66587-8
OriginaleDie Heimkehr
EdizioneDiogenes, Zürich, 2006
TraduttoreUmberto Gandini
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa tedesca , paesi: Germania
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Quand'ero bambino trascorrevo le vacanze dai nonni, in Svizzera. Mia madre mi accompagnava alla stazione, mi faceva salire su un treno e, quando avevo fortuna, trovavo da sedere, e dopo un viaggio di sei ore arrivavo sotto la pensilina dove mi aspettava il nonno. Quando invece avevo sfortuna, dovevo cambiare treno alla frontiera. Una volta mi capitò di salire su quello sbagliato, e piansi fino a quando un controllore gentile mi asciugò le lacrime e mi fece salire dopo un paio di stazioni su un altro treno affidandomi a un secondo controllore, il quale mi consegnò alla stessa maniera a un terzo, di modo che fui avviato alla mèta da una staffetta di controllori.

Me li godevo, quei viaggi in treno: lo scorrere dei paesaggi e delle località, il senso di riparo e di sicurezza che mi davano gli scompartimenti, l'indipendenza. Avevo biglietto e passaporto, da mangiare e da leggere, non sentivo bisogno di nessuno e non dovevo dare retta a nessuno. Sui treni svizzeri avevo nostalgia degli scompartimenti. In compenso, ogni sedile era accanto a un finestrino o sul corridoio, e non dovevo temere di essere schiacciato nel mezzo. Inoltre il legno chiaro dei sedili svizzeri era più bello della plastica rossobruna tedesca, esattamente come il grigio di quei vagoni, la scritta trilingue «SRR-CFF-FFS» e lo stemma con la croce bianca in campo rosso erano più eleganti del verde sporco con la scritta «DB». Ero fiero di essere mezzo svizzero, anche se lo squallore dei treni tedeschi mi era più familiare, esattamente come lo squallore della città in cui mia madre e io abitavamo e della gente che ci viveva.

Quella della grande città sul lago in cui il mio viaggio terminava era una stazione a cul-de-sac. Di conseguenza non dovevo che percorrere il marciapiede sotto la pensilina e non potevo mancare l'incontro con il nonno: un uomo grande e robusto, occhi scuri, cespugliosi baffi bianchi, pelata, giacca di lino chiaro, cappello di paglia e bastone. Irradiava affidabilità. Rimase grande per me anche quando lo sovrastai di statura, e robusto anche quando dovette sorreggersi al bastone. Continuò a prendermi per mano anche quando ero ormai uno studente. Mi imbarazzava, ma non lo trovavo umiliante.

I nonni abitavano sul lago, un paio di località più in là, e quando il tempo era bello il nonno e io non prendevamo il treno ma il battello. Quello che mi piaceva di più era un grande e vecchio piroscafo a ruote, al centro del quale si vedevano le bielle e gli stantuffi d'acciaio. Aveva molti ponti, chiusi e aperti. Noi stavano sul ponte aperto di prora, respiravamo il vento e vedevamo le piccole cittadine spuntare e sparire lungo la riva, i gabbiani volare attorno al battello e, sul lago, le barche a vela sfoggiare vele gonfie e gli sciatori sull'acqua eseguire le loro acrobazie. Qualche volta, oltre le colline, si scorgevano le Alpi e il nonno citava le vette per nome. Mi sembrava una specie di miracolo che la striscia di luce che il sole getta sull'acqua, quieta e brillante in mezzo, sfrangiata lungo i bordi, seguisse il battello. Sono sicuro che il nonno me ne spiegò la ragione ottica. Eppure ancora oggi mi sembra un qualcosa di incredibile. La striscia di luce comincia proprio dove sono io.


2


L'estate dei miei otto anni la mamma non aveva i soldi per comprarmi il biglietto del treno. Trovò, non so come, un camionista che mi avrebbe portato con sé fino alla frontiera per consegnarmi a un altro camionista che mi avrebbe scaricato dai nonni.

Luogo dell'appuntamento era lo scalo merci. Mia madre aveva da fare e non poté restare ad aspettare; mi piazzò con la valigia all'entrata e mi intimò di non muovermi. Rimasi a guardare con apprensione ogni camion che arrivava, e con sollievo e delusione quelli che ripartivano. Erano più alti, facevano più baccano e il loro puzzo nero era più intenso di quanto avessi mai fatto caso prima. Erano mostri.

Non so quanto tempo aspettai. Non portavo ancora un orologio. Dopo un po' mi sedetti sulla valigia, balzando in piedi ogni volta che mi sembrava che un camion rallentasse per fermare. Infine uno si fermò davvero, il conducente sollevò me e la valigia nella cabina e il secondo autista mi issò sull'alta cuccetta dietro i sedili. Mi disse di tenere la bocca chiusa, di non sporgere la testa oltre il bordo del lettino e di dormire. Era ancora chiaro, ma anche quando si fece buio non riuscii ad addormentarmi. All'inizio il conducente o il secondo autista si voltavano ogni tanto, e imprecavano se vedevano la mia testa sporgere sopra il bordo del letto. Poi si dimenticarono di me e così potei guardare fuori.

Il campo visivo era ristretto. Riuscii a vedere il sole tramontare attraverso il finestrino laterale accanto al secondo autista. Delle chiacchiere del conducente e del suo collega capii solo frammenti; parlavano di americani, francesi, consegne e pagamenti. Il rumore uniformemente sussultante mi fece quasi appisolare mentre il camion procedeva sulle grandi lastre che rivestivano allora l'autostrada. Tuttavia l'autostrada finì presto, seguimmo poi strade di campagna sconnesse e scoscese, lungo le quali il conducente non riusciva a scansare le buche e doveva cambiare continuamente marcia. Fu un viaggio agitato.

Il camion continuò a fermarsi, fuori dai finestrini laterali spuntavano facce, il conducente e il secondo autista scendevano, aprivano il portellone di carico, sollevavano e accatastavano roba sul pianale. Alcuni di quei luoghi di sosta erano fabbriche e depositi, altri distributori di benzina, parcheggi o buie stradine di campagna. È possibile che il conducente e l'altro autista unissero il loro incarico principale a certi affari personali, di contrabbando o ricettazione, mettendoci più tempo del previsto.

Arrivammo troppo tardi alla frontiera, l'altro autocarro era già partito e io rimasi seduto per un paio d'ore, nel grigiore dell'alba, nella piazza di una città di cui non ricordo il nome. Attorno a me c'erano una chiesa, alcuni edifici nuovi e parecchie case senza tetti e dalle finestre vuote. Con la prima luce del sole iniziarono i preparativi del mercato; arrivò gente con sacchi, casse e cesti su grandi carri bassi e piatti a due ruote, fra le stanghe dei quali si attaccavano delle cinghie da passare sulle spalle. Per tutta la notte avevo avuto paura del capitano e del timoniere del camion, di un assalto dei pirati, di un incidente. Ora ebbi paura di essere notato da qualcuno che mi ordinasse di fare chissà che cosa, oppure di non essere notato, e che nessuno si occupasse più di me.

Quando il calore del sole cominciò a farmi sudare sulla panchina senz'ombra dalla quale non avevo il coraggio di allontanarmi, un'automobile scoperta si fermò davanti a me, sul bordo della strada. Il conducente rimase seduto, la donna che era con lui scese, caricò la mia valigia nel bagagliaio e mi indicò il sedile posteriore. Non so se fu perché l'automobile era grande, i vestiti del conducente e della donna vistosi, i loro gesti disinvolti e noncuranti, o perché, superata la frontiera, in Svizzera, mi comprarono il primo gelato della mia vita... sta di fatto che, per molti anni, quando sentii parlare o lessi di persone ricche, me le figurai come loro. Che fossero contrabbandieri o ricettatori come i camionisti? Certo è che mi sembrarono poco rassicuranti. Anche se erano entrambi giovani, mi trattarono come un fratellino piccolo e mi scaricarono dai nonni in tempo per il pranzo.

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Non hai niente di meglio da fare? Mia madre era sempre stata bravissima nel farmi venire i rimorsi di coscienza. Era stato uno dei suoi strumenti d'educazione preferiti, quello che aveva fatto di me uno studente scrupoloso, che mi aveva indotto a compiere puntualmente il mio dovere in casa e nell'orto, a distribuire in orario i giornali e a preoccuparmi anche dei crucci di amici e conoscenti. Il privilegio di poter studiare, di vivere in una bella casa con un bel giardino, di disporre dei soldi per il necessario e soprattutto per il superfluo, di avere l'amicizia degli amici e il suo affetto materno: erano tutte cose che avevo dovuto guadagnare. Mia madre aveva risolto il conflitto fra dovere e vocazione nel senso che io dovevo compiere il mio dovere per vocazione.

In seguito, nel ripensarci, mi ci sono anche divertito. Ero convinto d'essermene affrancato da quando avevo rinunciato di buon animo all'abilitazione all'insegnamento universitario. Invece era bastato che mia madre se ne venisse fuori con una di quelle sue domande critiche perché il rimorso riaffiorasse, come prima, e come prima, senza neppure il bisogno che a innescarlo ci fosse una mia mancanza. Mi sentivo colpevole pur senza essere colpevole di niente.

D'altra parte: chi cerca, trova. Anche una colpa che non ha. Nel paradiso californiano mi ero proposto di rimanere un buon amico, se fosse stato necessario, della mia ex amica e di suo figlio. Non se n'era fatto niente. E dire che era stato un ottimo proposito. La mia caotica ex amica Veronika avrebbe sicuramente avuto bisogno di un buon amico, e suo figlio Max, di cui il padre non si occupava e non si era mai occupato, si era affezionato a me nel corso degli otto anni passati sotto lo stesso tetto e lasciava che io gli togliessi più grilli dalla testa di chiunque altro. In ogni caso non avrei fatto pagare a Max il fatto che non mi andava d'incontrare l'uomo con il quale Veronika aveva cominciato una relazione ancora prima che ci separassimo.

E infatti quell'uomo non lo avevo incontrato, ma il suo successore sì. Veronika aveva sostenuto di potere fare a meno della mia amicizia; però quando l'ultimo compagno l'aveva lasciata, aveva scoperto di avere ancora bisogno di me: a quel punto le ero tornato di nuovo comodo. Max, in ogni caso e comunque andassero le cose, era sempre contento di vedermi, e avevamo ripreso la vecchia abitudine di andare ogni due settimane al cinema insieme. Qualche volta non ci limitavamo al film, ma ci aggiungevamo una pizza o una salsiccia al curry con le patate fritte, e quindi una Cola, e poi un'altra ancora.

Così, se non altro ogni quattordici giorni, avevo qualcosa di simpatico da fare. E questo qualcosa di simpatico mi indicò anche una traccia per la mia ricerca sulla fine della storia di Karl. Lo presi come un segno che non era il caso di tormentarmi la coscienza e che potevo proseguire senza rimorsi la mia ricerca. Max e io vedemmo al cinema le avventure di Ulisse con Kirk Douglas, e a me cadde un velo dagli occhi. Quello di cui avevo sentito la mancanza non era il Mar Caspio o il Mar Nero, ma l'Egeo. Il modello sul quale erano stati ricalcati Karl e i suoi compagni - il loro vagare, le loro peripezie, il superamento di certi pericoli e la sconfitta di fronte ad altri, e infine il ritorno a casa di Karl - era l' Odissea.

Da bambino avevo letto la storia di Ulisse in una raccolta di miti greci. A scuola avevo tradotto brani dell' Odissea dal greco in tedesco, e imparato a memoria, in greco, i primi novantasei versi del poema. Polifemo, le sirene, Scilla e Cariddi, Nausicaa, Penelope, la vendetta contro i proci... erano tutte cose che rammentavo. Quella stessa notte rilessi l' Odissea. Cominciai dalla fine. Ero convinto che Ulisse avesse trovato a Itaca, con Penelope, la felicità e la pace. Invece scoprii che aveva dovuto dire nuovamente addio alla moglie e avviarsi, con un remo in spalla, fino a quando era arrivato in una terra i cui abitanti non sapevano che cosa fossero un remo, una nave, il mare e il sale. Da lì era potuto ripartire, però sarebbe poi morto lontano dal mare, e poiché Itaca è un'isola, la sua era stata una morte lontana dalla patria. Questo Tiresia gli aveva predetto nell'Ade, e Omero assicura alla fine dell' Odissea che la profezia di Tiresia si era avverata.

Dalla fine dell' Odissea l'indicazione di Omero mi riportò al canto, il decimo, in cui Ulisse scende negli Inferi, e apprende il futuro da Tiresia. Nello stesso canto egli sbarca nella terra dei Lestrigoni, giganti che divorano molti dei suoi compagni e ne distruggono le navi, ma prima di allora aveva trovato ospitalità fra i quattordici componenti della famiglia di Eolo, su un'isola galleggiante, e ancora prima aveva dovuto indurre con la forza i compagni a proseguire perché, nutriti di loto dai Lotofagi bonari, avevano dimenticato la patria. Ulisse, nell'Ade, non parla solo con Tiresia, ma anche con sua madre. Più tardi i suoi compagni rubano manzi e pecore del dio del sole, e per punizione muoiono durante una tempesta, mentre Ulisse naufraga sull'isola di Calipso, dove rimane per circa nove anni prima che lei gli permetta di proseguire il viaggio.

Tra un episodio e l'altro si collocano gli incontri con il ciclope Polifemo e l'allegro anno in compagnia della maga Circe, la seduzione da parte del dolce canto delle sirene e il passaggio fra i gorghi di Cariddi e le rocce di Scilla. Era probabile che l'autore del romanzo ne avesse tratto lo spunto per altre avventure, descritte nelle pagine non conservate. Per esempio: dall'incontro con Polifemo avrebbe potuto trarre una storia in cui Karl e i suoi compagni finivano sepolti in una caverna dalla quale sarebbero poi fuggiti con un'astuzia all'accorrere delle squadre russe di salvataggio. Circe sarebbe potuta diventare una maga sciamanica siberiana. E le sirene, le componenti del coro femminile del KGB. I gorghi e le rocce avrebbe potuto conservarli tali e quali, ma erano forse diventati un impervio passo di montagna e un'alta cascata. L'autore si era divertito nel variare sul tema. Aolski non era più il re dei venti ma il padrone di un aereo, e poteva avere aiutato Karl a procurarsi a sua volta un velivolo, con il quale i suoi compagni potevano avere combinato le stesse scemenze dei compagni di Ulisse con la bisaccia dei venti di Eolo. Non comparivano giganti nel romanzo, è vero, ma le forze della natura vi imperversavano come se fossero giganti. Karl non incontra la madre nell'Ade ma in sogno, e Gerd non ruba i manzi e le pecore del dio del sole, ma probabilmente le monete del proprietario del pozzo. Tempesta di sabbia anziché tempesta in mare... Ma perché l'autore non aveva scelto come ambientazione il Mar Caspio o il Mar Nero? I nove mesi in compagnia di Kalinka invece dei nove anni insieme a Calipso erano un adeguamento ai ritmi più veloci della nostra epoca o dipendevano dalla circostanza che l'autore aveva scritto il romanzo dopo la guerra?

Lo spunto per la mano in cancrena di Jürgen poteva essere venuto dal piede in cancrena di Filottete, mentre nel vecchio fedele riviveva il porcaio Eumeo, la prima persona in cui Ulisse s'imbatte quando torna a Itaca e la stessa che lo aiuta infine nella lotta contro i proci. Questo o un simile aiuto sarebbe stato tuttavia difficile aspettarselo dal vecchio fedele di Karl, quasi cieco, quasi sordo e malfermo sulle gambe. Ma nel complesso, nel romanzo c'erano troppe cose che non somigliavano più al modello perché il modello potesse offrirmi la soluzione finale dell'enigma. Non c'era un Telemaco, per esempio, ovvero un figlio di Karl. La Penelope di Karl non aveva resistito ai proci ma ne aveva scelto uno, e generato con lui una, se non addirittura due figlie. L'uccisione del rivale non avrebbe potuto assumere la stessa evidenza dell'infuriare di Ulisse fra gli impudenti che avevano infastidito, molestato e derubato Penelope. No, nella casa al numero 58 o 38 della Kleinmüller o Kleinmeyerstrasse non c'era stata alcuna strage.

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Una sera d'estate, al rientro da un viaggio, trovai Max davanti a casa. La camicia infilata disordinatamente nei calzoni, i capelli scompigliati e un'aria smarrita e infelice.

«Che ci fai qui?»

«Io... la mamma...»

Indicò la valigia accanto al cassonetto di cemento in cui erano infilati i bidoni dell'immondizia. «Mamma dice che per un po' devo abitare da te.»

«Ha un nuovo amico?» Scossi il capo. «Non è possibile, Max. Vieni, ti riaccompagno a casa.»

Non disse niente quando lo presi per mano, tirai su la valigia, raggiunsi la macchina, ci salii con lui e la misi in moto. «È pazza. Sarei potuto rimanere via ancora per chissà quanti giorni.»

«Ha telefonato alla casa editrice e le hanno detto che saresti rientrato stasera.»

«Non possono averglielo detto. Non sapevano quando sarei rientrato. Sapevano solo che domattina sarei stato in ufficio.»

Percorremmo l'autostrada. Il sole era già tramontato dietro i monti del Palatinato, ma il cielo era ancora luminoso. Ero stanco del viaggio, avrei voluto sedermi per un po' sul balcone e poi andare a letto presto. Max mi faceva pena. E facevo pena a me stesso.

«Mamma non è in casa.»

«Come?»

«La mamma è volata in Florida con il nuovo amico. Lui è di quelle parti. La mamma ha detto che se non mi vuoi da te, domenica potrai portarmi da Inge. Ma fino a domenica Inge sarà ancora via. È in vacanza.»

Era martedì. Mi aspettavano un mercoledì e un giovedì fitti di lavoro in casa editrice, venerdì sarei dovuto andare a Monaco di Baviera, da dove mi sarei poi concesso un weekend sul lago di Kiem. «E come la mettiamo con la scuola?»

«In che senso?»

«Come pensi di arrivarci la mattina e di rientrare a mezzogiorno?»

«La mamma non l'ha detto.»

Raggiunsi lo snodo autostradale, feci un giro intero dell'anello, poi un altro ancora, e infine mi ritrovai, per la seconda volta quel giorno, sulla via di casa. Max, vicino a me, non diceva niente. «Da quando mi aspettavi davanti a casa?»

«Mi ci hanno lasciato alle due. Perché il loro aereo partiva alle cinque. Ho incontrato dei bambini, abbiamo giocato.»

«Hai mangiato qualcosa?»

«No. La mamma ha detto...»

«Non voglio più sentire che cosa tua madre ha detto o non ha detto.»

Passai dal McDonald's e comperai hamburger e patatine col ketchup. Poi, a casa, ci sedemmo al tavolo di cucina senza sapere di che cosa parlare, né io né lui.

«Domani mattina dovremo alzarci presto. Io devo essere in ufficio alle otto e prima dovrò accompagnarti a scuola.»

Annuì.

«Ti preparo il letto. Hai tutto? Spazzolino da denti, pigiama, biancheria pulita per domani, i quaderni e i libri di scuola?»

«La mamma ha... » Gli venne in mente che non volevo sentir dire che cosa aveva detto Veronika. Gli aprii la valigia, gli preparai il pigiama e la roba per l'indomani e, visto che non l'aveva, gli diedi uno spazzolino. Mentre si lavava i denti mi preparai da dormire sul divano e sistemai il mio letto per lui. Ci si infilò subito e mi chiese: «Mi racconti una storia?»

Si possono ancora raccontare favole a un bambino di die- ci anni? Ci provai con la leggenda di Hildebrandt, il quale torna a casa dopo molti anni e incontra un altro cavaliere. E Hadubrandt, il figlio di Hildebrandt, il quale non conosce suo padre esattamente come quello non conosce lui. Ora è lui il re del paese ed è indignato perché lo straniero non lo saluta con la deferenza dovuta a un sovrano. I due si battono fino a non poterne più. A quel punto Hildebrandt chiede a Hadubrandt il nome suo e quello della sua famiglia, e scopre di essere suo padre. Però Hadubrandt non gli crede; è convinto che suo padre sia morto e che Hildebrandt sia un impostore. E quindi riprendono a battersi.

«E poi?» La vecchia leggenda aveva avvinto anche Max, viziato dai cartoni animati e dal cinema, tanto che volle sapere come andava a finire.

«Hildebrandt riesce a evitare di essere colpito a morte solo uccidendo Hadubrandt.»

«Ahi.»

«Già. Un giorno anche i cantastorie che tramandavano la leggenda si accorsero che questo finale non piaceva. E così, da allora, si misero a raccontare che i due si riconoscono, si abbracciano e si baciano.»


7


Cominciò così la mia vita con Max. Disdissi il viaggio a Monaco. Il mercoledì, il giovedì e il venerdì l'accompagnai a scuola in macchina e sempre in macchina andai poi a prelevarlo. Durante il fine settimana ci esercitammo a fare il tragitto sulla linea per metà tranviaria e per metà ferroviaria che collega le nostre due città, e i dieci minuti di strada a piedi dal capolinea, oltre il ponte, fino alla scuola. Gli feci imparare anche il tragitto dalla scuola fino alla casa editrice, dove Max mi raggiunse poi, dopo la scuola, mangiò con me alla mensa e fece i compiti accanto a me in ufficio. Lunedì, fra la posta, c'era una lettera di Veronika che annunciava il suo ritorno dopo sette settimane. Sperai che la sensazione di Max che il mio ruolo di surrogato di genitore non fosse una cosa ovvia, e che meritasse quindi un buon comportamento da parte sua, si protraesse per tutta la durata delle sette settimane.

Non andò così. Max divenne di giorno in giorno più vivace, capriccioso e pretenzioso. Si trovò un ufficio vuoto dicendo che ci avrebbe fatto i compiti meglio che da me. Poi mi fece capire che avrebbe preferito giocare con i bambini che aveva incontrato mentre mi aspettava piuttosto che fare i compiti. Quando finivo di lavorare, voleva che andassi con lui in piscina, al cinema o in un albergo: traeva una particolare e singolare soddisfazione dal sedersi nella hall di un albergo per farsi servire una Coca Cola.

In compenso, mentre lui diventava più inquieto, la mia vita divenne più tranquilla. Avevo meno pretese. Lavoravo di meno e me la cavavo lo stesso. Lasciai perdere le femmine di Ulisse e smisi di cercare: le ombre di grandi donne, la tentazione della morte, i bei capelli e gli abiti profumati, una ragazza disponibile e la sua comprensiva mamma. Uscivo più raramente la sera e familiarizzai con il mio appartamento e la cucina. La sera alle nove Max era a letto, e dopo avere ascoltato una storia si addormentava. E io non ero seduto in un qualche ristorante in attesa del cibo o del conto, ma avevo già mangiato e rigovernato, e mi avanzavano due o tre ore per fare quello che volevo.

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Nell'estate del 1989 mia madre andò in pensione e, per l'occasione, le regalai un soggiorno di una settimana da passare insieme nel Ticino. Quando ero bambino mi aveva raccontato di un viaggio fatto da quelle parti, della lenta e silenziosa cremagliera che saliva da Locarno fino al santuario, del piazzale davanti al santuario con vista della città e del lago azzurro, dei tavolini e delle sedie sulla riva di Ascona dove si udiva la musica eseguita al pianoforte negli alberghi, dell'escursione in battello verso isole dagli incantevoli giardini, delle valli impervie in cui ululavano gli ultimi lupi. Quando le proposi quel dono, non mi sarei stupito se l'avesse rifiutato. E invece lo accettò.

Il rapporto fra madri che devono allevare da sole il loro figlio e questi figli unici ha sempre qualcosa di analogo al rapporto fra coniugi. Per questo è raramente felice: può essere freddo, afflitto dalle querimonie e aggressivo quanto un matrimonio, ed essere come questo una lotta di potere. Come nel caso nostro e in altri casi analoghi, non c'è nel rapporto fra madre e figlio un terzo elemento, un marito-padre e dei fratelli, che possano sviare e disperdere una parte delle tensioni che inevitabilmente insorgono in una relazione così stretta. Il rapporto si fa più disteso solo quando il figlio lascia la madre, ma fin troppo spesso questo rapporto più disteso è in realtà un non-rapporto, come quello della maggior parte dei coniugi dopo un divorzio. Può però anche scaturirne un vincolo pacato, confidenziale, vivo, e dopo gli anni in cui mi ero mosso con mia madre lungo i binari consolidati dall'abitudine e solo raramente complicati e difficili, ma nel corso dei quali mi ero sempre anche un po' annoiato, quella settimana in Ticino mi si prospettò come una promessa, una possibilità di come il nostro rapporto sarebbe potuto diventare.

Non ci godemmo solo ciò che vedemmo e facemmo, ma mia madre si abbandonò al viaggio con una gioia tale che qualche volta pensai fossero spariti per sempre o quasi dal suo volto la ripulsa e il disprezzo. Parlammo dei suoi progetti per gli anni della pensione e io del mio sogno di avere una casa editrice tutta mia: lei piena d'interesse per i miei argomenti, e io per i suoi. Mi stupii del modo chiaro e intelligente con cui, in base all'esperienza della vita d'ufficio, guardava alle probabilità di riuscita e ai problemi che avrebbe comportato la realizzazione del mio sogno.

Visto che le cose andavano così bene, una sera, sulla riva di Ascona, le domandai: «Non mi hai mai raccontato come te la sei cavata durante la guerra... E se lo facessi ora?»

Tentò di defilarsi: «Ma cosa vuoi che ci sia da raccontare!?»

«Vieni dalla Slesia, hai conosciuto Breslavia e il Gauleiter Karl Hanke, la difesa contro i russi, la loro conquista della città, il vostro esodo forzato. Mi piacerebbe sapere da te com'è andata.»

«Perché?»

Le riferii dei progressi che avevo fatto nella ricerca sulla storia di Karl. «Mi ha condotto dalle tue parti.»

«Le mie parti? Io vengo dall'Alta Slesia. Breslavia e Karl Hanke sono... erano della Bassa Slesia.»

«Lo vedi che devi dirmi qualcosa di più? Io non so nemmeno distinguere fra Alta e Bassa Slesia.»

Rise. «Lo vedi che non ho niente da dirti? La differenza fra l'Alta e la Bassa Slesia è più o meno la meno importante di tutte le cose.» Aspettò sperando che ridessi anch'io e che il capitolo risultasse così chiuso. Poi alzò le spalle in un gesto di resa e di rassegnazione. «Ci siamo trasferiti nell'autunno del 1944 da Neurade a Breslavia dove mio padre avrebbe dovuto riassumere un incarico presso l'azienda elettrica municipale che aveva già avuto in precedenza e il cui nuovo titolare era venuto a mancare, e non chiedermi di che incarico si trattasse. Papà era ingegnere, già allora in pensione, ma lo avevano richiamato in servizio per le esigenze dell'azienda. Quando Breslavia è stata dichiarata una fortezza, ha ugualmente ottenuto il permesso di lasciare la città assieme a mia madre. Durante la fuga sono stati colpiti dalle pallottole di un aereo sceso a mitragliare a volo radente.»

«E tu?»

«Io?» Mi guardò come se non capisse come mai le rivolgevo quella domanda. «Io ho... io sono rimasta a Breslavia fino alla fine della guerra e subito dopo sono venuta qui.»

«Dunque hai vissuto dall'inizio alla fine il periodo in cui la città è stata dichiarata un caposaldo? Com'è stato? Che impressione ti ha fatto Hanke? Hai conosciuto i suoi collaboratori? Sei mai stata nel suo bunker? Hai...»

Rise di nuovo e mi fermò con un gesto. «Troppe domande tutte insieme!» Poi però si guardò dal rispondere anche a una sola. Rimanemmo seduti a guardare il lago. Negli alberghi non c'erano più pianisti. Tuttavia su una barca a remi alcuni giovani cantavano canzonette italiane, le cui melodie risuonarono fino a noi, prima lievi, poi più forti, miste a risate e a richiami, per tornare infine di nuovo lontane e appena percettibili.

«Il posto peggiore era la pista di atterraggio. Dovevamo sollevare, tirare, spingere... tra intimazioni, urla e improperi. Non dimenticherò mai il rumore frullante, segante, crepitante, ronzante degli aerei e delle mitragliatrici. I colpi rimbalzavano sul selciato e noi dovevamo correre per raggiungere un qualsiasi portone. Poi però quelle case sono state fatte saltare in aria perche la pista disponesse d'una sufficiente larghezza, e il tragitto fino ai portoni degli altri edifici è diventato sempre più lungo. Quando correvamo, gli aerei ci davano letteralmente la caccia, e se i giovani ce la facevano, i vecchi... Una sera sono tornata a casa, e metà della casa non c'era più. Ho visto da lontano le tendine svolazzare al vento, rose rosse su fondo giallo, mi sono stupita e ho pensato: come mai assomigliano alle mie? La notte dopo c'è stato un attacco aereo con bombe incendiarie, e la mattina seguente le tendine sono bruciate e con loro tutto quello che c'era nell'appartamento. In piedi davanti a casa, vedevo attraverso le occhiaie delle finestre il cielo azzurro.»

Mamma si girò verso di me e mi fissò. «O preferisci sentire di come i nostri soldati forzavano le nostre case in cerca di oggetti di valore? O di come facessero feste con le puttane nelle cantine? O della bomba che ha colpito l'ufficio postale e ha dilaniato una donna, la testa di qua, una gamba di là, più in là ancora le budella, tanto che le sue parti si sarebbero potute spedire in una piccola cassa? O di come una bomba colpì un carretto, uccise il cavallo e scaraventò il soldato che lo guidava al di là la strada, nel giardino davanti a una casa? E quando lui, stupito di essere ancora intero, si è alzato e mi ha sorriso, è crollata la casa e lo ha sepolto sotto di sé. O preferisci sapere dei lavoratori stranieri, i più miseri dei miseri, abbandonati a sé stessi e perduti quando venivano feriti?»

Aveva parlato sempre più in fretta e a voce sempre più alta, tanto che gli ospiti seduti ai tavoli accanto si voltarono verso di noi. Mi staccò gli occhi di dosso e tornò a guardare il lago. «Eppure la primavera è venuta lo stesso. Quando mi sono svegliata, il giorno del mio compleanno, c'era silenzio, ho sentito un merlo cantare, in giardino fiorivano i bucaneve e sul lillà spuntavano i primi boccioli. Era una bella mattina, benché non si vedessero, ovunque, che rovine e macerie. Anche la pioggia era bella. Durante la settimana santa è piovuto per la prima volta dopo tanto tempo. La pioggia è cominciata di notte, io dormivo in una cantina aperta verso il giardino e sono stata svegliata dallo scrosciare della pioggia. Sono rimasta distesa ad ascoltare e non avrei voluto riaddormentarmi perché era così bello. Una mite, dolce pioggia di primavera, e nell'aria l'odore della polvere bagnata.» Dopo un po', un'altra alzata di spalle: «Ecco com'era».

«Grazie. E stata solo la razione odierna o varrà per sempre?»

Mi guardò con un'espressione sollevata e perfino un po' birichina. «Per sempre? Come posso saperlo se sarà per sempre?»

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