Autore Ingo Schulze
Titolo Peter Holtz
SottotitoloAutoritratto di un uomo felice
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2019, Narratori , pag. 430, cop.fle., dim. 14x22x3 cm , Isbn 978-88-07-03370-4
OriginalePeter Holtz. Sein glückliches Leben erzählt von ihm selbst
EdizioneS. Fischer, Frankfurt am Main, 2017
TraduttoreStefano Zangrando
LettoreCristina Lupo, 2020
Classe narrativa tedesca , paesi: Germania , storia: Europa












 

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Pagina 13

LIBRO I - Primo capitolo



Nel quale Peter si reca in un ristorante senza avere un centesimo in tasca e spiega perché lo reputi giusto. Riflessioni sul valore del denaro nel socialismo.


Quel sabato del luglio 1974, otto giorni prima del mio dodicesimo compleanno, non so ancora quanto sono felice e fortunato! Sono seduto sulla terrazza di un locale turistico vicino a Waldau e aspetto che qualcuno convinca la cameriera della bontà delle mie argomentazioni o che saldi il mio conto di quattro marchi e cinquanta Pfennig. Le ho già spiegato più volte che non ho soldi, né nelle tasche dei pantaloni né a casa, il collegio Käthe Kollwitz di Gradow sull'Elba.

"I soldi non sono importanti!" dico, aggiungendo immediatamente: "Finché sono un bambino la nostra società deve provvedere a me, non importa se in collegio o durante una gita al Mar Baltico".

Propongo più volte alla cameriera di pagare con un po' di lavoro il piatto di stinco di maiale con patate, crauti e senape e la gazzosa che ho consumato, basta che mi affidi un compito. Ma non voglio metterla nei guai con un'accusa di sfruttamento di lavoro minorile, le dico. Sarebbe invece più ovvio che mi abbuonasse il pranzo. "Perché la nostra società dovrebbe darmi dei soldi," chiedo, "se questi stessi soldi prima o poi finiscono di nuovo nelle sue mani?"

"Nelle mani di chi finiscono i soldi?" grida la cameriera, la cui voce si alza a ogni parola.

"Della società," rispondo.

"Tu sei uno svitato!" La cameriera si picchietta più volte la tempia con l'indice. "Non hai mica tutte le rotelle a posto!" Afferra la grossa treccia bruna che le pende obliqua sul décolleté e se la lancia dietro le spalle. Mentre se ne va, la treccia oscilla fra una scapola e l'altra e si ferma soltanto quando lei si appresta a salire i tre gradini d'ingresso della sala interna del locale.

Come sempre nelle situazioni complicate, cerco di restare lucido e reprimere la delusione per come ancora oggi possono essere ottusi persino gli adulti. Che cosa farebbe adesso Paul Löschau? Alzo lo sguardo al cielo. Osservare le nuvole, ha detto, è il miglior modo per riprenderti quando ti manca la forza per studiare. Nella forma delle nuvole abbiamo sempre scorto qualcosa. Sopra le nostre teste sono passati ricci giganteschi, granchi, lepri e orsi. Ma ci sono stati anche giorni nei quali vi abbiamo avvistato gli antesignani della nostra causa, Ernst Thälmann o Rosa Luxemburg, una volta perfino Lenin con il mento proteso!

Oggi però non c'è una sola nuvola che abbia voglia di trasformarsi. Dovrei forse filarmela e punto? Ma in questo modo anteporrei i miei interessi a quelli della società. Dopotutto la cameriera considera ancora il proprio egoismo una forma di vigilanza!

I clienti nel frattempo affluiscono in tale quantità che molti fra quelli in attesa vengono allontanati dalla porta d'ingresso da un cameriere che poi li fa mettere in fila. Voglio tentare un'ultima volta di convincere la cameriera!

"La fila inizia dietro!" esclama un uomo. Per poco non inciampo, tanto è brusco nel prendermi per il gomito e tirarmi. "Dietro, in fondo!" aggiunge la donna accanto a lui.

"Devo parlare con la mia cameriera," dico. "Ho già mangiato, ma la cameriera insiste nel voler farmi pagare..." Guardo le persone una per una, ma nessuna guarda me. Quando infine inizio a illustrare come sia assurdo usare il denaro nel socialismo, la donna stringe gli occhi, mi guarda e indica con il pollice dietro le sue spalle. "In fondo," ripete.

Poiché la cameriera non si fa vedere, non trovo altre soluzioni e mi piazzo davanti al cameriere.

"Cos'è, non ci vedi?!" Mi spinge da parte e si allontana alla svelta nelle sue scarpe nere laccate.

"In questo modo, non troverai mai un posto qui," dice sottovoce un uomo anziano con i pantaloni beige tenuti ad altezza ombelico da una sottile cintura bianca.

"Non sto cercando di avere un posto..." dico, ma poi lo lascio perdere, perché il cameriere sta tornando, il vassoio vuoto sotto il braccio. Camminandogli accanto glielo chiedo di nuovo.

"Il ragazzo ha qualcosa che gli sta a cuore!" dice l'uomo gentile con i pantaloni beige a vita alta uscendo dalla fila. "È suo dovere rispondergli!"

Quando ricompare, il cameriere mi sbatte un libro sul petto e tira fuori una penna.

"Si chiama Pietro e torna indietro, da me personalmente, chiaro?" Invece di guardarmi osserva l'uomo gentile, che è rientrato nella fila dei clienti in attesa.

"Adesso devi anche avere coraggio e scrivere!" dice l'uomo gentile.

Leggo lentamente le lettere dorate impresse sulla copertina in pelle fino a comporre le parole "Libro degli ospiti". Non essendoci sedie libere, mi appoggio alla ringhiera bianca e rossa che dà sulla strada, lasciando ai miei piedi lo zainetto che ho portato per il campeggio. Le prime pagine sono state strappate, le altre hanno l'aspetto di fette morsicate. Per questo il taccuino inizia con alcune foto di invitati a feste di nozze, due di esse persino a colori. Segue un piccolo testo. Non è lungo, cerco di formare le sillabe per poi unirle. La mia dislessia e la mia disgrafia sono marcate, c'è scritto anche nell'ultima pagella, il giudizio riguarda soprattutto le verifiche orali. Non riesco a decifrare tutte le frasi. Quando ricomincio dall'inizio, un po' alla volta capisco che si parla della toilette delle donne, e questo mi facilita la comprensione. Non c'era un solo gabinetto utilizzabile! Leggo la descrizione della circostanza con crescente indignazione. La conclusione recita: non ha osato soddisfarci neppure il suo "bisogno piccolo". La firmataria Dagmar Freudental esige una risposta dal collettivo del ristorante. Sotto c'è un indirizzo. Mi impressionano l'oggettività e la dovizia di dettagli del suo scritto. Anch'io vorrei esprimere così i miei pensieri. Ma siccome mi sono esercitato assiduamente nel formulare gli slogan per il Primo maggio, adesso posso impiegarli come mi pare: "Viva la soddisfazione dei bisogni primari!". Stinco di maiale e gazzosa, ne sono convinto, sono stati la scelta giusta. "Abbasso l'egoismo personale, abbasso la proprietà privata!" è la mia seconda frase. Il collettivo del ristorante metterà le mie rivendicazioni in riferimento alla situazione concreta, ne discuterà, prenderà atto della propria condotta manchevole e la correggerà.

Sto per scrivere il mio indirizzo quando mi si para davanti una persona. Una giovane cameriera mi porge un bicchiere pieno fino all'orlo.

"Limonata Lemon," dice. "Offre la casa!"

Vorrei chiederle il significato dell'espressione che ha usato, ma siccome è così premurosa da reggere il libro degli ospiti mentre io afferro il bicchiere, bevo la limonata Lemon in un sorso.

"Fai con calma," dice, "e non scrivere cose brutte su di noi."

"Dobbiamo tutti imparare," rispondo restituendole il bicchiere vuoto. "Non dobbiamo mai smettere di imparare." Lei guarda in basso. Riflette su quello che ho detto invece di rispondere in modo avventato. Le porgo la mano - e mi cade la penna. Si china rapidamente. "Grazie!" aggiungo, afferro la sua mano destra e la stringo forte.

Poi scrivo l'indirizzo del Käthe Kollwitz e firmo con nome e cognome. Mi accorgo troppo tardi che manca la formula di saluto. Tra indirizzo e firma comprimo le parole "Con stima socialista" e chiudo il taccuino, felice di aver condotto a buon fine l'intera faccenda. Passo rapidamente accanto alla fila dei clienti in attesa. Tutti perseverano nella stessa posizione di prima. Non trovo più soltanto il mio amico con i pantaloni beige. Non posso certo affermare di aver impartito una lezione agli altri, ma in ogni caso ho impiegato il mio tempo meglio di loro. E qualcosa di simile deve passare anche per la loro mente, visto che è in arrivo un temporale.

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Pagina 52

LIBRO II - Quarto capitolo



Nel quale Peter incontra un cristiano. Anorak o parka. Peter fa sì che si chiariscano i rapporti.


Benché i genitori di Ulf ci abbiano minacciato di chiedere conto a Beate e Hermann per aver trascurato il dovere di sorvegliarci - durante il viaggio di ritorno Ulf ha vomitato più volte nelle terrine vuote -, non vogliono ostacolare l'amicizia fra Ulf e me. Andreas in un primo momento era disperato. Uno dei tizi barbuti ha versato della birra sui tasti della sua Weltmeister. Ma l'amico capelluto di Olga, Holger, ha presentato Andreas a un gruppo musicale, e adesso lui suona con loro.

"Quest'opportunità la devo a te!" dice spesso Andreas.

Holger indossa un anorak che Olga chiama "parka". Parka sembra una parola affine a party, il che di per sé non mi disturberebbe. Dopotutto anche partito è una parola simile a party. Sulla manica sinistra, però, c'è un contrassegno nero-giallo-oro. Quando gli chiedo se l'immagine era troppo piccola per contenere il nostro emblema della Ddr, Holger dapprima non risponde. Olga tuttavia mi dà ragione.

Qualche giorno dopo faccio per appendere il mio anorak sul parka di Holger, ma i due giacconi scivolano dal gancio. Li tiro su, e così facendo noto una sottile linea rossa. Sulla parte sinistra del bavero, più o meno nel punto dove si porta l'insegna del partito, c'è scritto: "Gesù vive!"

"Sei cristiano?!" chiedo a Holger, esigendo una spiegazione. Lui e Olga alzano la testa dai compiti di lei. Come mi appare diverso adesso il suo sorriso, quando dice forte e chiaro: "Sì!".

"Stai dicendo sul serio? Non sai che cos'hanno combinato i cristiani in giro per il mondo?"

Finalmente capisco a che gioco si sta giocando qui! Cristiani che indossano parka con una bandiera della Repubblica Federale. Questo spiega tutto.

"Avete un bel coraggio a mentirmi! Credevo che ai cristiani non fosse permesso mentire."

Olga rotea gli occhi, Holger si porta una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

"Se ti mollo uno schiaffone," chiedo a Holger, "tu poi mi porgi l'altra gota?"

"Guancia," mi corregge Olga, "si dice 'guancia'!"

"Tu allora mi porgi l'altra guancia?"

"I cristiani l'hanno sempre fatto," dice Holger. "Hai un motivo per picchiarmi?" Lo chiede con tranquillità, come se avesse confidenza con simili discussioni.

"Di cos'è che hai paura?" mi chiede Holger perseverando nel suo ipocrita sorriso da cristiano, come se dovesse dimostrarmi che, i cristiani non ce l'hanno con nessuno, neanche con quelli che li insultano.

"Di paura non ne ho, ma ho una coscienza di classe!"

Holger guarda Olga chinando il capo di sbieco.

"Sta dicendo sul serio," dice lei.

Perché diamine Olga non la pensa come me? Perché non vuole riconoscersi nel nostro socialismo?

"Che cos'hai contro Gesù? Era dalla parte dei poveri e ha anche vissuto da povero."

"Ma ormai è morto."

"La sua parola è fra noi. Sugli striscioni non c'è forse scritto anche 'Lenin vive' o 'Marx vive'? Però Gesù è l'unico a essere risuscitato."

Non posso trattenere una risata.

"Olga," dico, "hai sentito?" Io stesso sono sorpreso di quanto poco mi ci sia voluto per uscire vincitore dalla nostra diatriba. "Hai sentito, Olga? Ri-su-sci-ta-to! Lo crede veramente!?"

"Sì," dice Holger. "ci credo. E credo nella vita eterna. Non credo che dopo la morte non ci sia più niente. Credo che in questo mondo ci sia più di quello che possiamo afferrare con i nostri cinque sensi."

Olga gira un poco il suo quaderno ad anelli verso Holger. "È giusto così?" gli chiede.

"Quindi credi davvero," gli domando, "che dopo essere morto Gesù si sia rimesso in piedi e sia volato in paradiso?"

"Per favore, lasciaci studiare," dice Olga.

"Sì o no?"

"Sì," dice Holger, "anche se non ce lo possiamo immaginare così semplicemente come fai tu."

"E come allora?" chiedo.

"Chiudi la porta, Peter! Dall'esterno," esclama Olga.

Getto ai loro piedi la tonaca con la bandiera della Repubblica Federale ed esco. Olga mi viene dietro. Mi copre di insulti. Si comporta come sempre. Il che mi tranquillizza. L'influenza di Holger su di lei non si spinge tanto in là come temevo, o comunque Olga non sembra ancora una cristiana.

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Pagina 122

LIBRO IV - Terzo capitolo



Nel quale Peter partecipa a un giro di prova in macchina dove si discute di argomenti storici. In seguito riceve una nuova offerta. Un altro corpo, tutto per lui.


La signora Schöntag guida la Trabant fuori dalla nostra strada.

"Mia madre dice che quando c'era Hitler almeno uno sapeva perché veniva imprigionato: era comunista o ebreo, o comunque qualcuno che aveva opposto resistenza. Ma con Stalin poteva succedere a chiunque, in qualunque momento, anche a quelli che erano a favore, soprattutto a loro!"

Mi giro verso Petra. "Tu che ne dici? Hitler meglio di Stalin?"

"Non meglio, solo più prevedibile."

"Ha ragione," dice la signora Schöntag.

"Comunisti uccisi? In Unione Sovietica? Tutte sciocchezze!" dico.

"È così," replica Petra, "come se non sapessi come si fanno i bambini."

"Vuoi dire che tutti sono informati tranne me? Che tutte le persone con le quali ho parlato nella mia vita lo sapevano, solo che a me nessuno ha detto niente?"

"Io l'ho sempre saputo," dice Petra.

"Per noi era la grande speranza," dice la signora Schöntag. "Nel 1956 pensavamo che finalmente si sarebbe fatto sul serio: l'apertura, la libertà, il socialismo. I crimini furono chiamati con il loro nome!"

"Quali crimini?"

"Di certo non tutti, al contrario," dice Petra. "E poi hanno passato al rullo compressore la rivoluzione in Ungheria."

"Ancora! Ma quale rivoluzione in Ungheria?"

"Beate e Hermann non te ne hanno mai parlato?"

"E allora perché da noi non vengono cancellate le iscrizioni sul monumento? Sono tutte frasi di Stalin!"

Viaggiamo verso l'Adlergestell e solo alla stazione di Schöneweide facciamo inversione.

"Posso?" chiede Petra. La signora Schöntag accosta a destra e scende. Si scambiano i posti.

Al momento di riaccenderlo, il motore muore.

"Freno a mano!" esclama la signora Schöntag da dietro. "Puoi già guardare come si fa, Peter, anche senza patente."

"Neanch'io ce l'ho," dice Petra.

"Ma allora non puoi farlo! ...Senza patente!"

"Mi sono iscritta, solo che ci vuole un sacco di tempo!"

"Ma sai guidare, vero?" chiede la signora Schöntag. Ha un tono divertito. Il motore muore di nuovo. "Tranquilla. Con calma."

La cintura di sicurezza fa sembrare i seni di Petra corna spuntate. Stavolta riesce a mettere in moto. Torno a guardare avanti.

"Il cambio è fantastico," dice Petra. "Questa leva qui sopra è molto più comoda. Hai paura?"

"Non lo trovo giusto."

"Carlo prima si è congedato in modo molto caloroso," dice la signora Schöntag.

"Se n'è già andato?" chiedo.

"Domani ha il volo di ritorno per il Cile."

"Perché Cile? Non lo arresteranno?"

"Sua moglie e i figli vivono laggiù." Petra lo dichiara senza eccitazione o rabbia nella voce.

"Da quando lo sai?" le chiedo cauto.

"Che torna in Cile?"

"Che ti tradisce."

"Carlo non mi ha mica tradito!"

"Ma io credevo che fosse... il tuo ragazzo!"

"Era chiaro che non sarebbe rimasto per sempre."

"E non vi... dite addio?"

"È acqua passata, niente drammi."

Petra svolta nel Pläntnerwald. Conosco la strada, l'ho fatta più volte in bicicletta e a passeggio la domenica con Beate e Hermann.

"Incredibile, regalare una macchina così!" Petra si guarda nello specchietto retrovisore.

"Potete sempre invitarmi a fare un giro!" dice la signora Schöntag.

"Prova a immaginare se potessimo andare ovunque, in ogni momento, senza dover chiedere a nessuno. Solo salire in macchina e partire. Senza sapere neanche dove andare!"

"A me non piace andar via."

Quando siamo di ritorno, a parte Hermann che sta pulendo la griglia con una spazzola di ferro, in giardino non c'è più nessuno. Si sente solo Andreas suonare il piano. Una fila di candele porta alla casa e, attraverso il corridoio, nell'appartamento della signora Schöntag. Stando al brusio, la maggior parte delle persone è ancora qui. La giacca di Wolfgang è appesa all'attaccapanni.

"Qui da voi è tutto così bello," dice Petra ritornando dal nostro bagno, "e grandissimo!" Le sue labbra brillano rosso scure. Anche i suoi occhi hanno qualcosa di diverso. "E la tua camera dov'è?"

La precedo, apro la porta e accendo la luce.

"Non ci credo!" Petra si lancia sul letto che ho ereditato da Olga. "Sei un sultano?"

"È una cosa che non capisco," dico. "Perché bisogna chiudere in un lager o addirittura far uccidere un milione di persone che non hanno commesso nessun crimine? Perché?"

"La moglie di un poeta morto di stenti in uno di quei lager scrive in un libro che proprio questo, chiedersi il perché, non ha alcun senso. Non c'è un perché. Interrogarsi sulle ragioni, scrive, è del tutto fuorviante e sbagliato."

"C'è una ragione per ogni cosa, anche se non la cogliamo subito. Possiamo avvicinarci alla verità un passo dopo l'altro."

"Ci sono mille ragioni per cui Stalin..."

"Perché mille, adesso?"

"Stalin era malato, uno psicopatico, assetato di potere, con manie di persecuzione, che ne so io. Li hanno fatti sgobbare fino a farli crollare. Stalin era un faraone crudele. Ah, lascia perdere, non è vero niente. Te lo spiego un'altra volta."

"E se fosse vero, che cos'altro c'è di vero?"

"Qui è più bello che al piano di sotto," dice Petra. Si è sfilata le scarpe e i calzini. Le dita dei suoi piedi ammiccano più volte verso di me.

"Cosa c'è?" domando.

"Cosa ci dovrebbe essere?" Un attimo più tardi si è sbottonata i pantaloni e se li è sfilati - come fosse tutto un unico movimento - senza neppure alzarsi. Cerca di gettarmeli con i piedi, ma fallisce. Li tiro su, dentro ci sono anche le sue mutandine.

"Cerchi un po' di distrazione?" domando.

"Da Stalin?"

"Per via di Carlo."

"Non la chiamerei distrazione."

"Vuoi scegliere me?"

"Ho già scelto."

"Così, in un attimo e puffete? Mi ami?"

"E tu mi ami?"

"Ti penso spesso, addirittura spessissimo."

"Quanto spesso? E quando?"

"Quando mi soddisfo da solo."

"In quei momenti pensi a me?"

"All'Università popolare lo fanno quasi tutti."

"Come ti viene in mente?"

"Ti vesti in un modo che ti dona molto. Mi riesce difficile non guardarti. Anche per Wolfgang è così."

"Ne parlate?"

"No, ma è una cosa che si nota."

Petra si tocca l'abbottonatura della camicetta e soffia nella scollatura come se sudasse.

"Tu però per me non sei un oggetto," dico.

Petra incrocia le braccia e si sfila la camicetta.

"Non vuoi chiudere la porta?" Sono sorpreso di quanto giri facilmente la chiave nella serratura. La camicetta le sta in grembo come un piccolo asciugamano.

"Devo spogliarmi anch'io?" domando.

Petra allunga un braccio verso di me.

In seguito mi guida con una tale abilità che mi resta solo da spingere il membro dentro di lei. E perché non finisca troppo presto cerco di pensare ad altro, ma non mi viene in mente subito qualcosa di diverso. È più facile sognare del Nicaragua che dell'Unione Sovietica o della Cdu.

"Cosa c'è?" chiede Petra.

"Niente," vorrei rispondere. "Stiamo bene insieme," dico infine e questa risposta mi rende molto felice.

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Pagina 155

LIBRO V - Sesto capitolo



Nel quale Peter è contento di essere arrestato, ma non trova la ragione della propria contentezza. Nella prigione sbagliata o in quella giusta? Puzza e tintinnio.


11 settembre 1989, ore 6.23. Un tintinnio che percepisco in sogno - nasce dai movimenti di una gazza - mi strappa al sonno. La porta si apre, entra un uomo anziano in uniforme. Davanti a me un piatto di plastica con due fette di pane scuro, un pezzo di burro e un po' di marmellata.

"No, grazie, non lo voglio," dico. L'anziano scuote la testa. Il suo mento ha un'ulteriore rotondità sul davanti, come se sotto la pelle portasse una palla da tennis.

"Davvero, non ho fame."

"Mangia qualcosa," dice l'uomo in tono brusco. "Altrimenti sono grane, per tutti!"

"Lasci stare," dico. Ma lui continua a porgermi il piatto finché non lo prendo. "Sono l'unico qui?"

"L'unico?"

"L'unico prigioniero,» spiego.

"Prigioniero?" chiede lui come se non avesse mai sentito questa parola. Non so perché, mi aspetto che adesso sputi fuori la palla da tennis. Invece lui sparisce senza salutare. Il suo mazzo di chiavi produce un suono cristallino, quasi sereno.

Nella mia richiesta scriverò che, dopo essere stato arrestato senza motivo, sono stato trattato in modo corretto - anche se non so ancora a chi inoltrerò la richiesta.

Ore 8.23. Un grande giorno per la propaganda occidentale. Migliaia di nostri cittadini stanno oltrepassando il confine fra Ungheria e Austria. Terribile!

Ore 12.09. Una fettina di carne di maiale in una salsa marrone con cinque patate, e di contorno cavolo cappuccio e carote in insalata. Mangio di gusto. Qui non mi annoio un solo istante. Troppe sono le cose su cui devo riflettere. La cella mi dà ispirazione. Qui potrei scrivere ogni giorno una lettera aperta e studiare i classici in tranquillità, così da giustificare anche teoricamente le mie opinioni. Non basta infatti argomentare sempre solo attraverso le proprie esperienze. Padre nostro che sei nei cieli, donami la giusta comprensione della situazione, dammi la forza di trovare la via migliore per un socialismo che voglia e sappia svilupparsi verso il comunismo. Fa' che ci incontriamo in tutti i partiti e le organizzazioni, in tutti i luoghi condivisi, per formare insieme una società in cui il libero sviluppo di ognuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti...

Ore 12.52. A ogni minuto che passa mi sento sempre più nel posto giusto - come se fossi finalmente riuscito a essere sbattuto in prigione, come se avessi imboccato la strada che ci hanno indicato i martiri cristiani e comunisti. In prigione ci finisce chi fa tutto giusto, chi oltrepassa e ignora i limiti e porta avanti lo sviluppo della storia universale per quel tanto che può il singolo individuo. Sono così eccitato che non temo neanche più di sedermi sulla tazza del water e scaricarmi rumorosamente. Sono pur sempre io la causa della puzza!

Ore 13.16. Non che dubiti del mio gesto. La mia proposta mi appare tuttora giusta. Ma è sufficiente un paragone con Paul Löschau per capire quanto sia ridicola questa storia! Come posso vivere la cosa giusta nella prigione sbagliata? Eroismo in una prigione della Ddr: è già una contraddizione in sé. C'è qualcosa di peggio dell'esser considerato nemico dalla propria gente? Il riconoscimento che mi viene dato con questa permanenza in cella è un dileggio bell'e buono.

Ore 13.45. Nei miei pensieri scrivo incessantemente lettere aperte. Ad esempio su come la coscienza della nostra popolazione non si sviluppi, non possa proprio svilupparsi - non possa? Cos'è, un'eco proveniente dalla parete della cella? "Non possa?" dico ad alta voce e lo ripeto contro il muro. Nessun'eco. Cosa mi viene in mente - "non possa?" Siccome i vertici dello stato e del partito trattano le persone come bambini, a un certo punto tutti si comportano come bambini, teppistelli, immaturi e pubescenti. È forse una contraddizione antagonistica? Quale classe, quale ceto deve farsi da parte ed estinguersi affinché il libero sviluppo di ognuno divenga il presupposto del libero sviluppo di tutti? E chi potrebbe voler mettersi di traverso a chi? Sono nella prigione giusta o in quella sbagliata? Proprio in questo istante sento di nuovo il tintinnio alla mia porta, la gazza.

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Pagina 211

LIBRO VI - Quinto capitolo



Nel quale Peter riassume il ricovero in ospedale. L'infermiera Sabine e il primario Reinhardy. Una risata e l'altra. Bene e male e teste che rotolano.


Più che altro dormo. Non ho difficoltà a starmene tranquillo a letto. Al contrario. Per me è un mistero come altri possano stare in piedi tanto a lungo. Come ci riescono? Cosa li spinge a farlo?

Quel che so della situazione, di com'è cambiata, lo so dall'infermiera Sabine. Ogni minuto libero, soprattutto nel turno di notte, lo impiega leggendomi ad alta voce titoli ed estratti da giornali e riviste e spiegandomi ciò che non comprendo. Quando c'è una visita devono sempre svegliarmi. Un paziente uscito dal coma è difficile da valutare, lo sa qualunque medico. Ma il primario Reinhardy esorta tutti a parlare con me e a raccontarmi dei grandi cambiamenti in corso. Vuole che me ne vada da qui, perché uno che si passa il fon ogni giorno anche se non ha i capelli bagnati gli mette inquietudine. I suoi occhi sono così distanti l'uno dall'altro che sembra quasi possa guardare in due direzioni diverse. Quel che non riesce a fare è guardare qualcuno negli occhi. Il fatto che a ogni visita mi metta sulla bilancia è un'angheria bell'e buona, è la sua ritorsione alla richiesta giunta da "molto in alto", come si esprime Sabine, di continuare a lasciarmi in una camera singola. Non fa che interrogarmi. E qualunque cosa io risponda, lui ride. Solo che non è una risata cui possa partecipare anch'io.

Durante la mia assenza per via dell'incidente, gli spiego, la controrivoluzione si è impadronita della rivoluzione e il popolo ha tradito se stesso e si è venduto al nemico di classe, ai signori dell'industria, agli imperialisti, ai banchieri e agli speculatori, ad affaristi e furfanti di ogni specie. Le persone chiamate a prendere in mano il proprio destino hanno trasferito, per timore del loro stesso coraggio, la loro proprietà e sovranità ai detentori del potere a Bonn, chinando di nuovo la schiena e piegandosi come da tempi immemori alle direttive dell'autorità, e sono grati ai loro padroni per il pane e per il circo. D'ora in poi per ognuna e ognuno si tratterà ormai solo di essere meglio degli altri, di mangiare anziché essere mangiato. E per cosa? Per accumulare sempre più soldi e possesso! Soldi e possesso sono la chiave d'accesso per tutto, per il potere e il lusso, l'istruzione e il divertimento, la gloria e un posto nei libri di storia dei ricchi. Quelli che hanno già molto otterranno ancora di più, mentre quelli che hanno poco perderanno anche quel poco che hanno. Umanità ormai superflua, non saranno più soggetti della storia, scompariranno. L'orologio della storia viene riportato indietro, lo sviluppo sociale è fatto regredire di decenni. Ma qualunque cosa io dica ha solo l'effetto di mettere di buon umore il primario Reinhardy.

L'infermiera Sabine ammira il primario Reinhardy, perché ha sofferto sotto la dittatura comunista, come Sabine chiama per lo più la Ddr. Come a lei fu negato l'accesso agli studi di Medicina, lui non poté diventare medico capo perché non aveva la tessera del partito. Ora però lo vogliono tutti come loro superiore, dice l'infermiera Sabine. Al primario Reinhardy non piace parlare ai comunisti come me, anche se sono membri della Cdu. In una rivoluzione devono rotolare le teste, dice. Sabine mi assicura che il primario Reinhardy la intende come una metafora.

Anche l'infermiera Sabine ride molto. Ma il suo sorriso è felice e le prende molto spazio intorno alla bocca. Il mondo esterno me la manda in camera felice. Per amor suo, mi metto alla finestra e guardo Berlino dall'alto, la sua Berlino, come lei dice, anche se dalla mia camera si vede soprattutto Berlino Ovest. Per lei quel che conta è che adesso a Berlino si possano comprare i fiori anche la domenica - prima mi ha portato dei gigli freschi, per Hermann, è il suo compleanno - e che si possa viaggiare in tutti i continenti. Un giorno vuole andare con il suo ragazzo ad Amsterdam, poi in Marocco o a Bali, ma soprattutto in Egitto. Continua ad acquistare guide turistiche. E quando le chiedo perché vuole andare in quei posti, non le viene in mente di meglio che rispondere di voler vedere il mondo. E io mi domando perché, come mai, per quale motivo l'infermiera Sabine è felice? Invece di scorgere nel marco tedesco occidentale le forze di occupazione, bacia le banconote. Contro un esercito occidentale potrei combattere, ma contro il denaro? L'infermiera Sabine dice che non ho più bisogno di combattere, perché la battaglia è vinta. E che non c'è stato nessuno i cui occhi non abbiano brillato di fronte al marco occidentale. Quando mi legge articoli in cui i comunisti vengono denigrati, le dico sempre: stanno parlando di me!

"Non stanno parlando di lei!" mi difende l'infermiera Sabine. "Uno per il quale il nostro primo ministro dice le preghiere non può essere un comunista!"

"Ma io lo sono," replico. "Io volevo qualcosa di completamente diverso da quel che volevate lei e tutti quelli che adesso si dichiarano felici." Ma Sabine non mi crede. Quelli come me, le spiego, hanno provocato senza volerlo quel che lei considera il bene. In realtà noi, le dico, volevamo quello che i giornali chiamano il male. La nostra speranza è stata una trappola.

"E cosa dovrebbe fare adesso," chiedo allora all'infermiera Sabine, "un comunista come me?"

"Vada fuori e faccia del bene!" risponde Sabine. "Anche in passato, in fondo, non ha fatto altro che questo." Non vuole proprio capirmi.

Si apre la porta. Allungo la mano verso i fiori per Hermann, ma invece del festeggiato entra il primario Reinhardy.

"Che ci fa ancora qui?" mi chiede sorridendo con cattiveria. Tengo il mazzo di fiori davanti alla faccia, mi ha di nuovo spaventato.

"Sono per me?" Il primario Reinhardy fa per prenderli, io li allontano. Lui gira i tacchi e fila fuori. Nel corridoio la sua risata risuona ancora più forte. Non so far altro che reagire sbattendo il mazzo di fiori sull'angolo del tavolino, una volta, due volte, e i calici dei fiori massacrati rotolano via. Al terzo colpo già rimpiango il mio gesto... Ma a quel punto capisco: il primario Reinhardy voleva esattamente questo, era questo il suo obiettivo. Ed è di nuovo riuscito nel suo intento.

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