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| << | < | > | >> |Pagina XIDi Joseph Alois Schumpeter e di questa sua Storia dell'analisi economica, che dopo trent'anni si ripubblica nell'edizione completa, si può dire quello che Schumpeter dice di Karl Marx, cui si deve l'unica altra opera imperitura di storia delle teorie economiche, le Teorie sul plusvalore: La maggior parte delle creazioni dell'intelletto o della fantasia scompaiono per sempre dopo un tempo che varia da un'ora a una generazione; per altre invece non accade cosi. Esse soffrono eclissi, ma poi tornano, e tornano non come elementi irriconoscibili di una eredità culturale, ma nel loro abito individuale e con le loro cicatrici personali che la gente può vedere e toccare. Queste sono le creazioni che possiamo dire grandi, e non è uno svantaggio che questa definizione unisca insieme la grandezza con la vitalità. L'interesse attuale per l'opera di Schumpeter economista politico, che vede nell'imprenditore-innovatore la molla della dinamica capitalistica e dei suoi possibili e diversi esiti, sarebbe una giustificazione sufficiente per riproporne la Storia dell'analisi economica nell'edizione completa. La Storia, tuttavia, non è soltanto un "classico" da conservare per devozione, bensi un indispensabile strumento di lavoro per chiunque si occupi di storia del pensiero economico, di teoria economica, e di metodologia delle scienze sociali. | << | < | > | >> |Pagina XVIl problema storiografico e sostanziale di gran lunga piu importante è per Schumpeter proprio quello dell'ideologia: È la storia dell'economica una storia di ideologie? Le "leggi economiche" sono diverse da quelle di altre scienze, secondo Schumpeter, perché sono meno stabili e operano diversamente in diverse condizioni istituzionali; ma soprattutto per il fatto che lo stesso osservatore è un prodotto di un determinato ambiente sociale, cosicché potrebbe essere portatore di pregiudizi ideologici.La scoperta del fenomeno del pregiudizio ideologico come "razionalizzazione" si deve, secondo Schumpeter, a Marx. Per Marx i sistemi di idee che prevalgono in una certa epoca presso un certo gruppo sociale sono probabilmente viziati; in particolare, è probabile che le idee correnti glorifichino gli interessi e le azioni delle classi egemoni, e che traccino o implichino una rappresentazione di tali classi in contrasto con la realtà. Tali sistemi di idee sono per Marx le "ideologie", e gran parte dell'economia del suo tempo altro non sarebbe che l'ideologia della borghesia industriale e commerciale. Schumpeter riconosce l'importanza di questo contributo marxiano, che avrebbe però tre difetti: Marx era completamente cieco agli elementi ideologici presenti nelle proprie teorie; l'analisi marxiana dei sistemi ideologici in termini di interessi di classe è riduttiva ed economicistica; Marx, e specialmente i marxisti, sostengono che le affermazioni che manifestano influssi ideologici sono ipso facto condannabili.
Il pregiudizio ideologico, tuttavia, resta per Schumpeter un grave pericolo
per l'analisi economica; al quale se ne aggiungono altri due: la possibile
alterazione di fatti o di regole di procedura da parte di "avvocati difensori";
e il fatto che gli economisti hanno l'abitudine di esprimere giudizi di valore
intorno ai processi che osservano (i quali giudizi di valore possono rivelare
l'ideologia dell'economista, ma non sono la sua ideologia). Affermazioni
ideologicamente alterate e giudizi di valore non vanno confusi, sono però
affini. E per questo la
Storia
schumpeteriana è storia
dell'analisi economica
e non storia dei "sistemi di economia politica" o storia del "pensiero
economico".
Un "sistema di economia politica" è per Schumpeter un'esposizione di un gruppo
organico di politiche economiche che il suo autore propugna sul fondamento di
certi principi unificatori di tipo normativo; di tali sistemi Schumpeter si
occupa nella
Storia
soltanto in quanto contengano lavoro genuinamente analitico.
Per "pensiero economico", d'altra parte, Schumpeter intende l'insieme delle
opinioni e dei desideri concernenti questioni economiche, e specialmente di
politica economica, che in una certa epoca e in un certo luogo fluttuano nella
"coscienza pubblica". Anche in questo caso Schumpeter si limita a estrarre quei
frammenti analitici eventualmente presenti in qualche corrente di pensiero.
Questa distinzione, fra analisi e altre forme di riflessione economica, è per Schumpeter cruciale. La scienza economica nel suo complesso, ancor piú che altre scienze, non è semplicemente la progressiva scoperta di una realtà oggettiva ("come è, per esempio, la scoperta del bacino del Congo"): è piuttosto una lotta incessante con creazioni della nostra stessa mente e di quella dei nostri predecessori, e "progredisce" (se progredisce) a zig-zag, non secondo quello che suggerisce la logica, ma secondo l'urto di nuove idee o di nuove osservazioni o di nuove necessità, o anche secondo quello che dettano le inclinazioni o i temperamenti di nuovi uomini. L' analisi economica, la "cassetta di strumenti", invece, progredisce. Nel modo di trattare il prezzo di concorrenza, ad esempio, vi è stato, secondo Schumpeter, un effettivo "progresso scientifico" da Mill a Samuelson. In altre parole: mentre è possibile parlare di progresso analitico, non è possibile parlare di "progresso" nel campo del pensiero economico o nel campo dei sistemi di economia politica, campi nei quali si può piuttosto scegliere, fra le varie posizioni, per simpatia. La questione dell'eventuale influenza del pregiudizio ideologico sulla validità dei risultati dell'"analisi economica", tuttavia, non è ancora risolta. Interviene qui un'altra fondamentale categoria schumpeteriana: la "visione". Infatti, ogni volta che ci si pone un qualche problema, occorre identificare il complesso distinto e coerente di fenomeni che costituisce l'oggetto dello sforzo analitico: lo sforzo analitico è necessariamente preceduto da un atto conoscitivo preanalitico, che Schumpeter chiama appunto "visione".
Questo è il
luogo nel quale può entrare l'ideologia: anzi, la "visione" è ideologica quasi
per definizione. Inoltre, poiché nell'economica la sfera di ciò che può essere
dimostrato rigorosamente è particolarmente limitata, vi saranno sempre zone di
penombra dalle quali è impossibile rimuovere l'elemento ideologico. Ciò è ben
dimostrato dalla stessa
Storia,
nella quale non sempre Schumpeter riesce a spiegare il passaggio da uno
strumento analitico a un altro in termini di esigenze propriamente analitiche, e
di fatto rinvia ad argomentazioni "ideologiche".
È questa l'ambiguità massima di Schumpeter storiografo, e rispecchia quella dello Schumpeter economista. Cosi come il primo è diviso fra l'analisi e la visione, il secondo è diviso fra Walras e Marx. A Walras, come Schumpeter scrive nella prefazione all'edizione giapponese della sua .cor Teoria dello sviluppo economico, si deve una concezione del sistema economico e un apparato teorico che per la prima volta nella storia della scienza economica abbraccia efficacemente la struttura logica dell'interdipendenza tra quantità economiche; tuttavia la concezione e la tecnica di Walras sono rigorosamente statiche, e applicabili esclusivamente a un processo stazionario. Il problema di cui Schumpeter si occuperà per tutta la vita è invece quello di come il sistema economico generi la forza che incessantemente lo trasforma: egli sa che all'interno del sistema economico esiste una fonte di energia che di per se stessa disturba qualsiasi possibile "equilibrio"; e che dunque ci deve essere una teoria dello sviluppo e dell'evoluzione economica, che non faccia assegnamento soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema economico da un equilibrio all'altro. Questa idea e questa intenzione, secondo Schumpeter, sono esattamente le stesse che stanno alla base della dottrina economica di Karl Marx. GIORGIO LUNGHINI | << | < | > | >> |Pagina 3[INTRODUZIONE E PIANO DELL'OPERA] 1. PIANO DELL'OPERA 1. Per "storia dell'analisi economica" intendo la storia degli sforzi intellettuali che gli uomini hanno compiuto per comprendere i fenomeni economici, o, che è lo stesso, la storia degli aspetti analitici o scientifici del pensiero economico. La seconda parte di quest'opera descriverà la storia di tali sforzi dai primi inizi di cui si hanno tracce fino agli ultimi due o tre decenni del secolo XVIII. Nella terza parte sarà studiato il periodo che può essere indicato, se pure in modo molto impreciso, come il periodo dei "classici" inglesi, sino al principio del terz'ultimo decennio del secolo scorso. La quarta parte offrirà un ragguaglio sulle vicende dell'economia analitica o scientifica dalla fine del periodo classico (sempre in via molto approssimativa) sino alla prima guerra mondiale, sebbene la storia di alcuni problemi, per convenienza di esposizione, sia condotta fino al tempo presente. Queste tre parti costituiscono il grosso dell'opera ed incorporano il grosso delle ricerche dedicate ad essa. La quinta parte è semplicemente uno schizzo degli sviluppi piú recenti e risulta alleggerita di una parte del suo carico dalle anticipazioni, cui s'è accennato, contenute nella parte quarta; e non ha altra ambizione che quella di aiutare il lettore a comprendere come il lavoro moderno si ricolleghi al lavoro del passato.
Nell'affrontare la smisurata impresa, che in quest'opera è stata tentata
piuttosto che compiuta, ci rendiamo subito conto di un fatto ammonitore. Quali
che siano i problemi che si nascondono, ad insidiare l'incauto, sotto la
superficie della storia di ogni scienza, negli altri campi lo storico è almeno
abbastanza sicuro del suo oggetto, casi da poter cominciare senz'altro. Nel
nostro campo le cose non stanno casi. Qui le stesse idee di analisi economica,
di sforzo intellettuale, di scienza, sono avvolte nella nebbia, e le regole o i
principi che debbono guidare lo storico lasciano adito a dubbi, o, peggio, a
malintesi. Perciò la prima parte serve da prefazione alle successive e mira a
spiegare, con tutta la completazza compatibile con lo spazio, le mie opinioni
sulla natura dell'oggetto ed alcuni degli accorgimenti concettuali che mi sono
proposto di adoperare. Mi è sembrato, inoltre, che fosse necessario includere un
certo numero di argomenti che riguardano la sociologia della scienza, ossia la
teoria della scienza considerata come fenomeno sociale. Si badi però che tali
questioni sono qui accennate solo per offrire qualche indicazione sui principi
che intendo adottare, o sull'intonazione generale di quest'opera. Benché vengano
esposte le ragioni per cui li adotto, tali principi non possono essere qui
esaurientemente discussi. Essi sono indicati semplicemente per facilitare la
comprensione di quanto ho tentato di fare e per mettere il lettore in condizione
di rinunciare allo studio di questo libro, se questa intonazione non fosse di
suo gusto.
2. PERCHE STUDIAMO LA STORIA DELL'ECONOMICA? E perché studiamo la storia di una qualsiasi scienza? Il lavoro in corso (cosí si sarebbe indotti a pensare) conserva tutto ciò che è ancora utile del lavoro delle precedenti generazioni. I concetti, i metodi e i risultati che non vengono conservati non meritano presumibilmente considerazione. Perché allora dobbiamo risalire a vecchi autori e riesumare opinioni ormai sorpassate? Perché non lasciare la roba vecchia alle cure di pochi specialisti che l'amano per se medesima? C'è molto da dire su un atteggiamento del genere. Senza dubbio, è meglio gettar via i modi di pensiero sorpassati che rimanere attaccati indefinitamente ad essi. Nondimeno, le visite in soffitta possono riuscir profittevoli, purché non durino troppo a lungo. I vantaggi che possiamo sperare di trarre da tali visite possono essere indicati in tre punti: vantaggi pedagogici, nuove idee, e cognizioni sui procedimenti della mente umana. Considereremo tali punti separatamente, senza particolare riferimento all'economica; aggiungeremo, quindi, in un quarto punto, alcune ragioni che inducono a credere che nell'economica gli argomenti a favore di uno studio della storia del lavoro analitico siano anche piú forti che in altri campi. | << | < | > | >> |Pagina 83. MA È UNA SCIENZA L'ECONOMICA?La risposta a tale domanda dipende, naturalmente, da quel che intendiamo per "scienza". Nel linguaggio comune, come nel gergo della vita accademica, - particolarmente dei paesi di lingua francese e inglese, - il termine "scienza" è spesso adoperato per indicare la fisica matematica. È evidente che un tal uso esclude tutte le scienze sociali, compresa l'economica. Se consideriamo come caratteristica distintiva (definiens) di una scienza l'uso di metodi simili a quelli della fisica matematica, l'economica, nel suo complesso, non è una scienza. Solo una piccola parte di essa può dirsi "scientifica". Parimenti, se definiamo la scienza conforme al detto comune: "scienza è misura", anche in questo caso l'economica è scientifica in alcune sue parti, e non in altre. Su questo punto non dovrebbero esserci suscettibilità riguardo al "grado" o alla "dignità": chiamare "scienza" un certo campo del sapere non dovrebbe essere inteso né come un complimento né come il contrario di un complimento. Pei nostri fini si presenta spontaneamente alla mente una definizione assai ampia: scienza è qualsiasi genere di conoscenza il cui perfezionamento ed approfondimento sia stato oggetto di sforzi consapevoli. Tali sforzi generano abiti mentali - metodi o "tecniche" - e una padronanza dei fatti che vengono scoperti con tali tecniche, che eccedono la portata degli abiti mentali e della conoscenza dei fatti propri della vita quotidiana. Possiamo, quindi, anche adottare la definizione praticamente equivalente: "scienza è qualsiasi campo del sapere che abbia sviluppato tecniche specializzate per la scoperta di fatti e per l'interpretazione o la deduzione (analisi)". Infine, se desideriamo mettere in evidenza gli aspetti sociologici, possiamo formulare un'altra definizione, praticamente equivalente però alle prime due: "scienza è qualsiasi campo del sapere in cui ci siano persone (i cosiddetti ricercatori o scienziati o dotti), dedite al compito di arricchire la conoscenza dei fatti e di migliorare i metodi esistenti e che, in tale processo, acquistano una padronanza di cognizioni e di metodi che li differenzia dai 'profani' e dai semplici 'pratici'." Molte altre definizioni sarebbero altrettanto valide. Qui ne aggiungo due, senza ulteriori spiegazioni: "scienza è senso comune affinato"; "scienza è conoscenza aiutata da strumenti speciali". | << | < | > | >> |Pagina 18[3, LA «TEORIA»]Il terzo campo fondamentale è la "teoria". Tale termine ha molti significati, ma solo due importano per l'uso che ne vien fatto nella presente opera. Il primo significato, che è il meno importante, è quello che considera le teorie come sinonimi di "ipotesi esplicative". Tali ipotesi, naturalmente, sono elementi essenziali anche della storiografia e della statistica. Per esempio, anche lo storico (dell'economica o di altro) piú accanitamente attaccato ai "fatti", difficilmente può fare a meno di formulare un'ipotesi esplicativa, cioè una teoria, o diverse ipotesi esplicative e teorie, sull'origine delle città. Similmente lo statistico non può fare a meno di formulare un'ipotesi o una teoria sulla distribuzione congiunta delle variabili stocastiche che entrano nel suo problema. Ma è un errore (ed è un errore molto diffuso) il credere che l'unico o il principale compito del teorico dell'economia consista nel formulare siffatte ipotesi (qualcuno sarebbe tentato di aggiungere: "cavandole dall'aria").
La teoria economica fa qualcosa di completamente diverso. Al pari della
fisica teorica, essa non può procedere senza schemi o modelli semplificatori,
che vengan costruiti per rappresentare certi aspetti della realtà e che
ammettano,
senza porle in discussione, alcune cose per poi dimostrarne altre secondo certe
regole metodologiche. Per quanto riguarda il nostro argomento, le proposizioni
che accettiamo senza discussione possono essere chiamate, indifferentemente
ipotesi, assiomi, postulati, assunzioni o persino principi, e le proposizioni
che pensiamo di aver dimostrato attraverso un procedimento legittimo son
chiamate "teoremi". Naturalmente, una proposizione può comparire in un argomento
came pastulato e in un altro come teorema. Ora ipotesi di questo genere sono
anche
suggerite
dai fatti, - esse vengono formulate avendo presenti le
asservazioni compiute, - ma a rigor di logica, sono arbitrarie creaziani
dell'analista. Esse differiscano dalle ipotesi del primo genere (le ipotesi
esplicative) in quanto non
incorporano
risultati finali di ricerche, che si suppone siano interessanti per se stessi;
ma sono semplici strumenti o arnesi foggiati al fine di
produrre
risultati interessanti.
Inoltre, il foggiarle non è tutto ciò che fa il teorico dell'economia, alla
stessa maniera che il foggiare ipotesi statistiche non è tutto ciò che fa il
teorico delle statistiche o, anzi qualsiasi altro teorico. Altrettanto
importante è l'escogitare quegli altri espedienti analitici, come il "saggio
marginale di sostituzione", la "produttività marginale", il "moltiplicatore",
l'"acceleratore", in cui i risultati sono
già impliciti nelle ipotesi; tali espedienti, in sostanza, sono concetti,
relazioni fra concetti e metodi per trattare tali relazioni, che in sé nulla
hanno d'ipotetico. Ed è la somma totale di tali espedienti analitici - comprese
le assunzioni strategicamente utili - che costituisce la teoria economica. Per
usar la frase insuperabilmente felice della signora Joan Robinson; la teoria
economica è una cassetta di strumenti.
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