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| << | < | > | >> |Pagina 10525. L'ITALIASe il piú benevolo osservatore non avrebbe potuto tributare alcun elogio all'economica italiana nei primi anni del decennio 1870-1880, il piú malevolo osservatore non avrebbe potuto negare che essa non era seconda ad alcuno nel 1914. La componente piú cospicua di questo risultato veramente sorprendente fu senza dubbio il lavoro di Pareto e della sua scuola. La scuola paretiana con i suoi alleati e simpatizzanti non dominò mai l'economica italiana piú di quanto la scuola di Ricardo dominasse quella inglese o la scuola di Schmoller dominasse quella tedesca. La cosa veramente notevole è viceversa che, anche indipendentemente da Pareto, l'economica italiana raggiunse un alto livello in una varietà di linee e in tutti i campi di applicazione. Una parte dell'eccellente lavoro fatto specialmente in materia di moneta, banche, finanza pubblica, socialismo ed economica agraria, sarà ricordata piú avanti, ma non si potrà mettere in risalto come si dovrebbe. Neppure le varie correnti in economica generale potranno ottenere ciò che è loro dovuto, meno di tutte quelle sorte nel lavoro storico o empirico che in Italia fecondò veramente l'economica generale e non entrò, come fece in Germania, in conflitto con la "teoria" : il genere di economica generale che può essere rappresentato dall'opera di Luigi Einaudi, benché soltanto dopo il 1914 egli abbia raggiunto una posizione di rilievo. Divideremo il nostro schizzo in tre parti, che intitoleremo rispettivamente agli statisti anziani, a Pantaleoni e a Pareto. Una figura interessante, che cade fuori del nostro quadro inevitabilmente supersemplificato, Achille Loria, è ricordata nella nota a piè di pagina. | << | < | > | >> |Pagina 10962. LA VISIONE, L'IMPRESA E IL CAPITALELa "rivoluzione" nella teoria economica che ci accingiamo a valutare lasciò altre cose intatte nell'economica generale oltre alla sua impalcatura sociologica. Questa affermazione non va intesa nel senso che non ci fu alcun progresso rispetto a quelle parti di economica generale che non furono toccate. Ci fu invece progresso sostanziale come vedremo in tutto il seguito e specialmente nella nostra discussione della teoria della moneta e dei cicli di quel periodo. Solo che questo progresso non fu essenzialmente connesso con la "nuova" teoria del valore e della distribuzione e si sarebbe potuto avere quasi allo stesso modo anche senza l'ausilio di quest'ultima. In questo paragrafo passeremo in rassegna alcuni argomenti che non furono toccati dai "rivoluzionari" - e a fortiori da Marshall, il quale non si sentiva di essere un rivoluzionario - nell'ambito della definizione piú rigorosa possibile della teoria economica. (a) La visione. Il primo argomento da menzionare è la visione del processo economico. Noi abbiamo già familiarità con questo concetto e con la parte che la visione rappresenta in ogni sforzo scientifico (si veda la parte prima) e non c'è bisogno di dir altro in proposito. Ora, è perfettamente ovvio che tutti i leaders del tempo, quali Jevons, Walras, Menger, Marshall, Wicksell, Clark e cosi via, contemplavano il processo economico in gran parte come aveva fatto J. S. Mill o addirittura A. Smith; vale a dire, essi non aggiungevano nulla alle idee del periodo precedente riguardanti ciò che avviene nel processo economico e come, in linea generale, questo processo funziona; o, per porre la stessa cosa differentemente, essi vedevano l'oggetto dell'analisi economica, la somma complessiva delle cose che si devono spiegare, in gran parte come le avevano viste Smith o Mill, e tutti i loro sforzi miravano a spiegarle in maniera piú soddisfacente. Nessuna creazione concettuale del periodo adombra un fatto o una posizione nuova. Questo può essere illustrato con la loro trattazione della concorrenza. Il loro mondo economico, come quello dei "classici", era un mondo di numerose imprese indipendenti. In misura sorprendente essi continuavano a considerare il caso della concorrenza non soltanto come il caso tipico che, per certi fini, il teorico poteva trovare utile costruire, ma anche come il caso normale della realtà. Anche l'impresa gestita direttamente dal proprietario sopravviveva molto meglio nella teoria economica che nella vita reale. Il grande merito che deve nondimeno ascriversi a loro credito è che essi integravano questa visione con una analisi di gran lunga superiore a quella dei "classici". Come vedremo, essi definirono la concorrenza e ne analizzarono il modus operandi con sempre crescente successo; elaborarono la teoria di altri casi, come monopolio puro, oligopolio e simili; Marshall anzi sfiorò il caso in cui le imprese precipitano lungo curve di costi decrescenti e cosí adombrò chiaramente la serie di fenomeni che dovevano attrarre l'attenzione dei teorici negli anni dal 1920 al 1940. Ma in tutte le cose essenziali, la visione degli analisti del periodo rimase quella di Mill. Per quanto si preoccupassero molto di piú di "trusts" e di cartelli, essi li trattarono come eccezioni, o in ogni caso, come deviazioni dal corso normale delle cose (si veda sotto, cap. 7, par. 4). Sappiamo anche che l'argomento piú strettamente connesso alla visione è l'evoluzione economica o, come praticamente tutti gli autori non marxisti di quel periodo continuarono a chiamarla, il "progresso". Entro i confini di questa concezione non ci fu alcun cambiamento. | << | < | > | >> |Pagina 1436In una storia dell'analisi economica, è dal punto di vista della moderna macroanalisi che dobbiamo guardare al piú grande successo letterario della nostra epoca, la General Theory of Employment, Interest and Money di J. M. Keynes, ed è da questo punto di vista soltanto che possiamo tentare di rendere ad esso giustizia. Da qualsiasi altro punto di vista, ciò comporta inevitabilmente ingiustizia. Come la maggior parte dei grandi economisti i cui messaggi raggiunsero il grosso pubblico, specialmente come A. Smith, Lord Keynes non fu soltanto un lavoratore nel campo dell'analisi economica. Egli fu un leader convincente e instancabile dell'opinione pubblica, un saggio consigliere del suo paese - l'Inghilterra che era nata dalla prima guerra mondiale e che dopo conservò, con tratti sempre piú scavati, la fisionomia sociale acquistata in quel periodo - e un fortunato rappresentante degli interessi britannici, un uomo che avrebbe conquistato un posto nella storia anche se non avesse mai compiuto un tratto di lavoro specificamente scientifico: egli sarebbe sempre stato l'uomo che aveva scritto The Economic Consequences of the Peace (1919), venendo in fama internazionale quando uomini di eguale penetrazione ma di minor coraggio o di eguale coraggio ma di minor penetrazione erano rimasti silenziosi.
La sua
General Theory,
in un certo senso, esercitò in modo
analogo una funzione di guida. Essa insegnò all'Inghilterra, nella forma di
un'analisi apparentemente generale, le opinioni personali dell'autore sulla
situazione economica e sociale nonché le opinioni dello stesso su "ciò che si
doveva fare in proposito". Per giunta, incidendo come fece sull'atmosfera morale
creata dalla depressione e su una crescente marea di radicalismo, il messaggio
del libro, partito dalla posizione favorevole di Cambridge e diffuso da molti
discepoli abili e fedeli, incontrò eguale successo altrove e particolarmente
negli Stati Uniti. Considerando che l'atteggiamento di Lord Keynes era piuttosto
conservatore per molti aspetti, specialmente nelle materie attinenti alla
libertà d'iniziativa, ciò potrebbe sembrare sorprendente. Ma non si deve
dimenticare che egli rese un servizio decisivo all'egualitarismo in un punto
determinante. Gli economisti di tendenza egualitaria avevano da lungo tempo
imparato a scontare tutti gli altri aspetti o funzioni della disuguaglianza del
reddito meno uno: al pari di J. S, Mill, essi avevano conservato degli scrupoli
riguardo agli effetti delle politiche egualitarie sul risparmio. Keynes li
liberò da questi scrupoli. La sua analisi sembrò restituire la rispettabilità
intellettuale alle opinioni contrarie al risparmio; ed egli espose le
implicazioni di ciò nel capitolo 24 della
General Theory.
Cosi, sebbene il suo messaggio scientifico facesse presa su molte delle migliori
menti della professione economica, fece anche presa sugli scrittori e i
conferenzieri che vivono ai margini dell'economica professionale, i quali dalla
General Theory
non spigolarono altro che la "nuova economica della spesa" e per i quali egli
fece ritornare i bei tempi della signora Marcet (si veda parte terza, cap. 4),
quando ogni studentessa, apprendendo l'uso di pochi semplici concetti,
acquistava la competenza a giudicare di tutti i particolari interni ed esterni
dell'organismo infinitamente complesso della società capitalistica. Keynes fu
pari a Ricardo nel
piú alto senso dell'espressione. Ma egli fu pari a Ricardo anche perché la sua
opera è un esempio sorprendente di ciò che abbiamo chiamato "vizio ricardiano",
cioè l'abitudine di caricare un grave peso di conclusioni pratiche su fragili
fondamenta, che erano impari alla bisogna e pure sembrarono nella loro
semplicità non soltanto attraenti ma anche convincenti. Tutto ciò contribuisce
notevolmente, sebbene non completamente, a rispondere alle questioni che sempre
ci interessano, vale a dire che cosa nel messaggio di un uomo induca la gente ad
ascoltarlo e perché e come. Comunque, l'unico nostro compito è di inserire nella
nostra rassegna il contributo di Keynes al nostro apparato analitico. Ma
l'importanza del suo lavoro sembra imporre il dovere di presentare anzitutto
alcune osservazioni sui suoi aspetti piú vasti.
[1. OSSERVAZIONI SUGLI ASPETTI PIU' VASTI DEL LAVORO DI KEYNES]
Primo, il lavoro di Keynes offre un eccellente esempio della nostra tesi
secondo cui, in via di principio, la visione dei fatti e dei significati precede
il lavoro analitico, che, incominciando a realizzare la visione, procede poi di
pari passo con essa in una incessante relazione di dare e avere. Nulla può
essere piú ovvio del fatto che all'inizio della parte rilevante del lavoro di
Keynes troviamo la sua visione del decrepito capitalismo inglese e la sua
diagnosi intuitiva di esso (che egli seguí senza la minima considerazione di
altre possibili diagnosi): l'economia sclerotica, le cui possibilità di imprese
rinnovatrici declinano mentre persistono le vecchie abitudini di risparmio
formatesi in tempi ricchi di occasioni. Questa visione è chiaramente formulata
nelle prime pagine di
Economic Consequences of the Peace (1919)
e adombrata con crescente chiarezza nel
Tract on Monetary Reform
(1923) e nel
Treatise on Money
(1930), l'impresa puramente scientifica piú ambiziosa di Keynes. Questo
trattato, sebbene non un fallimento nel senso ordinario del termine, incontrò
una critica rispettosa ma corrosiva e, soprattutto, non riuscí a esprimere
adeguatamente la visione di Keynes. In seguito a ciò, con ammirevole
risolutezza, egli decise di gettar via i pezzi ingombranti dell'apparato e si
dedicò al compito di foggiare un sistema analitico che esprimesse la sua idea
fondamentale e niente altro. Il risultato, dato al mondo nel 1936, sembra averlo
soddisfatto tanto completamente da fargli ritenere di aver condotto l'economica
fuori da 150 anni di errori, alla riva della verità definitiva - una pretesa che
non si può mettere alla prova qui, ma che da alcuni fu accettata con la stessa
facilità con cui essa screditò il suo lavoro agli occhi di altri.
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