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| << | < | > | >> |IndiceV Il piú crudele dei musi di Paolo Mauri Versi del senso perso 3 Amato topino caro 33 Una vespa! Che spavento 35 I. La zanzara senza zeta 65 II. Tigri pigre 91 La stanza la stizza l'astuzia 93 I. I corvi di Orvieto 113 II. Pane coltello e piatto 129 Ghiro ghiro tonto 149 La mela di Amleto 151 I. Il gatto bigotto 171 II. La mela di Amleto 183 III. La farfalla di Follonica 201 IV. Paesaggi senza peso 237 Tre lievi levrieri 257 Scialoja, la fortuna critica di un «ippogrifante» di Orietta Bonifazi 275 Nota all'edizione del 1989 |
| << | < | > | >> |Pagina VIl piú crudele dei musi
di Paolo Mauri
Come avvenne che Toti Scialoja, stimato pittore e maestro di pittura, divenisse anche poeta? Si è creata, intorno a questo, una leggenda e dunque, come conviene alle leggende, prendiamola per vera. Toti cammina per la strada, gli occhi a terra. Nella testa sente un suono, lo «zzzz» della (di una) zanzara. Improvvisamente «vede» la parola (non la zanzara) e subito comincia a smontarla: dentro la zanzara c'è Zara, ma anche l'incipit di Zanzibar. E dentro a Zanzibar? Non c'è un bar bello e pronto? È stato lo stesso Scialoja ad assicurarci che è andata proprio cosí: ma si può essere testimoni per se stessi? Su questo punto interverremo tra un po'. Nell'anno 1971, quando Scialoja pubblica da Bompiani Amato topino mio, sa già che le poesie incontreranno i bambini (o viceversa) ma sa anche che il paratesto verrà accuratamente vagliato dai critici. La struttura di queste poesie nasce da un metodo puramente linguistico automatico, al modo dello scioglilingua, della filastrocca e del non-sense. Gioco fonemico che i bambini intendono d'istinto, che eccita la loro curiosità, li muove alla scoperta della parola nuova come incantevole meccanismo sonoro. Infatti l'ostacolo che rappresenta il vocabolo inatteso, nell'assonanza con gli altri, contribuisce a creare «quei paesaggi di parole» che liberano il bambino dalla soggezione al linguaggio e dentro i quali essi entrano ed escono con felicità e naturalezza. Antonio Porta riprese la presentazione (da attribuirsi senza dubbio all'autore) nella prefazione a La stanza la stizza l'astuzia, la plaquette uscita presso la Cooperativa Scrittori nel 1976. È, questa raccolta, il passaggio alla poesia per adulti o alla poesia tout court. Si apre con una quartina divenuta, almeno tra i cultori di Scialoja, celebre: «Il sogno segreto | dei corvi di Orvieto | è mettere a morte | i corvi di Orte». Nell'aprile del '76, a Orvieto, la Cooperativa Scrittori, per iniziativa di Luigi Malerba e di altri soci come Nanni Balestrini, Porta stesso etc., organizzò un convegno su Scrittura e Lettura. Le sedute si tenevano al teatro Mancinelli non ancora restaurato. Una mattina, Porta, aprendo i lavori, volle recitare la poesia dei corvi che Toti gli aveva a sua volta detto in albergo la sera prima. Strepitosa. Non so se fosse nata proprio allora o prima, ma certo in quel momento aveva tutte le caratteristiche per diventare una poesia-manifesto. Proviamo a 'smontarla'. La parola «Orvieto», se la si guarda da vicino, contiene già la parola «Orte», cui manca poi solo la «m» iniziale per diventare «morte». Quanto al corvo, anch'esso sta (a parte la «c» iniziale) in Orvieto. E che il corvo incroci Orvieto è chiaro da quest'altro distico «Ho visto un corvo sorvolare Orvieto. | Volava assorto, né triste né lieto». Nelle due volte in cui Scialoja gioca con Orvieto, illustrando egli stesso le rime, usa proprio la parola «Orvieto» e non un profilo della cittàdina o del celebre duomo. È dunque la parola in sé ad attrarre la sua attenzione, come sempre del resto nei suoi versi geografici e non. Anche se la poesia sul sogno segreto nasce dall'automatismo dei giochi sillabici, essa produce altri sensi. Geograficamente Orte e Orvieto sono molto vicine e ambedue arroccate su una rupe. La guerra dei corvi è una metafora? La quartina potrebbe anche insinuare che il sogno segreto di un vicino è quello di farti scomparire, di «mettere a morte». Ma «mettere a morte» non vale semplicemente «uccidere». L'atto si fa cerimonia pubblica, processo, istituto. Torniamo ai suoni. «I corvi di Orv...» agglutinano la materia, mentre l'allitterazione in «s» del verso iniziale sembra quasi zufolare il pettegolezzo: in fondo si tratta di svelare un segreto, di rendere chi ascolta partecipe di un 'piano'. Alla fine, non c'è dubbio: la confidenza è certamente amicale, ma presuppone persino una consorteria: che i corvi di Orvieto fossero gli scrittori della neoavanguardia mentre quelli di Orte, genericamente, i tradizionalisti? Illazione, è chiaro: ma la messa in situazione, in quella situazione ormai storica, la consentirebbe persino. Di più: alla fine si avverte come un retrogusto di malinconia. Scialoja perde il senso, lo riconquista in modo insperato creando suggestioni assolutamente inedite e un poco si rattrista. La macchina della messa a morte (la ghigliottina?), manovrata da mano invisibile, riguarda tutti. E poi, i corvi, seguitando la catena degli accostamenti inconsci, sono neri e dunque funebri. Sono funebri e lo sanno, dunque siamo di nuovo alla morte che sprigiona dalle loro penne. Vale la pena di rammentare anche «Ricordo i corvi a Nervi | torvi per la corvè...» (Un'ascissa letteraria qui ci porterebbe al corvo di Poe, ben noto a Scialoja).
Ben diverso è il caso del merlo. «L'uccello nero | salta leggero, | si
chiama merlo | senza saperlo». Qui il nero, per completare il breve discorso
analogico, non è funereo: il merlo, infatti, «salta leggero», leggero e
inconsapevole. Non conosce neppure il suo nome. E dunque salta leggero sui
destini di chiunque.
Un bestiario. Quando si parla dell'originalità di Scialoja si allude soprattutto alla freschezza assolutamente originale con cui crea i suoi versi. Il suo ritmo è inimitabile, la grazia con cui si fa poeta assoluta. Lo sanno gli amici che qualche volta tentavano di mettersi in gara con lui: questa poesia all'apparenza facile è in realtà, come abbiamo visto con i «corvi di Orvieto», estremamente complessa: quella che Toti ottiene è dunque una semplicità complessa, tipica appunto della autentica poesia. Dove invece Scialoja incrocia un'antica tradizione è nella scelta del mondo animale: quello che nelle favole da sempre confina e si intreccia con il mondo dell'infanzia. Fin dalla prima raccolta Amato topino mio, il tradizionale topo salta fuori dai versi, ma naturalmente non è solo. «Topo, topo, | senza scopo, | dopo te cosa vien dopo?» Tra topo e dopo c'è solo uno scambio di consonante. Parturient montes, nascetur ridiculus mus, diceva il poeta latino. Mus: un monosillabo molto attraente (per il significante, ovviamente), ma non facile da maneggiare nella metrica classica. In italiano il bisillabo consente numerose variazioni. Sono molti i topi presenti nello zoo di Scialoja: c'è addirittura, tra il lusco e il brusco un minuscolo topino etrusco. Ma ecco una poesia (dove il topo degrada in sorcio) che mette a nudo certi procedimenti creativi: «Era gruvi, gruvi era | il tuo cacio con i fori | era brughi, brughi era | il tuo bosco con i fiori, | era frutti, frutti era | la speranza del tuo viaggio, | era preghi, preghi era | quel che avevi nello sguardo, | fu piú rapida di un sorso | la tua anima di sorcio». La parola spezzata consente di raddoppiare il senso e per analogia di frattura l'operazione ribatte su altre parole creandone cosí di nuove molto provvisorie: come «gruvi» o «brughi», che durano un secondo e subito si riaccasano per ritrovare o rinnovare il senso perso. | << | < | > | >> |Pagina XIIGeografia.Oltre a creare, come si è visto, un bestiario, Scialoja gioca, impareggiabile solfeggiatore di sillabe, con i nomi di luogo. Abbiamo già detto che a lui interessa il suono della parola, dal quale, come nel caso di Orvieto, ricava altri sensi. Chi avesse la curiosità di sapere dove si trovavano i tre levrieri, già segnalati a proposito dei molti cani cantati da Toti, sappia che si trovavano a Treviri: «Ieri vidi tre levrieri | lungo i viali di Treviri». Si potrebbe addirittura stabilire la regola che i nomi di località geografiche comportano un secondo termine che entra con i nomi di animali in diretta collusione fonica: le ostriche stanno ad Ostenda, la pioggia a Fiuggi, il nibbio a Gubbio, Ninive evoca le nuvole, Acapulco il palco nella sublime, perentoria, dichiarazione: «Nel teatro di Acapulco | ogni pulce occupa un palco», a Taranto arde un cielo amaranto, e nell'ultimo verso l'anima viene definita «moribonda tarantola». (Arbasino aveva dichiarato a sua volta «Ossigenarsi a Taranto | è stato il primo errore»).
Molto emblematica «Sono in Asia ed Asia sia | vedo un sosia che mi spia |
l'ansia è falsa compagnia | stapperò la malvasia. || S'apre l'Arca ed Arca sia |
sbarca all'alba qualche arpia | suona l'arpa per la via | rischierò la
nostalgia». L'Asia è l'immediata intuizione geografica che sta dietro all'Ansia:
la proietta in un paesaggio «senza peso» per dirla con lo stesso Scialoja: un
paesaggio dell'anima, però, dove lo scambio Asia-Ansia si conclude con la
nostalgia evocata dall'arpa partorita semanticamente dall'Arpia.
Il linguaggio. Ci siamo permessi di rimandare a poeti dell'Ottocento, o del primo Novecento, e alla lingua bambina di certe poesiole infantili perché, spesso, anche la lingua di Scialoja è fondata sull'ortodossia, la linearità narrativa, poi scardinata, fatta esplodere dal nonsense. Si prenda questa strofa: «Nei vapori del parco di Pavia | i pallidi pavoni si allontanano | a passo di pavana e vanno via». Qui quasi lo scarto del nonsense non si sente e il narrato ha un sapore antico. «La marmotta e il vecchio ghiro | passeggiavano a braccetto, | terminato un breve giro | con un rapido sospiro | si rimisero nel letto». «Oh formica! | Quanto è antica | e nemica | la fatica | nell'ortica. | Ma tu vuoi che non si dica». Certo quando la mano di Scialoja accelera ecco che subito il ritmo scarta e il lettore capisce d'essere in trappola: «Cerco l'ago nel pagliaio | cerco l'ego nel migliaio | cerco l'ergo nel bisbiglio | cerco l'agro nell'intruglio | cerco il largo nel risveglio | cerco il drago nel vermiglio». Però, va pur detto, la repetitio fa parte di antiche ricette: non ci sarà anche Petrolini nei ricordi di Scialoja? L'anafora rinforza il senso dell'indagine: «Che fai malato Amleto con una mela in mano | che fai mela di Amleto nella mano malata...», ma anche qui l'interrogazione è diretta, la costruzione perfettamente lineare, forse - lo si è già notato per un'altra poesia - nel ricordo classico di «che fai tu luna in ciel» etc. Ma certo per stabilire, con un poco di coerenza, il reale reticolo di rimandi entro cui si inserisce la poesia di Scialoja occorre un riesame non semplice. Manganelli, nella celebre bandella di copertina della raccolta Versi del senso perso, tirava in ballo anche un Foscolo ubriaco e ancora un Petrarca che «abbia letto Stevenson», scivolando nelle ucronie. Frabotta ricorda la passione di Scialoja per Ungaretti, e penso, tra le tante suggestioni possibili, che anche Penna, quel Penna che bussava alla sua porta per lucrare un quadretto da vendere all'istante, abbia giocato la sua parte e chissà, forse anche il vecchio Palazzeschi di Rio Bo e dintorni. | << | < | > | >> |Pagina 6L'uccello nero salta leggero, si chiama merlo senza saperlo. Pipistrello, ti par bello far pipi dentro l'ombrello? L'ippopota disse: «Mo nella mota ho il mio popò!» | << | < | > | >> |Pagina 18Uno due tre quattro passa un gatto quatto quatto. Quattro tre due uno era un gatto di nessuno. | << | < | > | >> |Pagina 30Chiede il bombo: «Perché ronzo? Perché vado sempre a zonzo come un gonzo, senza meta? Perché peso come il piombo sopra il fiore che si piega?» A mezzanotte la luna spicca gobba a levante, e il grillo inghiotte la sua pasticca di tranquillante. Fuori Farfa le farfalle vanno in folla a far follie: le pulcelle sono gialle quelle azzurre son le zie. | << | < | > | >> |Pagina 38La zanzara dello Zambia quando zompa su una zampa da Kasempa alla Tanzania mica danza, mica smania, mica semina zizzania, sente solo che uno zampi rone brucia nella stanza. La zanzara, per decenza, ha una tunica di organza, quando è sbronza vola senza a zig zag per la Brianza. Una volta spesi un gruzzolo per andare a Veracruz a veder sette zanzare un po' vizze nella teca ma di pura razza azteca. Quando la talpa vuol ballare il tango il salone si svuota, ed io rimango. C'è una carpa che ama l'arpa ma la suona con la suola della scarpa. | << | < | > | >> |Pagina 40L'albatro a cui tendevi un piccolo caimano volò cosí lontano che non si vede piú. | << | < | > | >> |Pagina 41Due oche di Ostenda in guanti e mutande pedalano in tandem all'ombra dei dolmen e in meno di un amen imboccano un tunnel. C'era una volta un topo di professione proto, prese una topica per un tropo ma ormai ci vedeva poco. | << | < | > | >> |Pagina 50Quando il tetro dromedario giunse dietro al tetraedro alzò gli occhi e disse: «Diamine! Son davanti a una piramide!» Un pollo su un pullman in viaggio per Baden avvolto in un loden si sente nell'Eden; sua moglie, col rimmel, gli fuma le Camel. | << | < | > | >> |Pagina 59C'è un micio d'agosto che dorme di gusto su un cencio all'ombra di un busto del Pincio. | << | < | > | >> |Pagina 61Dentro l'antro sento un ranto lo nell'ombra, è la lontra che si roto la al mio fianco e mi mormo ra: «Dottore! Bell'incontro!» Un camello, lungo il Corso, camminava lemme lemme e pensava: «Avrà rimorso chi mi scrive con due emme?» | << | < | > | >> |Pagina 69Quando un orso passeggia lungo il Corso la gente corre al bar per bere un sorso. | << | < | > | >> |Pagina 119Il mattino ha l'oro in bocca il gobbino ha l'ovo in groppa il mastino ha l'osso in bocca il triestino ha il porto in secca il santino ha l'ostia in bocca il bambino ha il lecca lecca. | << | < | > | >> |Pagina 123Un cane bastardo che abbaia alla luna un nano balordo che scaglia la piuma un capo codardo che piega la schiena un sarto vegliardo che infila la cruna un santo testardo che imbocca la iena un calvo bugiardo che annoia la bruna un cardo beffardo che impiglia la lana. | << | < | > | >> |Pagina 218Sere, ma quali sere, quali deserte attese, quali rose severe in azzurro paese. Chi detesta l'estate sente pungere l'erbe e confonde le date in fondo al verde debole. Mi farò per l'autunno una cuccia di cane fino alla fin dell'anno sotto le tue sottane. Ci sorbiremo un uovo il primo di gennaio poi tornerò di nuovo dove fa caldo e buio. | << | < | > | >> |Pagina 231D'inverno venne a Vienna e senza alcun perché rovesciò gli occhi e svenne s'una tazza di tè. Noi le facemmo vento con ventagli di penne: rinvenire è uno stento quando si sviene a Vienna. | << | < | > | >> |Pagina 257Rue de la Tombe Issoire, 1961. Chissà se sia nato prima il topo (senza scopo) o la zanzara (di Zanzibàr) o il gatto (quatto quatto). È comunque iniziato tutto da lí, per caso e per gioco. O forse lí, quell'anno a Parigi, qualcosa si è compiuto: la risposta, non casuale, a un richiamo creativo sonnecchiante per anni, che avrebbe avviato Toti Scialoja per un'avventura poetica unica e rivoluzionaria nella storia della letteratura del Novecento italiano, rendendolo poeta a sessant'anni e suo malgrado, quando già era un maestro dell'arte astratta, celebre sulle due sponde dell'Atlantico. Una storia che sorprende, per come si è svolta (con la naturalezza d'una quasi predestinazione e una costellazione di leggende), e per la bizzarra accoglienza che ai suoi delicatissimi congegni di illusionismo verbale ha riservato la critica, subito divisa nelle due schiere dei «sospettosi» e degli entusiasti. Se la divulgazione ne risultò penalizzata, lo si deve ai primi, mossi entro la domanda (retorica) se quel pittore, divenuto giocoliere di puri suoni, fosse un poeta «serio» o soltanto giocoso, appunto, se fosse anche per adulti o solo per bambini e, anzi, se fosse davvero un poeta, con tutti i crismi. Pregiudizi, che bene ha chiarito Giovanni Raboni nella Prefazione al volume in cui ha raccolto le poesie della cosiddetta linea «seria», verso la quale esortava l'autore: il pregiudizio che i suoi versi, tutti e non solo quelli dichiaratamente per l'infanzia, appartenessero alla «ghettizzante categoria della produzione "scherzosa" o "giocosa". Categoria che la seriosità accademica [...] tende a considerare quasi fatalmente "minore" »; e il sospetto d'una sua «violinità d'Ingres», avendo Toti esordito editorialmente quando era «uno dei piú importanti pittori della sua generazione». Il timore insomma d'una poesia scritta solo per divertimento, tenace anche dopo la «svolta» provocata da quella sensuale musa ironico-lirica che, dagli anni Ottanta, ispirò a Scialoja versi piú intimisti e tragici. A togliere l'ombra lunga dell'arte minore dagli «incantesimi sonori» di Scialoja si fece largo l'altra «cerchia», di illuminati (fra cui Calvino, Porta, Raboni e Manganelli), dapprima ristretta e poi via via piú folta fino a formare un gruppo di epigoni, o nel caso migliore di «compagni di strada - osservava Barilli - costituito da tanti giovani poeti che insistono, chi piú chi meno, in un simile "viaggio al termine della parola"».
Sembra aver trovato cosí un lieto fine l'avventura di Scialoja poeta,
misconosciuto in gioventú, quand'era appassionato
e adolescente lettore di Ungaretti, e riconosciuto in tarda età,
anche con alcuni premi letterari. Piú che a una fine, tuttavia,
viene quasi da pensare al ritorno di un inizio, un tratto inciso
nel Dna di Scialoja, pittore che sulla tela stesa a terra era volto
a far durare, ripetere, rinnovare l'attimo originario del gesto, e
poeta che continua a conquistarsi caparbio lo spazio e il ruolo
che merita nella poesia contemporanea, entrando nelle antologie, nei manuali
(come gli augurava Raboni), nello stratificarsi
e complicarsi delle letture e delle riletture. E ora questi
Versi del senso perso
riattualizzano la godibilità delle sue felici orchestrazioni sonore, e tornano
finalmente a liberare dalla soggezione al linguaggio bambini e adulti.
Un artista «fuori strada».
C'è un altro tratto «genetico» di Scialoja che ha giocato la
sua parte nel rapporto con la critica. Oltre i pregiudizi. E' la sua
estraneità, anzi la sua insofferenza alle mode. Essere sempre
fuori dai cori significava per Toti essere libero di esprimere tutto se stesso,
la sua intera umanità. Una finalità profondamente
etica dell'arte, di cui ha difeso l'autonomia con fierezza anceschiana, che ha
procurato al pittore grandi soddisfazioni a fronte di amare battaglie e
solitudini. Anche il suo mito americano
degli anni Cinquanta era un mito di libertà, crollato già nel 1960, durante il
secondo viaggio a New York, quando si avvide che tutto, persino l'
action painting,
era diventato una moda.
«Sono sempre stato in fondo fuori tempo - disse in un'intervista - perché
quando tutti diventavano astratti, io ero ancora figurativo, quando poi divenni
astratto io, le cose erano già cambiate». E infatti stava tornando il
figurativo, con la pop art, la sua «bestia nera». Dunque, come il pittore
inseguiva un «suo» sogno di pittura ispirato all'espressionismo europeo di
Van Gogh, Ensor e Soutine, ma poi rielaborava ogni fermento come specchio di se
stesso, anche quel poeta di squisita leggerezza che è stato attingeva da un
orizzonte europeo e da modelli che negli anni Sessanta non facevano granché
furore in Italia: si pensi all'uso della metrica, e per giunta della rima, e
alla stessa poesia per l'infanzia. Scialoja ripescava gli echi di antiche
letture di bambino, fra cui
Il ciuco di Melasecche
del Fucini, gli ottonari del «Corriere dei Piccoli» con le rime di Fortunello e
le immagini di Capitan Cocoricò, i «versetti astratti,
assurdi, gelidi e allegri», come li definí, delle poesie inglesi:
Lewis Carroll
e
Edward Lear
letti sull'
Enciclopedia dei Ragazzi.
Eppure i suoi nonsense sono diversi da quelli di Lear: la loro anima non è la
demenzialità tipica dello humour inglese che
svapora nella freddura del nonsenso. Nei piú mediterranei versetti scialojani la
perdita di senso, o del «peso specifico» delle
parole, dura quanto lo choc provocato da un raptus di sillabe
impazzite. Poi, dal vuoto si ricompone d'improvviso un senso
ritrovato, anzi moltiplicato, che sboccia dallo stupore silenzioso e fa scattare
il riso, liberatorio.
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