Copertina
Autore Moacyr Scliar
Titolo La donna che scrisse la Bibbia
EdizioneVoland, Roma, 2004, Intrecci 31 , pag. 140, cop.fle., dim. 145x205x10 mm , Isbn 978-88-88700-17-5
OriginaleA mulher que escreveu a Bíblìa [1999]
CuratoreGuia Boni
LettoreGiovanna Bacci, 2004
Classe narrativa brasiliana
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Pagina 14

La bruttezza è un elemento fondamentale, almeno per comprendere questa storia. Colei che vi parla è brutta. Bruttissima. Brutta repressa o brutta infuriata, brutta vergognosa, brutta triste o brutta allegra, brutta frustrata o brutta soddisfatta - brutta, sempre e solo brutta.

Sin dall'infanzia sospettavo di essere brutta. Le bambine del paese, abbastanza carine, non volevano giocare con me; quando comparivo, trovavano il modo di scappare via ridendo di nascosto. Non sono né deforme né stupida, perché fuggivano? C'era qualcosa che vedevano in me e di cui non parlavano. Per quanto incredibile possa sembrare, scoprii la misura della mia bruttezza solo a diciotto anni. Ironia della sorte, fu la mia sorellina più piccola a contribuirvi, la sorella amica e confidente, che cercavo sempre quando avevo qualcosa da raccontare.

Una sera entrai nella sua stanza. Lei, credendosi sola, si specchiava.

Non sapevo che mia sorella avesse uno specchio. Nessuno sapeva che mia sorella avesse uno specchio. Anzi: nessuno sapeva che ci fosse uno specchio in casa. In primo luogo, lo specchio era un oggetto costoso che solo i nobili e i ricchi proprietari potevano permettersi. Non era il caso di nostro padre; seppur patriarca del villaggio, possedeva solo un gregge di capre e nemmeno tra i più grandi. In realtà, fino ai tempi di mio nonno la nostra gente era stata nomade: percorreva il deserto in cerca di un pascolo per le capre, abitava nelle tende. Così era sempre stato e tutto sembrava indicare che così sarebbe stato sempre. Mio padre però decise che la tribù doveva avere una residenza fissa. Il suo sogno era che formassimo il nucleo di una città che sarebbe presto cresciuta fino a diventare una metropoli, forse la capitale dell'impero. Era un uomo ambizioso, lui, anche se non molto intelligente. E intrattabile: non ammetteva di essere contraddetto. Quando qualcuno gli chiedeva della metropoli che immaginava, dell'impero, si limitava a una risposta laconica:

- Vedrai.

E non aggiungeva altro.

Mentre il futuro profetizzato da mio padre stentava ad arrivare, continuavamo ad abitare in una casa piccola e austera. Pochi mobili, nessuna comodità; qualunque cosa con il sentore del lusso sarebbe stata considerata un abominio. Così, anche se poteva permettersi uno specchio, non lo avrebbe mai comprato. È una cosa del demonio, diceva, dietro ogni specchio c'è il Male, pronto a usare la vanità per attirare le persone nel peccato. Non che lui fosse un modello di moralità; era un noto donnaiolo, di quelli che non rispettano nemmeno la moglie del prossimo. E per giunta implicato in loschi affari - per usare un eufemismo, parte del suo gregge era di dubbia provenienza. Nulla, però, gli impediva di fingersi il custode della morale. Esigeva dalla tribù, e in particolare dalla famiglia, un comportamento irreprensibile. Nelle figlie non tollerava la minima manifestazione di vanità.

Divieto al quale mia sorella aveva disubbidito, procurandosi (come, lo avrei scoperto soltanto in seguito) un piccolo specchio rotondo, lo specchio in cui ora si rimirava. Estasiata, e a ragione: era bella, lei. Tanto bella almeno quanto io ero brutta. Occhi grandi, nasino delicato, bocca ben disegnata... Bella ma imprudente: aveva dimenticato la porta aperta. Ed era stata quindi colta in flagrante trasgressione.

Nel vedermi si spaventò, volle nascondere lo specchio. Prima che lo potesse fare, l'agguantai; dammelo, gridai, furiosa, voglio guardarmi anch'io. All'improvviso si rese conto del pericolo che stavo correndo, cercò di dissuadermi: non farlo, questo specchio è maledetto, mi ha incantata, incanterà anche te, nostro padre aveva ragione a proibire questa diavoleria, non guardarti, per favore, non guardarti, è vanità, è abominio, io ho già peccato, non peccare anche tu.

A niente sarebbero valse le sue grida, la sua disperazione. In fondo, sapevo che voleva nascondermi qualcosa che io ancora ignoravo: la devastante rivelazione della mia bruttezza, della quale sospettavo appena. Avevo visto lo specchio però, e non ci avrei rinunciato per nulla al mondo. Era una tentazione irresistibile; la vertigine dell'abisso, per così dire. E allora che mi ingoiasse, quell'abisso, poco importava: di buon grado mi ci sarei tuffata dentro alla ricerca della verità. Forse nutrivo la speranza di un miracolo, lo specchio mi avrebbe rivelato un volto sorprendentemente bello, o per lo meno non proprio brutto. Forse era uno specchio magico, magico solo per me, beninteso, non per le altre; uno specchio capace di sintonizzarsi con le occulte aspirazioni della persona e di procedere, tramite l'energia psichica di cui sarebbe diventato immediatamente depositario, al completo riordino - e abbellimento - dei lineamenti, come il rospo che si muta in principe. Non ricordo più cosa desiderassi e volessi in quell'istante. So solo che volevo lo specchio e avrei fatto qualunque cosa per ottenerlo.

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Pagina 26

- Ti insegnerò a scrivere - annunciò con voce solenne anche se un po' tremante.

Quella sì che era una sorpresa, la cosa più stupefacente che mi fosse capitata in vita mia. Scrivere era una cosa per pochissimi iniziati, per persone che, grazie a meccanismi oscuri, giungevano al dominio di un'arte che noialtri guardavamo con rispetto quasi religioso. Oltretutto - una donna che scrive? Impossibile. Una donna, brutta che fosse, doveva accudire alla casa, sposarsi, procreare. Quello che mi stava proponendo non poteva essere considerato una trasgressione, ma certo qualcosa fuori dal comune. Che gli sarebbe potuto costar caro. Non volevo nemmeno pensare a cosa avrebbe detto mio padre quando fosse venuto a sapere della proposta. Lui apprezzava lo scriba, aveva bisogno dello scriba, ma se la sua autorità veniva messa in discussione, non avrebbe esitato a dare al vecchio una lezione esemplare, tipo lapidazione o peggio.

Eppure lo scriba parlava sul serio. Voleva proprio insegnarmi a scrivere. Non so perché. Per pietà forse: la povera ragazzina è brutta, non rimedierà mai un uomo, ha bisogno di essere compensata, di una via di fuga per la sua frustrazione. O per una certa premonizione - il futuro, come si vedrà, mi avrebbe riservato una sorpresa che forse lui aveva presagito. Fatto sta che mi fece sedere al tavolo, mi mostrò come usare il materiale per scrivere, calamaio, inchiostro, pergamena. Quando tornai in me, stavo tracciando la prima lettera dell'alfabeto - l'alef, che è all'origine di tutto.

Che emozione. Dio, che emozione. Guardavo quei tratti vacillanti con la soddisfazione dell'artista che contempla il suo capolavoro. Ero riuscita a fare una cosa che non mi sarei mai sognata. Dirò di più: in quel breve lasso di tempo ero cambiata. Non mi sentivo più brutta. Il mio volto era sempre lo stesso, ma la sensazione di bruttezza intrinseca, la sensazione che mi accompagnava perfino durante il sonno e si traduceva in incubi dai quali mi svegliavo gridando, quella sensazione si era notevolmente attenuata. Io adesso ero... bruttina... Una condizione perfettamente sopportabile che, rispetto a quello che avevo passato, rappresentava un insperato stato di benessere, di felicità quasi. Mi sentivo leggera, libera, come se l'atto di scrivere - una lettera, una sola lettera - mi avesse liberato da un passato opprimente. Cominciai a parlare in modo compulsivo della mia infanzia, delle mie fantasie, delle mie aspirazioni. Parlavo, parlavo. Lo scriba mi ascoltava sorridendo.

E allora accadde: sconvolta per l'eccitazione - quella cosa di scrivere, per qualche oscuro motivo, mi aveva risvegliato i sensi - mi buttai tra le sue braccia, mi offrii a lui: no, non poteva avere rapporti con me. Non gli sembrava giusto approfittare della mia riconoscenza e, anche se avesse voluto, non ci sarebbe riuscito; da molto non sapeva più cos'era il sesso. Il suo aiuto non aveva secondi fini; aveva agito mosso dalla solidarietà, dalla simpatia, dal desiderio di insegnare: era vecchio, voleva trasmettere a qualcuno la sua arte e gli era parso che io fossi la persona giusta.

Tutto molto nobile, ma sospettavo che lui in fondo non fosse tanto ingenuo. Più di una volta avevo notato l'espressione di rancore sul suo viso quando mio padre gli dava ordini. Non stava cercando di sovvertire l'ordine nella famiglia del patriarca, istruendo la brutta primogenita in un'attività riservata agli uomini e solo ad alcuni di essi?


A me poco importava. Da quando avevo scoperto il mondo della parola scritta ero felice, felicissima. Nascosta nella caverna della montagna (la mia arte doveva restare un segreto, si era raccomandato lo scriba), passavo i giorni a scrivere alla fioca luce di una lampada. A scrivere cosa? Qualunque cosa. Pensieri. Versi. Storie, soprattutto storie. Storie che inventavo e nelle quali ero sempre la bella eroina contesa da principi, più o meno incantati. Storie vere, storie della nostra gente, che lo scriba mi raccontava e che io trascrivevo sulla pergamena. Parlavo di mio padre: uomo bello e vigoroso, un capo che condusse la sua gente nel deserto fino all'oasi vicino alla montagna: qui costruiremo le nostre case, qui fonderemo una grande città. Quando scrivevo di mio padre, in un certo senso, mi elevavo sopra di lui: io ero una donna saggia e potente, lui un bambino perplesso e spaventato. Ma il racconto rimase all'inizio, per portarlo avanti avrei avuto bisogno del suo appoggio, che mai mi avrebbe concesso. Quella storia è nella mia testa, avrebbe detto furioso, la racconterò solo quando ne avrò voglia.

A me non importava. Mi bastava scrivere. Mettere su pergamena lettera dopo lettera, parola dopo parola, ne ero deliziata. Non era solo un testo quello che stavo producendo, era bellezza, la bellezza che risulta dall'ordine, dall'armonia. Avevo scoperto che una lettera attira l'altra, che una parola attira l'altra, un'affinità che organizzava non solo il testo, ma la vita, l'universo. Quello che vedevo sulla pergamena, quando terminavo il lavoro, era una mappa, come le mappe celesti che indicavano la posizione delle stelle e dei pianeti, posizione che non è frutto del caso ma della composizione di misteriose forze, le stesse che, in scala minore, guidavano la mia mano quando tracciava i segni sulla pergamena. Era un potere, un potere che spettava a pochi. Un'esperienza inebriante che non potevo condividere con nessuno: mia madre, se lo avesse saputo, ne sarebbe morta di paura; le mie sorelle si sarebbero rose di invidia. L'unica persona cui avrei voluto raccontare quello che stava succedendo era il pastorello. Gli avrei detto che la mia vita adesso aveva un senso, un significato: ero sempre brutta, ma ero capace di creare bellezza. Non la falsa bellezza che gli specchi ingannevolmente riflettono ma la vera, duratura bellezza dei testi che scrivevo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, come in uno stato di permanente e deliziosa ebbrezza.

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Pagina 52

Il mio turno non arrivava. I giorni si susseguivano e il mio turno non arrivava.

Per ingannare il tempo, cominciai a esplorare il palazzo, cioè i luoghi permessi che, oltre all'harem e al giardino, erano due. Uno, il padiglione dei figli e delle figlie: centinaia di bambini e giovani. A seguito di una disposizione del re dovevano restare separati. Fino a una certa età, la madre era tenuta a occuparsi dei figli, poi tornava alla sua condizione di moglie disponibile al cento per cento e il compito di allevare figli e figlie spettava a schiavi e precettori. Era un padiglione dell'harem, ma austero, senza alcuna decorazione. Triste l'ambiente, tristi gli sguardi che mi venivano rivolti. Quelle creature soffrivano più di me. Perlomeno io avevo avuto un padre presente. Mascalzone, ma presente. Cosa ci guadagnavano quegli infelici a essere figli di un re potente e saggio? Niente. Il re parlava con gli uccelli ma non parlava con loro. È vero che non parlava perché non ne aveva il tempo - regnare è un compito che assorbe, che logora - ma alla fine i figli si sentivano orfani. Orfani, ma non ciechi. Una volta cercai di accarezzare il viso di un bimbo e lui non me lo lasciò fare: non mi toccare, racchia, non mi toccare. Uscii da là furiosa e triste: perfino l'infelicità aveva la meglio sulla bruttezza.

Altrettanto deprimente fu la visita al padiglione noto come Ritiro, dove erano condotte le spose e le concubine vecchie - 'vecchia' indicava la donna giunta alla menopausa (perlomeno in questo c'era un criterio). Le ospiti del Ritiro erano poche: da quanto mi aveva detto una schiava, una volta arrivate in quel luogo non resistevano, ogni giorno se ne seppelliva una. Nessuna era stata moglie o concubina di Salomone, uomo relativamente giovane. Il gruppo era un'eredità - ricevura dal padre, il re Davide - di cui Salomone aveva promesso di occuparsi, cosa che faceva anche con una certa dedizione: nell'harem non veniva mai, ma al Ritiro si recava con regolarità. Non per scopare naturalmente, eventualità che avrebbe assunto un'inevitabile connotazione edipica, ma per parlare, per ascoltare racconti sul genitore che - situazione alla quale neppure lui si era sottratto - era stato una figura distante, sempre troppo preso dagli affari della Corona. Alle vecchiette, però, piacevano quelle visite che permettevano loro grate reminiscenze: "Tuo padre era un grande scopatore, Sire. Una volta s'innamorò della moglie di un ufficiale, l'ittita Uria..." e così Salomone sentiva per la millesima volta la storia di Davide e Betsabea.

Se il clima emotivo dell'harem era saturo d'ansia, nel Ritiro predominava la malinconia. Viviamo di ricordi, sospiravano le vecchie, e ricordi non sempre gradevoli. Tutte erano passate, almeno una volta, dal letto reale. Per una era stata un'occasione gloriosa; per un'altra, lusinghiera; per una terza, lusinghiera e gloriosa al contempo. Alcune, poche in realtà, ricordavano il momento con rabbia, tristezza, delusione, come nel caso di una donna nota a tutti come la Vergine Caduca. La questione era la seguente: non era mai stata deflorata, i motivi restavano oscuri anche perché, essendo ormai vecchia, non ci stava più tanto con la testa - da cui l'appellativo. Ma tutte le volte che si riferiva all'argomento, lo faceva per lamentarsi: eccomi qui con questo imene divenuto pietra, chi farà qualcosa per me?

Imene di pietra, parlo di pietra (dove sarà la mia pietra?): aspirazioni incomprese, emozioni trattenure, desideri non soddisfatti. Mi sarebbe stato riservato lo stesso destino, quello della verginità, associata o meno alla caducità? La vecchia era vecchia, ma non brutta quanto me. Allora perché non aveva mai avuto rapporti? La mia diagnosi, basata sulle storie che circolavano su di lei, era la frigidità. Sembra che Davide avesse tentato un approccio, ma fosse stato respinto con veemenza, addirittura con lezioni di morale - cosa alla quale il sovrano era molto sensibile dacché era stato redarguito dal profeta Natan per aver desiderato (e ottenuto) la donna d'altri.

Non era il mio caso. Non ero frigida. Per fortuna: l'assenza di desiderio associata all'assenza di bellezza, in quel clima di celata ma feroce competizione, avrebbe ridotto a zero le mie chance con Salomone. Fortuna o sfortuna? Le mie possibilità con il re erano così esigue che la frigidità sarebbe stata una buona soluzione, un male minore che mi avrebbe evitato il penoso conflitto?

Questione irrilevante. Ero già innamorata di Salomone, pensavo solo a lui, desideravo unicamente andare a letto con lui. La prospettiva di non riuscirci, di morire senza averlo baciato, senza essere riuscita ad accarezzargli il viso, a toccaragli il corpo e senza essere stata sfiorata dalle sue mani (lui mi avrebbe fatto vibrare come un'arpa melodiosa), quell'idea mi rattristava, mi portava alla disperazione. Ma alla disperazione non mi sarei mai abbandonata, avrei lottato fino alla fine. Non ero donna da accettare con rassegnazione quel malinconico destino.

Decisi di prendere l'iniziativa: non sarei rimasta in balia del destino, che certo non mi avrebbe favorito. Se Maometto non andava alla montagna, la montagna (con la sua lubrica caverna) sarebbe andata da Salomone.

Per raggiungere il mio obiettivo avevo bisogno d'aiuto, un appoggio più efficace della schiava muta, tanto dedita quanto inutile. Dovevo arrivare al re. Un'alternativa poteva essere quella di ricorrere a canali di comunicazione informali; magari un cortigiano poteva sussurrare all'orecchio del sovrano: senti, Salomone, è giunto il momento di dare un contentino alla brutta, la poverina non dorme la notte pensando a te, concedile questa carità, il Signore ti ricompenserà, saranno tutti punti in più sul tuo curriculum nel giorno del Giudizio Universale.

Ma i problemi erano due. In primo luogo, non conoscevo nessun cortigiano e, anche se l'avessi conosciuto, non era detto che si sarebbe messo a mia disposizione per intercedere; gli sguardi che mi avevano lanciato i cortigiani quando ero arrivata a palazzo erano più di scherno che di simpatia. In secondo luogo, non cercavo favori, ma diritti. Volevo rivendicare, non implorare. Anche qui, era una cosa che difficilmente avrei fatto da sola. Chi mi avrebbe aiutato nel compito? All'improvviso trovai la risposta: le donne dell'harem.

Idea apparentemente assurda. Se eravamo in competizione, e lo eravamo, perché avrebbero dovuto adoperarsi a mio favore? E anche se avessero aderito, che campagna sarebbe stata?

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