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| << | < | > | >> |Pagina 7RAPPORTO CONFIDENZIALE I25/65
Signor Commissario: con questo rapporto la informo della detenzione
dell'elemento Jaime Kantarovic, nome in codice Cantareira, arrestato la
notte tra il 24 e il 25 novembre del 1965 in una strada centrale di Porto
Alegre. Detto elemento, noto militante degli ambienti universitari della
città, da due mesi era seguito dai nostri agenti. Intorno alle 21, Jaime
Kantarovic, nome in codice Cantareira, si è diretto verso l'appartamento
della sua fidanzata Beatriz Gonçalves. Altri elementi, sei in tutto, sono
giunti sul posto, soli o in coppia – ovviamente per una riunione segreta. I
suddetti hanno lasciato il posto in questione alle 23.30, momento in cui è
stato intimato loro l'altolà dall'agente Roberval. Sette elementi, Beatriz
Gonçalves compresa, sono riusciti a fuggire, ma l'elemento Jaime Kantarovic,
nome in codice Cantareira, zoppo a una gamba, non ha potuto
correre. Arrestato e condotto alla sede della
Unidade de Operações Especiais,
è stato sottoposto a interrogatorio. Nel corso del quale sono state utilizzate
le scosse elettriche, interrotte per due ragioni: 1) i successivi svenimenti
dell'elemento Jaime Kantarovic, nome in codice Cantareira e 2) mancanza di
corrente. Quindi, l'interrogatorio non ha potuto essere portato a termine.
L'elemento Jaime Kantarovic, nome in codice Cantareira, ha più volte ripetuto
che la riunione aveva l'obiettivo di discutere di letteratura e di bere
chimarrão. Nell'appartamento è stato effettivamente
ritrovato il recipiente per il chimarrão ancora tiepido e vari libri, il che
ovviamente non invalida l'ipotesi di una riunione sovversiva. L'elemento
Jaime Kantarovic, nome in codice Cantareira, è stato perquisito. Nelle
tasche aveva: 1) poche banconote e monete; 2) un fazzoletto sporco e lacero; 3)
un mozzicone di lapis; 4) due pasticche di aspirina; 5) un foglio,
accuratamente piegato, con le seguenti parole dattilografate in tedesco:
Sotto il testo, la firma di un certo Franz Kafka.
La carta, ingiallita, sembra assai vecchia. Crediamo, tuttavia, che
sia un trucco e che si tratti, in realtà, di un messaggio, probabilmente
in codice; siamo in attesa della traduzione in portoghese, sollecitata con
carattere di urgenza, per una migliore valutazione. Sulla base della
suddetta traduzione, continueremo le indagini su Jaime Kantarovic,
nome in codice Cantareira, nella prospettiva di connessioni sovversive
internazionali.
Con l'apertura degli archivi dei servizi segreti che operarono in Brasile dal golpe del 1964, sono venuti alla luce numerosi documenti, tra cui il rapporto confidenziale sopra riportato, di cui posseggo una copia. Jaime Kantarovic, detto Cantareira da un amico di Rio, era mio cugino. Non siamo mai stati intimi, ma mi piaceva e lo stimavo molto. Il rapporto fa riferimento a una storia sorprendente che coinvolge Jaime in persona, il nostro prozio Benjamin Kantarovic e Franz Kafka. | << | < | > | >> |Pagina 10La famiglia Kantarovic era originaria della Bessarabia, una regione al centro di un'eterna disputa tra Russia e Romania. Abitavano a Chernovitzky, un villaggio a una ottantina di chilometri da Odessa. Un povero villaggio giudaico dell'Europa Orientale. La popolazione viveva in costante stato di allerta, temendo i pogrom, i massacri organizzati. Gli ebrei erano i capri espiatori di qualunque crisi e le crisi non mancavano sotto l'impero zarista.Mio bisnonno, il padre di Ratinho, era sarto. Un buon sarto, eppure quel che guadagnava bastava a malapena a mantenere la famiglia e, se non fosse stato per qualche ricco cliente russo, avrebbero persino patito la fame. Aveva la speranza, però, che i figli avrebbero fatto un mestiere migliore. Benjamin, pensava lui, sarebbe stato un ottimo rabbino. Aspirazione ragionevole — i rabbini erano rispettati e, nella peggiore delle ipotesi, avevano il vitto assicurato — e non priva di fondamento. Al ragazzo piaceva leggere, era intelligente. Doveva solo portare a termine la formazione religiosa. Ma Benjamin non voleva essere rabbino. Forse ci aveva anche pensato in qualche momento della sua vita: ma poiché era un progetto paterno, lui automaticamente lo rifiutava. Ratinho era un ribelle. Litigava con tutti, con i genitori, con i vicini. Compensa la bassa statura con la ribellione, sospirava la madre che aveva tentato invano di far cambiare il figlio. Poco per volta, la ribellione di Ratinho trovò un obiettivo, via via che prendeva coscienza della deprimente realtà in cui vivevano non solo gli ebrei, ma vari altri gruppi. In quel 1916 la Russia era un paese lacerato da conflitti sociali, politici, etnici; un paese in cui miseria e oppressione avevano raggiunto livelli intollerabili. La rivoluzione, si diceva, era solo questione di tempo: i comunisti si preparavano a prendere il potere. Queste notizie tardavano ad arrivare a Chernovitzky, ma quando giungevano, avevano immediata ripercussione. C'era, in paese, un gruppo di giovani idealisti che si riuniva in segreto per discutere i testi di Marx ed Engels. Il gruppo era capitanato da Iossi, il figlio del macellaio. Ratinho era amico di Iossi. No: Ratinho venerava Iossi. Il ragazzo alto, bello, con una folta chioma e grandi occhi scuri, era per lui un modello. Lo ascoltava con vera adorazione, bevendone le parole. Iossi parlava di un mondo migliore, un mondo in cui non ci sarebbero stati ricchi e poveri, oppressori e oppressi. Un mondo di pace e giustizia. Un paese in cui nessuno era perseguitato, in cui gli ebrei sarebbero stati uguali agli altri. Quando Ratinho compì diciannove anni, Iossi gli regalò un esemplare del Manifesto del partito comunista in yiddish. Inutile dire che per Ratinho quel testo divenne l'equivalente della Torah per i religiosi. Lo leggeva tutti i giorni; era capace di recitarne interi brani a memoria. E lo faceva in luoghi pubblici, al mercato, perfino nella sinagoga, ribadendo che la lotta di classe era l'unica forma di progresso sociale. È necessario che scorra il sangue, proclamava, affinché regni la giustizia sociale nel mondo. Alcuni trovavano il suo entusiasmo divertente. Il padre no. L'idea della rivoluzione terrorizzava il povero sarto: per l'amor di Dio, non parlare di queste cose, se la polizia dello zar ti sente, sei sistemato. Rivka, la madre, donna coraggiosa ma scettica, non prendeva il figlio sul serio. Parla tanto per parlare, fiato sprecato. Per lei Ratinho era incapace di ammazzare una mosca, tanto più di prendere parte a una rivoluzione sanguinaria. E non le dispiaceva affatto: non voleva vedere il ragazzo nei guai. Iossi e il suo gruppo non appartenevano a nessun partito politico. Ed era spiegabile con l'isolamento in cui vivevano nel remoto paesino; spiegabile, ma comunque frustrante. Iossi, in particolar modo, era ansioso di stringere contatti con i comunisti. Voleva che il gruppo si trasformasse in una cellula attiva, pronta alla rivoluzione che, ne era certo, sarebbe esplosa a breve. E la figura che più lo ispirava era Trotzkij. Iossi sapeva tutto di Trotzkij. Sapeva che il suo vero nome era Lev Davidovic Bronstein, che era stato educato a Odessa — lì vicino, quindi — che era legato a Lenin, che scriveva libri e articoli. Non lo aveva mai visto perché Trotzkij era in esilio da anni, ma sognava di incontrarlo. In verità, aspirava a diventare un collaboratore del grande leader. Era un sogno condiviso anche da Ratinho. Sì, anche lui voleva diventare comunista, anche lui voleva stare al fianco di Trotzkij nella battaglia finale, la battaglia di cui parlava l'Internazionale (ma loro ne conoscevano soltanto le parole; non avendola mai sentita, la musica potevano solo immaginarla) e che avrebbe deciso il futuro dell'umanità. Trotzkij in quel periodo era già un nome leggendario, anche a Chernovitzky. Tutti sapevano che era un leader rivoluzionario, che voleva abbattere il governo. Quello che ad alcuni pareva spaventoso ad altri sembrava promettente ("Se quest'affare della rivoluzione funziona, per Trotzkij si metterà benissimo"). Ma per Ratinho non era così. Era la Rivoluzione con la R maiuscola, si trattava di cambiare il mondo. E in questo processo lui voleva assumere un ruolo di avanguardia. Parlava del suo sogno a Iossi che, tuttavia, si mostrava ritroso in modo imbarazzante. Non so se sei maturo, diceva. Maturo? Che cosa voleva dire essere maturo? Ratinho riteneva di essere abbastanza grande per prendere parte alla rivoluzione; per giunta, entro breve, il governo zarista lo avrebbe chiamato sotto le armi e la prospettiva gli faceva orrore. Meglio morire piuttosto che servire da strumento di repressione. Parole, parole, replicava Iossi, aggiungendo: non basta parlare, compagno, bisogna agire. Agire come, chiedeva Ratinho. Vedrai, rispondeva Iossi, enigmatico. Un giorno sparì. Scomparve, semplicemente, senza avvertire nessuno. I genitori furono presi dal terrore; la gente del villaggio non sapeva cosa pensare. Si temeva che fosse stato sequestrato dai banditi e, chissà, forse assassinato, cosa non rara in quei tempi violenti. Ratinho, però, era sicuro che la misteriosa scomparsa di Iossi avesse qualcosa a che vedere con la rivoluzione. Ne era certo. Iossi tornò due settimane dopo. Ai genitori raccontò una baggianata qualunque, disse di essere andato in un altro villaggio, invitato da alcuni amici; ma quando Ratinho lo interrogò con insistenza, non poté trattenersi e disse, con gli occhi lucidi e la voce tremante per l'emozione: — Sono stato da Trotzkij. | << | < | > | >> |Pagina 28Finì di prendere il caffè, pagò e uscì. Camminò a caso, per le stradine della città Vecchia. Quando si riebbe, era in un posto che gli parve familiare, c'erano anche scritte in ebraico. Era la via Maisel, nell'antico ghetto di Praga. Davanti a lui la leggendaria Altneuschule, la vecchia sinagoga, una costruzione massiccia e cupa. La porta principale era aperta. Benjamin entrò. Non c'era nessuno. Rimase a guardare l'interno austero, i vecchi banchi, l'armadio della Torah.– Desidera qualcosa? Si girò. Un uomo vecchissimo, con una veste nera, lo fissava, strizzando comicamente gli occhietti. – Sono lo scaccino, – si presentò – il custode della sinagoga. Posso aiutarla? – Sono solo di passaggio – rispose Ratinho in yiddish, e l'uomo ne rimase incantato. – Ai suoi ordini – rispose, anche lui in yiddish. – Mi occupo della sinagoga e faccio anche da guida con i visitatori. Vengono da tutte le parti del mondo. Ma per me non è un problema – aggiunse. – Parlo correttamente otto lingue: tedesco, inglese, francese, spagnolo, italiano... – strizzò l'occhio. – Più di tutto però mi piace parlare yiddish. Era la lingua di mia madre, la lingua nella quale cantava per farmi addormentare... certe cose non si dimenticano. Il tempo passa, ma non si dimenticano. Rimase un attimo in silenzio, immobile, lo sguardo perso. Poi si girò verso il visitatore: – E lei? Da dove viene? Dalla Russia, dalla Polonia? Ratinho esitò. Si poteva fidare di quel vecchio? Decise di rischiare e raccontare la verità, o per lo meno parte di questa. Disse di venire da Chernovitzky e di trovarsi a Praga per lavoro. Chernovitzky: sì, il vecchietto conosceva il villaggio, aveva addirittura amici che abitavano da quelle parti. E proseguì: – Vieni che ti racconto un po' la storia della sinagoga. Prese Ratinho per il braccio, lo condusse nell'atrio: qui, disse, è sotterrato il Golem. Gli spiegò che il Golem era un gigante creato dal fango dal cabalista rabbino Luria per difendere gli ebrei di Praga dagli antisemiti. Ma, essendosi ribellato al padrone, era stato annientato e ora giaceva lì. Raccontò varie altre storie e poi tacque, evidentemente in attesa della mancia. Benjamin aveva pochi soldi. Ma l'uomo forse poteva aiutarlo, sicché tirò fuori i soldi e gli porse qualche moneta. Il custode le contò e non molto soddisfatto – a quanto pareva, era solito ricevere contributi più sostanziosi – le intascò, chiedendo se poteva fare qualcos'altro per il visitatore. Domanda retorica, ma Ratinho doveva approfittare di tutte le occasioni. Sì, aveva bisogno di aiuto: stava cercando scrittori ebrei (non osò aggiungere "di sinistra"). Il custode non poteva dargli qualche indicazione? – Scrittori ebrei? – l'ometto curioso. – Per quale ragione cerchi scrittori ebrei? – Sono anch'io uno scrittore – mentì Ratinho. – Volevo scambiare con loro qualche idea. – Hum. – L'uomo rifletté un po' – Scrittori ebrei qui a Praga... Non ne conosco molti. Sai, queste persone non sono solite frequentare le sinagoghe. Ma ce ne sono due che di tanto in tanto fanno una capatina, in cerca di ispirazione, credo. Sono amici, quei due. Uno è Max Brod, un tipo davvero simpatico. L'altro è Franz Kafka. Un tizio piuttosto strano... Strano. A Ratinho parve promettente. – Strano? Perché dice che è strano? – Per varie ragioni – replicò lo scaccino, al quale evidentemente non dispiaceva parlar male delle vite altrui. – È un ragazzo chiuso, parla pochissimo. E ha problemi in famiglia. Non ha un buon rapporto col padre che è un grande negoziante, ma un uomo abbastanza volgare. Insomma: è un ribelle, Kafka. Ribelle. Sì, era proprio interessante. Dietro al ribelle può esserci il rivoluzionario. Dietro al ribelle deve esserci il rivoluzionario. Muta la società solo colui che non si adegua, che non accetta le cose come stanno, colui che non si sente mai del tutto a proprio agio. E il nome... Kafka gli parve un bel nome per un rivoluzionario: la doppia K suggeriva determinazione, tenacia. Come la T di Trotzkij, il cui nome peraltro comprendeva anche la K. Ovvio, solo impressioni, ma su che cosa poteva contare, se non sulle impressioni? - Dove posso trovare questo Franz Kafka? - Dove abiti, non lo so di preciso. Ma ho sentito dire che ha una specie di studio nella città Vecchia. In una casetta molto antica. In via degli Alchimisti, dietro al castello Hradcany. Via degli Alchimisti, dietro a un castello? Strano posto per uno scrittore comunista, pensò Ratinho. Per quanto ricordava, gli alchimisti erano quei tipi che cercavano di trasformare i metalli in oro; speculatori, quindi, e della peggior specie, di quelli che mescolano magia e speculazioni, capitalismo e credulità. E perché abitare vicino a un castello, residuo attuale o passato di nobiltà, simbolo di disuguaglianza? Forse era una cosa meditata, una scelta a ragion veduta. Forse il nome della strada e la vista del castello funzionavano per Kafka da stimolo per rafforzare l'indignazione, senza la quale non era possibile la rivoluzione. - Anche tu mi sembri un ribelle. — Il vecchio lo guardava con occhio penetrante. – Io? – Ratinho, sforzandosi di celare il turbamento. – Io sono il tipo più tranquillo di questo mondo, le sembro un ribelle? Sciocchezze. Da dove le è venuta questa idea? Il vecchio sorrise. – La vita, amico mio, la vita mi ha insegnato a riconoscere le persone. E tu non sai mentire. — Si avvicinò, abbassò la voce. — Non mi inganni, giovanotto. Non sei affatto uno scrittore. Devi esserti messo in qualche guaio. Non so quale, ma ti darò un consiglio: torna al tuo paese, dimentica quello che sei venuto a fare qui. Conosci la storia del rabbino venuto a Praga in cerca di un tesoro? Ratinho non la sapeva, allora il vecchio gliela raccontò. Il rabbino di un paese polacco aveva sognato che, sotterrato vicino a un ponte di Praga, c'era un tesoro. Il sogno lo impressionò tanto che lo considerò una vera e propria premonizione. Lasciò la famiglia e andò a Praga. Arrivò in città, riconobbe il ponte visto in sogno e cominciò a scavare. Una guardia venne a vedere che cosa stava facendo. Senza farsi riconoscere, il rabbino gli raccontò il sogno. La guardia rise: "Sogni! Chi crede nei sogni? Questa notte ho sognato che sotto la cucina in casa di un rabbino polacco c'era sotterrato un tesoro. Guarda tu che sciocchezza." Il rabbino tornò a casa, scavò sotto la cucina e, detto fatto, trovò il tesoro. Una pausa e l'ometto concluse: – Tu sei venuto qui proprio per questo, affinché io ti dicessi che devi tornartene a casa e laggiù troverai la risposta ai tuoi problemi. Ed è quello che ho fatto. Tornatene a casa, ragazzo, segui i consigli dei tuoi genitori. La pace dello spirito è un tesoro, un tesoro inestimabile. Nuova pausa. - Lo farai? - No - rispose secco Ratinho. Il vecchio sospirò.
- Sapevo che non avresti seguito il mio consiglio. Hai qualcosa di
simile a Kafka. Quando gli ho raccontato la storia del Golem, gli ho
fatto una premessa: non dobbiamo creare cose delle quali non avremo
il controllo. E la letteratura è così, una cosa senza controllo. Cominci
a scrivere, a inventare e chi lo sa dove vai a parare... E poi, a che pro
altri libri? Tutto quello che conta è scritto nella Torah. La Torah...
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