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| << | < | > | >> |Pagina 87Era un pomeriggio domenicale e il tè aveva abbondantemente superato i rituali cinque minuti di infusione. La dottoressa Angeli appoggiò sul tavolino il romanzo di Bradbury e si versò una tazza di Irish Afternoon, macchiandolo con gocce di latte e addolcendolo con due cucchiaini di zucchero. Dopo aver bevuto alcuni sorsi si alzò dalla poltrona avvicinandosi alla finestra. Il tempo era oscuro - ella adorava il grigiore del cielo e delle nuvole - e le foglie cadute dai rami sul selciato venivano spazzate dal vento, unico movimento nella via deserta. Contemplò il volume sul tavolino: quante volte lo aveva letto! Conosceva quasi a memoria ogni passaggio di Fahrenheit 451, tanto che se le capitava di riprenderne la lettura al crepuscolo era in grado di scorrerlo anche a buio calato - un po' come Cirano con la lettera di Rossana - per non doversene staccare mentre andava ad accendere la lampada. Aveva agito bene? L'assillava il dubbio di aver infranto la deontologia del proprio ordine professionale: per questo il romanzo apocalittico di Bradbury la sosteneva, rassicurandola. No, aveva agito per il bene dell'umanità, per la salvezza delle generazioni future ed aveva utilizzato nel migliore dei modi le conoscenze di cui era a disposizione. Il destino l'aveva voluta medico ed ella come medico si era adoperata, riuscendo nella prima parte dell'operazione. Per il resto, poi, avrebbe dovuto aspettare... Tornò al tavolino, bevve un'altra tazza di tè, quindi una terza. Sentì il forte sapore del tannino in bocca, il calore scenderle nelle viscere e una energica spinta salire verso il cervello. Tutto le sembrò più chiaro. A parte gli effetti degenerativi (ricordava di aver letto qualcosa in un racconto di Sheridan Le Fanu, ma ella beveva quasi esclusivamente tè nero, mai verde) la bevanda esotica - ma sorbita alla maniera occidentale - le permetteva di ragionare con maggiore facilità facendole vedere connessioni che altrimenti rimanevano incomprensibili (come accadeva alla maggior parte di coloro che la circondavano). Ella - non certo quel pomeriggio, ma molti mesi prima - aveva compreso perfettamente che l'autore non era un semplice scrittore di fantascienza, ma un vero e proprio iniziato. Come un altro scrittore-iniziato, Aldous Leonard Huxley («che non si contentava solo del tè» pensò sorridendo) aveva descritto nel suo Brave New World i terribili effetti di un immaginario «meraviglioso mondo nuovo» verso il quale erano diretti anche quella una società senza libri, senza veri libri - così Farenheit 451 di un intellettuale affermato quale Ray Douglas Bradbury non voleva essere una mera esercitazione letteraria, ma un vero e proprio avvertimento alle nazioni. Un messaggio lanciato con disperazione. O meglio, con la speranza che qualcuno lo raccogliesse. Il nuovo governo mondiale che si andava profilando avrebbe senza dubbio messo al bando i libri! Lo scrittore statunitense non poteva dichiararlo apertamente senza farsi ridicolizzare dai grandi potentati massonici, che l'avrebbero accusato di visionarismo. Come agire? Bisognava filtrare il messaggio camuffandolo da opera letteraria. Così aveva fatto Mozart per svelare la propria iniziazione massonica con il Flauto magico (e male gli era andata, se era vero che erano stati proprio alcuni confratelli ad avvelenarlo). Così aveva fatto Huxley, così vi era stato costretto Bradbury. La dottoressa Angeli non sapeva quante persone, oltre a lei, avessero compreso il messaggio. Non aveva importanza: ciò che premeva era salvare i libri, ad ogni costo. | << | < | > | >> |Pagina 109Piove. È una umida, caldissima giornata tropicale qui nella Città Ho Chi Minh. Una volta, si chiamava Saigon.
Gli occhiali si appannano e si bagnano, si bagnano e si appannano, non c'è
speranza di vedere: d'altronde, se li tolgo, non vedo nulla. Giro per la città
come un turista, ma non lo sono. Una volta, ho letto della distinzione tra
turista e viaggiatore. Ma non sono neppure un viaggiatore. Sono un cercatore.
Cerco libri.
Bancarelle, negozi, negozietti, ambulanti, carretti, marionette, colori, odori, frutta, mutilati reduci di una guerra infinita: prima i francesi, poi gli americani. E immagini, tante immagini, che si affastellano nella mente: la bambina che scappa dal napalm, a braccia larghe; le marce dei pacifisti; i bombardamenti a tappeto: l'offensiva del Thet; infine, l'elicottero statunitense che lascia l'ambasciata dal tetto dell'edificio, portandosi dietro gli ultimi rappresentanti di una bandiera sconfitta. Immagini, ancora immagini, che si sovrappongono a quelle di cento film: una su tutte. Kurtz, il generale Kurtz. Cuore di tenebra sul Mekong. È tutto lì, davanti a me. La mia vita passata, il partito (anzi, chiedo scusa: il Partito), la passione politica, i cortei, la lotta, le sconfitte e le vittorie. Le dure repliche della storia. È tutto lì, davanti a me, modesto protagonista di quegli anni, spettatore da lontano, ma partecipe: eccome, se partecipe. Ma io non sono in Vietnam per la storia, né per il Partito, né per il generale Giap. Sono lì per i libri. Un tesoro nascosto, che nessuno conosce. Ma io so che sono in questo glorioso Paese, nascosti chissà dove. Ho un'indicazione, precisa e vaga al contempo. Un generale francese, la sua passione per i libri, una straordinaria collezione, la sconfitta e la fuga precipitosa nel '54. I tentativi, naufragati, di riavere la biblioteca. Devono essere ancora lì. Non possono che essere lì. Io sono in Vietnam per cercarli. | << | < | > | >> |Pagina 137È nota a bibliofili e studiosi del Bardo la Bacon-Shakespeare Controversy. Da gran tempo, e in particolare in alcune allusioni dovute a Selenus (che poi era il duca di Brunswick), ma in generale nel solco di numerose speculazioni nate negli ambienti rosacruciani, si sospettava che il vero autore delle opere di Shakespeare fosse Lord Francis Bacon. Ma solo nel secolo scorso e ai primordi di questo si è prodotta una vasta bibliografia sull'argomento, di cui cito solo i testi maggiori (e si noterà come alla polemica abbiano partecipato anche scienziati insigni come il matematico Georg Cantor): SELENUS GUSTAVUS CRYPTOMENYTICES ET CRYPTOGRAPHIAE LIBRI IX In quibus & planissima Steganographiae à Johanne Trithemio, Abbate Spanheymense & Herbipolensi, admirandi ingenij Viro, magicè & aenigmaticè olim conscriptae, [...] | << | < | > | >> |Pagina 207Sono tornati. È successo di nuovo. Questa volta hanno preferito La joye sur le retour de la paix e il De amicitia dialogus ad T. P. Atticum. I piccoli volumi sono fuori posto, aperti. Li hanno sfogliati, li hanno letti. Cercano qualcosa, vogliono sapere. Ma perché, qual è il loro scopo. Perché non mi lasciano in pace. Stavros aveva appena acceso la luce nel corridoio del suo modesto appartamento di via Dante. Indossava il pigiama grigio, sformato e stazzonato come la sua anima colta di sorpresa alle tre del mattino. Andava avanti così da alcuni mesi. Quasi ogni notte, sempre alla stessa ora. Un rumore, un fruscio, il senso di una presenza nel buio. E Stavros trovava i suoi minuscoli libri spostati, sfogliati, gettati a terra. Le prime volte aveva pensato ai topi. Ma i topi non leggono. E poi come facevano ad aprire le vetrinette. Sono furbi, ma non hanno le mani. Quindi si era persuaso fosse solo un'allucinazione. Ma era stata una certezza di breve durata, e alla fine Stavros aveva dovuto arrendersi all'evidenza: di notte qualcuno o qualcosa apriva le vetrinette e prendeva i libri della sua formidabile collezione. Aveva provato a chiudere le bacheche con lo spago, ma non era servito. Erano esseri abili e intelligenti. Non facevano nulla di male se non prendere i volumetti, e anzi a volte li rimettevano a posto (Stavros se ne accorgeva dalla collocazione sbagliata, un dorso avanti o uno indietro, oppure un dorso capovolto). Perciò Stavros si era rassegnato. Era stata una decisione lucida e consapevole, la scelta di un male minore. Lasciare che gli eventi accadano, che il mistero faccia il suo corso: questa poteva essere l'unica soluzione. Con il passare del tempo gli parve di aver fatto la cosa giusta. Le visite notturne non cessarono, ma lui ci si abituò. Si svegliava nel mezzo della notte, e invece di alzarsi di scatto e accendere la luce rimaneva accucciato tra le coperte ad ascoltare dal corridoio i fruscii, i bisbigli, il rumore di un microvolume che - ahimé - rotolava sul pavimento. Il trambusto continuava finché Stavros non riprendeva sonno, cullato e rasserenato da una presenza che in fondo gli faceva compagnia, portava sollievo alla sua immensa solitudine.
Decise di non parlare con nessuno di quegli avvenimenti. Ai pochi visitatori
che accoglieva in casa e ai quali mostrava la sua originale raccolta di libri in
miniatura - composta da oltre duemila esemplari le cui
dimensioni andavano da un massimo di sette centimetri a un minimo di due
millimetri, stipata nelle eleganti vetrine a parete sistemate lungo tutto il
corridoio -, Stavros raccontava delle gioie e dei dolori dati da una simile
collezione - la difficoltà di reperire i pezzi, la loro rarità, i costi
altissimi, la fatica della ricerca. Ma mai ad alcuno confidò il segreto dei
fantasmi della microbiblioteca.
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