Copertina
Autore Massimo Scolari
Titolo Il disegno obliquo
SottotitoloUna storia dell'antiprospettiva
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, Biblioteca , pag. 352, ill., cop.fle., dim. 155x213x22 mm , Isbn 978-88-317-8617-1
PrefazioneJames S. Ackerman
LettoreLuca Vita, 2005
Classe architettura , storia dell'arte , storia della tecnica , geometria
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Indice

  9 Introduzione di James S. Ackerman

 21 Premessa

 23 Elementi per una storia dell'axonometria

 45 L'illusionismo spaziale negli encausti pompeiani

 65 Il disegno obliquo

131 L'idea di modello

165 Il modello di Brunelleschi per la cupola di Santa Maria
    del Fiore e il disegno di Gherardo Gherardi

191 Forma e rappresentazione della torre di Babele

205 Le figure della dimostrazione

229 Machinationes

259 La prospettiva soldatesca

285 Disegnare in paralleli modo

295 La prospettiva gesuita in Cina

307 La costruzione dell'invisibile.
    Occultamento e camouflage nella guerra moderna


335 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 21

PREMESSA



In un libro dedicato alla rappresentazione la quasi totale assenza di riflessioni sulla prospettiva può apparire strana. Ma, a parte una scelta elettiva, è opportuno considerare che la maggior parte delle rappresentazioni grafiche non utilizza la prospettiva, bensì il disegno frontale e obliquo: vale a dire le proiezioni parallele. Del resto l'Antichità ha raramente fatto uso degli scorci prospettici, anche per una scelta di chiarezza, semplicità e misurabilità. Dopo la straordinaria produzione illusionistica greco-romana – che dura meno di cinque secoli –, per mille anni il mondo mediterraneo e quello cinese continuano a utilizzare solo la proiezione parallela, la cui trascrizione grafica ho definito disegno obliquo. Per questo motivo il problema della prospettiva è appena accennato, per altro solo nell'episodio pompeiano.

I testi qui presentati sviluppano i temi esposti in Elementi per una storia dell'axonometria (1984) che apre questa raccolta quasi in forma d'introduzione e che rimane ancora oggi il titolo di un libro che avrei dovuto scrivere.

Non so se sia lecito per un pittore scrivere sulla rappresentazione dal momento che il suo lavoro solitamente consiste nell'offrire materiali d'indagine agli storici, e preferibilmente quando non è più in grado di leggerli o sentirli. Ma per contemplare i confini ultimi della rappresentazione è pur necessario entrarci anche con la testa dal momento che ogni autentica creazione non può che capire, e far capire, qualche cosa di più.

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ELEMENTI PER UNA STORIA
DELL'AXONOMETRIA



La prospettiva come 'forma simbolica" di Erwin Panofsky domina da più di mezzo secolo gli studi sulla rappresentazione. Una vastissima letteratura ha discusso le sue tesi, contraddicendole o ampliandole, ma senza mai spostare l'attenzione dal tema principale: la proiezione centrale o prospettiva. La circostanza parrebbe pienamente giustificata, data la straordinaria importanza che il Rinascimento italiano occupa nella storia della cultura occidentale. Ma proprio questa assoluta egemonia ha impedito di soffermarsi su altri modi della rappresentazione che hanno avuto una durata temporale e un'importanza pari a quella della prospettiva. A un pur sommario esame della storia della rappresentazione in Occidente, ci si può rendere conto come la proiezione parallela si alterni a quella centrale per almeno due volte nell'arco di duemila anni. Dalle rappresentazioni vascolari della Grecia classica agli affreschi pompeiani, dai mosaici bizantini al Rinascimento italiano; senza poi considerare il ritorno dell'assonometria nell'Avanguardia storica. Solitamente di questa alternanza viene indagato solo un momento, quello prospettico, risolutore del rapporto tra sguardo e piano proiettivo.

Questo testo vuole essere un contributo alla stesura di una storia dell'assonometria; vale a dire di quel momento primo che gli studi prospettici considerano sempre come formulazione incompleta e preparatoria alla proiezione centrale del Rinascimento.


LE FIGURE DELLA DIMOSTRAZIONE

L'uso che Leonardo e l'ignoto autore del codice Coner fanno della proiezione parallela costituisce un segnale particolarmente significativo nel cuore stesso del Rinascimento prospettico. Esso dimostra la continuità di un rappresentare diverso, esterno alla centralità della veduta pittorica. Pur conoscendone perfettamente le leggi, al punto tale da trasgredirle con la prospettiva aerea, Leonardo sembra privilegiare in molti dei suoi schizzi il più antico sistema della proiezione parallela. Questo procedimento, che compare nella cultura occidentale fin dal IV secolo a.C. ed egemonizza la rappresentazione in Cina, si trova spesso unito alla proiezione convergente nei momenti di passaggio. Giotto ne è un tipico esempio a ridosso della riscoperta prospettica quattrocentesca. La sua comparsa negli schizzi leonardeschi non può, ovviamente, essere giustificata da una incertezza preparatoria, ma neppure essere spiegata dalla velocità dello schizzo. La ragione sembra essere quella della scelta di un modo più adeguato per rappresentare non tanto l'oggetto nello spazio quanto lo spazio stesso dell'oggetto, privilegiandone in tal modo le reali caratteristiche geometriche tridimensionali.

Comunque sia i disegni di Leonardo, di Kyeser e di Taccola, presentano attributi che esulano dalla pura veduta di presentazione proprio per l'accentuazione dei loro elementi meccanico-funzionali. Per questo essi tendono a raddrizzare la conicità della prospettiva con il mantenimento del parallelismo e quindi della misurabilità. Questi requisiti, assolti fino ad allora dalle proiezioni ortogonali e dai modelli lignei, si innestano su una antichissima tradizione pre-prospettica di proiezioni parallele oblique, usandola però in modo nuovo: come dimostrazione tridimensionale del funzionamento e della fabbricabilità. La complicazione e la deformazione prospettica si dimostrano a questo scopo impraticabili e di fatto, con l'apertura dei grandi cantieri cinquecenteschi, l' ichnographia e l' ortographia vitruviana riacquistano il loro primato nel disegno architettonico. La lettera di Raffaello a Leone X è a questo proposito estremamente eloquente.

Ai primi del Cinquecento la prospettiva ha ormai formulato, con Alberti e Piero della Francesca, il suo codice teorico e tecnico che i trattati cinquecenteschi perfezioneranno. Ma, per quanto ci risulti, nessun testo rinascimentale fa esplicito riferimento alla proiezione parallela, almeno non prima della seconda metà del XVI secolo. Certo Luca Pacioli la usa diffusamente per le dimostrazioni della geometria solida e altrettanto fa Nicolò Tartaglia. Oronce Finé si spinge oltre, fino a riportare sugli spigoli delle sue figure oblique quelle metrie che trecento anni dopo motiveranno la denominazione di axonometria. Tuttavia in questi testi, e si potrebbe citarne altri, non una sola parola è detta sul perché e sul come di questo tipo di rappresentazione. Sembra quasi che essa sia posseduta naturalmente dalla dimostrazione geometrica come unico modo per figrarne con esattezza gli enunciati: rette parallele devono comparire come tali poiché non solo lo sguardo deve percorrere quelle figure, ma anche la logica affilata del ragionamento. Le figure piane e solide della geometria devono rimanere oggettuali e mantenere il più possibile la qualità della somiglianza a scapito di ogni realismo prospettico. Così la necessità della coincidenza geometrica tra l'oggetto e la sua rappresentazione frattura la seduzione dello sguardo proprio sullo spigolo che sembrava più infrangibile: quello del realismo. Su questo spigolo si apre quell'aporia che un secolo dopo doveva far dire a Descartes: «seguendo le regole della prospettiva spesso rappresentiamo meglio dei cerchi con degli ovali che con degli altri cerchi e dei quadrati con delle losanghe piuttosto che con altri quadrati [...] di modo che spesso per essere più perfette in qualità d'immagini e per meglio rappresentare un oggetto, esse non devono assomigliargli affatto». Solo l'invenzione della proiettiva di Desargues sarà in grado di ricondurre quell'ovale nell'alveo della geometria pura come sezione conica. Ma nel secolo in cui la prospettiva raccoglie le sue glorie figurative e teoriche, la geometria pratica rivendica uno statuto diverso, preprospettico. In quasi tutti i testi che si occupano di solidi, o per meglio dire della loro dimostrazione, accanto alle classiche ichnographiae, compaiono le proiezioni parallele oblique.

Allo scadere della prima metà del Cinquecento altre pratiche, oltre a quella geometrica, richiedono rappresentazioni più precise. La necessità di dare agli operai istruzioni chiare sul taglio dei legnami e delle pietre apre, con il trattato di Philibert de l'Orme, la letteratura sulla stereotomia; la cosmografia riprende la geometria applicata di Tolomeo e produce la celeberrima proiezione di Mercator, e l'architettura militare, con tutta la sua tragica urgenza, trapassa la tranquilla scena della prospettiva rinascimentale, esigendo quella rapida misurabilità che essa non poteva dare.

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FORMA E RAPPRESENTAZIONE
DELLA TORRE DI BABELE



Fino a oggi sono state ritrovate trentacinque torri di Babele nella terra dell'antica Sennaàr (Mesopotamia). Ma una sola di esse è la Torre di Babele, quella che diede origine a tutte le leggende e iconografie della cultura occidentale. Anche se essa non fu la prima, il prototipo di tutte le torri, non di meno quella babilonese fu nella memoria delle genti un archetipo. L' Etemenanki, la torre eretta da Nabopolassar e Nabucodonosor, rappresentava per la religione assiro-babilonese la porta del cielo. Come tutti gli altri ziggurat costruiti dai «popoli venuti dalle montagne dell'est», essa era simbolo artificiale di cime olimpiche dove gli uomini potevano avvicinarsi agli dei o invocarne la discesa. Limite delle possibilità umane, ricostituzione dell'asse primordiale spezzato, mano levata verso il cielo non contro di esso, le torri erano viste dalle spie mandate da Mosè a sud di Canaan come espressione dell'iperbole orientale: al loro ritorno esse raccontavano che in quei paesi le città erano grandi e fortificate «fino al cielo». Certamente quelle costruzioni erette da un popolo idolatra che aveva tratto gli Ebrei in schiavitù, non potevano apparire se non come simbolo di arroganza e oppressione.

Così il testo della Genesi (XI) riconosce la hybris nella libera volontà di «costruire una città e una torre la cui cima tocchi il cielo», interrompendo l'empio progetto con la confusio linguarum e la dispersione delle genti che non si capiscono più a vicenda: castigo divino, ma anche acceleratore della definitiva diversificazione linguistica, già iniziata dopo il Diluvio. Sono infatti i discendenti di Noè, Sem, Cam e Japhet che danno origine ai «popoli dispersi su tutta la terra».

Una copiosissima letteratura ha affrontato la questione dogmatica da quando, sul finire dell'Ottocento, cominciarono a essere pubblicati i testi della biblioteca di Assurbanipal. Nel 1902 Friedrich Delitzsch dichiarò in una celebre conferenza che l' Antico Testamento non era un testo solo rivelato, ma desumeva molti dei suoi racconti da quelle opere sumerico-babilonesi: allora tutta la teologia tradizionale insorse indignata. La disputa che oppose gli esperti di assiriologia ai custodi del dogma si è col tempo appianata. La verità scientifica della ricerca archeologica è oggi inconfutabile come il dogmatismo che portò al rogo di Giordano Bruno e all'abiura di Galileo. Riconoscere la continuità delle storie, di quelle che i formalisti russi chiamavano trame migratorie, ricomposte in una Ecumene dell'umanità, è una forma di autentica religiosità. Le oltre sessanta storie di diluvi universali che gli studi recenti hanno individuato sul nostro pianeta non vanificano il racconto di Noè, né la precedente rappresentazione contenuta nell' Epopea di Gilgamesh, del resto molto simili. Tra storia e rivelazione passano quasi mille anni: questo non sbaraglia la verità, ma ne diversifica solo l'uso ideologico.

Nella storia della rappresentazione della Torre, Anthonisz e Holbein hanno introdotto per primi la forma circolare che rimarrà con poche eccezioni fino alla ricostruzione quadrata degli assiriologi. La predilezione rinascimentale per la forma tonda del tempio ha sicuramente consolidato questo tipo che ritroviamo dominante tra il 1550 e il 1650, periodo in cui la raffigurazione della torre è più frequente nella pittura europea.

Molto probabilmente la visione conica rinascimentale, con il suo vertice condotto "quasi per infinito", può aver suggerito il passaggio dalla torre parallela medievale a quella conica che diventa, a partire dal Cinquecento, il modo più realistico di rappresentazione. Nelle prime immagini in proiezione obliqua e ortogonale dei codici miniati o dei mosaici, quel "pugno levato al cielo" per sfidare l'infinito divino era ridotto a una presuntuosa intenzione senza immagine iperbolica. Le torri non superavano di molto l'altezza degli operai che si accingevano a costruirle, ma infinito era supposto il lavoro per compiere il peccato. Quando, con il procedimento prospettico, entra nella rappresentazione il punto all'infinito, ecco che il delitto diventa flagrante. La cima che sfiora le nuvole e raggiunge a spirali il punto irraggiungibile è arrestata dalla confusio linguarum e dal diroccamento. Questa sequenza di attentati meccanici alla infinità divina è particolarmente significativa a partire dai primi del Cinquecento e forse non a caso. La Riforma di Lutero e poi la Controriforma sembrano aver concentrato in questo soggetto biblico la sindrome del castigo. Il tema della confusio linguarum acquista con Lutero anche il carattere di diversificazione linguistica che sottolinea ulteriormente la separatezza dalla Chiesa di Roma: è l'inizio della lingua nazionale, della divulgazione del "teutsch" tramite la diffusione del Volksbücher.

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LE FIGURE DELLA DIMOSTRAZIONE



Nel Divina Proportione, il trattato che Luca Pacioli stampa a Venezia nel 1509 da Paganino de' Paganini, sono presenti due metodi di rappresentazione: quello pittorico-prospettico dei solidi disegnati dall'amico Leonardo da Vinci e quello diagrammatico a margine del testo. I due metodi di rappresentazione sembrano pienamente giustificati dalla natura presentativa dei solidi di Leonardo e dal carattere dimostrativo delle figure a margine del testo. Tra quest'ultime appare un'ellisse cuspidata, o a mandorla, che a prima vista sembra un errore, un'esecuzione grafica approssimata. Per lo storico della matematica la circostanza è certo irrilevante, ma per chi studia la storia della rappresentazione essa pone necessariamente degli interrogativi. Il primo: perché in un contesto abituato alle soluzioni grafiche più sofisticate l'ellisse viene disegnata in un modo così anomalo? Leonardo è uno dei principali innovatori dei metodi di rappresentazione tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Basterebbe ricordare il disegno in cui Leonardo riprende la soluzione d'angolo adottata da Bramante in palazzo Caprini a Roma. In esso si utilizzano sia la proiezione parallela verticale sia quella conica; pari abilità si ritrova nei disegni "trasparenti" per il tiburio del duomo milanese, così simili alle "radiografie" dei suoi studi anatomici. Per questa ragione, e data la sua evidente abilità nel tracciamento dell'ellisse, non è immediatamente comprensibile la base del cono a cuspide che compare a margine del testo di Pacioli.

La seconda domanda riguarda il carattere diagrammatico di quei disegni. Pacioli, è stato spesso accusato di scarsa scientificita nelle sue trattazioni, e certamente molti passaggi delle sue opere incoraggiano questa critica. Dovremo allora imputare a questa sua supposta "approssimazione" anche le semplificazioni e gli errori grafici del suo libro? Oppure dovremo guardare quelle figure come un indizio di un sapere altro e più antico? E se la seconda ipotesi è vera, quanto antico è questo sapere e quale la sua origine? Iniziamo analizzando il carattere del disegno diagrammatico del cubo, figura classica della trattatistica stereometrica euclidea ed eroniana.

Nel Libellus di Piero della Francesca compaiono due rappresentazioni di grande interesse: una particolare proiezione ortogonale del cubo in un esagono (oggi denominata assonometria ortogonale isometrica), e due proiezioni parallele che possono apparire a prima vista delle oblique. La proiezione del cubo in un esagono appare per la prima volta inserita in un trattato rinascimentale, anche se essa è presente nell'arte musiva greca e, come simbolo del nimbus, nell'arte cristiana d'Occidente. In questa figura è racchiuso il germe proiettivo dell'assonometria ortogonale che sarà svelato tre secoli dopo nell' Isometrical perspective di William Farish. Il cubo obliquo di Piero della Francesca è disegnato in funzione della misura e non della dimostrazione geometrica. Le indicazioni numeriche poste vicine agli spigoli correggono i "perdimenti" della vista: esso è infatti chiaramente scorciato in prospettiva e con una certa approssimazione.

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Dopo aver raccolto gli indizi classici necessari a comprendere il particolare metodo di rappresentazione che Pacioli utilizza nel suo trattato, si ritorna in Italia. Cinque anni prima che uscisse il libro di Luca Pacioli, Pomponio Gaurico nel suo De Sculptura spiega il procedimento per disegnare un parallelepipedo rettangolo (un libro) in perfetto accordo con le regole dell'apparenza: «Tracciamo a partire dai quattro angoli vertici, delle linee parallele un poco verso l'alto o verso il basso a scelta [...] voi vedete subito che tende [il libro] ad inclinarsi. La forma precedente così cambiata non è quasi simile a quello che noi vediamo con gli occhi?». Gaurico indica come sia possibile rendere compatibile l'illusionismo della profondità senza la costruzione prospettica, quando si tratta di piccoli oggetti. Questo procedimento grafico a-prospettico, che chiama «paralleli modo», pur non partendo da considerazioni di geometria primaria, sembra riassumere un metodo ampiamente diffuso nella pratica e nelle raccolte quattrocentesche di macchine. Il suo valore più che nella presentazione di una novità, sta nel fatto che esso è descritto per la prima volta in un testo che, pur trattando anche di prospettiva, è privo di figure.

Le figure della stereometria rimarranno legate, salvo rari casi, a questo tipo di disegno obliquo. Il filo che lega Piero, Pacioli, Leonardo e Gaurico attraversa anche lo straordinario Vitruvio di Cesariano del 1521, dedicato a Leone X; il papa cui Raffaello dedicherà la celeberrima lettera sul metodo di rilievo della Roma antica. Se Raffaello afferma la «sistematica separazione di piante, prospetti e sezioni» è pur vero che intorno agli anni Venti del Cinquecento si sente, specialmente in ambito romano, l'esigenza di unire le diverse vedute e contaminare il metodo prospettico, ome dimostra il famoso disegno di Baldassarre Peruzzi per San Pietro. Fuori dalla sfera d'influenza romana e in ambito tecnico-ingegneresco, Cesariano preferisce una rappresentazione più arcaica come la veduta "a volo d'uccello", come viene spesso impropriamente definita. In realtà lo standard del Codice Coner dei disegni di Falconetto e poi di Palladio si riferisce a un metodo di rappresentazione antico, che trascrive quel che misura, più di quel che vede.

Tra le illustrazioni, sicuramente opera dello stesso Cesariano, il disegno obliquo che «mostra le due facce senza scorciarle» è ampiamente utilizzato insieme a quello «divergente» della machinatio quattrocentesca: nelle rappresentazioni di fondazioni, nelle strutture murarie e nella classica figura del cubo presentata con una suddivisione sugli spigoli di sei unità; a essa è unita la «tessera» (dado), che compare anche nel manoscritto vitruviano di Fabio Calvo. La figura di Cesariano è "trasparente" e ha la stessa inclinazione del lato recedente di quella di Pacioli, anche se non è isometrica come quella. Ma Cesariano introduce per la prima volta sugli spigoli del suo cubo le sei tacche di misura, anche se dimensionalmente ineguali". Nelle sue Institutiones Dürer rappresenta la figura del cubo in proiezione parallela costruendola esattamente come Pacioli. Il procedimento proposto viene tradotto nella figura elevando le perpendicolari dal quadrato di base, come suggeriva Gaurico. Dobbiamo attendere la Geometria Pratica di un geometra singolare come Oronce Finé per vedere la coincidenza di misura e geometria nella figura obliqua del cubo. Il "plagio" che Luca Pacioli aveva compiuto nel riprendere il Libellus di Piero redatto negli anni precedenti la sua morte (1492), si ripete nell'opera di Oronce Finé, abile nei paralogismi quanto nelle edizioni pirata. Nel suo De geometria pratica, pubblicato nel 1544, ricompare la stessa figura di Pacioli, con identica posizione e identico angolo per il lato recedente di circa 45 gradi, forse copiata durante il viaggio a Milano come ingegnere al seguito di Francesco I.

Il cubo di Finé mantiene della figura di Pacioli il rigoroso parallelismo dei lati recedenti e l'isometria nei lati ma, fatto molto importante, sugli spigoli del cubo i cinque piedi di cui parla il testo sono segnati da tacche collocate a identica distanza. Il cubo di Finé ha tutti gli elementi di una corretta assonometria cavaliera: il piano parallelo al quadro è mantenuto in proiezione ortogonale, i lati obliqui formano con la linea orizzontale i 45 gradi necessari; quelli che oggi chiamiamo coefficienti di riduzione, sono mostrati sugli assi della terna formante il classico triedro trirettangolo. Sembrerebbe che a questo punto tutti gli elementi per la formazione di una rappresentazione parallela e misurata siano ormai precisati, ma non è così. Mancano ancora troppi elementi concettuali per la formulazione di uno spazio assonometrico. L'idea di infinito come ausiliare per la ricerca delle proprietà plastiche dello spazio verrà introdotta solo a partire da Desargues. Del resto l'idea degli assi, già avanzata da Nicola d'Oresme, sarà proposta da Descartes più di due secoli dopo, e neppure con rette ortogonali tra di loro.

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Non si conosce molto delle macchine che funzionavano nei cantieri medievali e poco sul tipo di progettazione. Tuttavia è possibile avere un'idea del metodo di rappresentazione analizzando il corpus dei disegni gotici e alcuni piccoli taccuini, come quella del maestro di costruzioni Mathes Roriczer che si stampa il 28 giugno 1486 a Ratisbona. Premettendo solennemente che «ogni arte è materia, forma e misura» il caputmagister rivela come si possa duplicare un quadrato e dedurre l'alzato dalla pianta. Problema in verità già illustrato da Platone nel Menone e ripreso da Vitruvio nel De architettura e che non mancherà di comparire nel bellissimo Vitruvio di Cesariano. La costruzione per la duplicazione del quadrato appare come procedura consueta anche nel taccuino di Villard de Honnecourt che opera nella prima metà del XIII secolo, l'epoca d'oro del gotico.

Con la liberazione della Spagna dai Mori, centinaia di traduzioni di opere matematiche lasciate dai musulmani di Spagna si aggiungono a quelle portate da Costantinopoli nel 1204, dopo la crociata dei Franchi. L' Album di Villard de Honnecourt, che si forma in questo contesto, consente di verificare lo stato della rappresentazione dell'architettura e delle macchine nel XIII secolo. Il carattere del suo disegno è più scientifico di quello che suggerisce la spessa grafia della pergamena e possiede delle caratteristiche che lo collegano al disegno diagrammatico greco-antico. Ma non solo. Il suo metodo di rappresentare è curiosamente vicino a quello dei codici che hanno tramandato in Occidente la machinatio greco-ellenistica: i codici di Filone di Bisanzio, di Erone Alessandrino e del successivo e più conosciuto Vitruvio. Alcune macchine nell' Album confermano questa ipotesi in modo chiaro, anche se quello di Villard non è ancora il tempo in cui le macchine sono riportate a pochi meccanismi. Si dovranno aspettare le astrazioni di Guidubaldo del Monte nella seconda metà del XVI secolo per poter razionalmente ricondurre le macchine ai cinque classici meccanismi della tradizione greca che gli scienziati arabi ben conoscevano. Nel XIII secolo le macchine sono corpi che martellano, sollevano, macinano, forano, uccidono. Tutte cigolano e faticano come Efesto, il mostro ansante. Ma allora cosa rende le loro rappresentazioni così interessanti? È sufficiente aprire l' Album di Villard e osservarne due: un trabocco, macchina bellica per lanciare grosse pietre, e una sega idraulica. La prima presenta una struttura sconcertante, ma solo perché leggendo il testo ci si accorge che manca la pagina con il prospetto. Il disegno che rimane presenta una sua singolare brevità mostrativa. Si intuisce che ci sono tutti i componenti della struttura di base e che sono correlati funzionalmente, ma senza l'alzato è difficile immaginare il suo funzionamento. Per chi non conosce quella macchina il disegno è muto e affascina proprio per il sapere che sottende. E questa circostanza aiuta a capire il significato dell'omissione nello schizzo tecnico. Un mechanicus non deve obbligatoriamente disegnare tutto per rappresentare il funzionamento. Annota solo le differenze rispetto a ciò che preliminarmente conosce. Spesso accade che ingrandisca alcune porzioni della macchina, senza rispettare i rapporti proporzionali che esistono nella realtà. Il risultato è che l'immagine del funzionamento si forma solo nella sua mente che sa interrogare i nodi cinematici fondamentali. In un certo senso l' Album di Villard si pone come una sinossi figurata e, al contrario di Vitruvio, affida la comprensione del funzionamento alla sola rappresentazione.

Il secondo disegno, riferito alla sega idraulica, è riconducibile ai congegni di al-Jazari o agli schemata dei poliorceti greco-alessandrini. Pur presentando connotazioni naturalistiche, come l'aspetto nodoso dei tronchi, riproduce molto bene il metodo di annotazione del meccanico antico. Quello che conta è la visibilità degli elementi che trasformano il moto rotatorio in rettilineo alternato grazie a un elementare scappamento. Come il mechanicus, Villard privilegia l'elencazione dei pezzi di cui è costituita la macchina, li dispone uno accanto all'altro facendo in modo che si tocchino in quei punti dove l'occhio si aspetta di cogliere il passaggio delle energie, dove i denti degli ingranaggi trasmettono la forza tramite il movimento della leva.

Il metodo di rappresentazione delle macchine entra ed esce continuamente dai traguardi del naturalismo, non tiene conto della presenza di un osservatore nello spazio, nega spesso il sopra e il sotto, il davanti e il dietro, perché tutto si muove a partire dall'interno del meccanismo. Così si usano con grande disinvoltura accostamenti e sovrapposizioni, una sorta di notazione tecnica che parla solo agli specialisti. Si tratta di una geometria dell'oggetto considerato unicamente in funzione metrica, in opposizione alla geometria dei punti di vista che studia l'oggetto dall'esterno e da lontano. In questo consiste la vera differenza tra un quadro, un disegno di architettura e quello di una macchina. Il problema del disegno delle macchine non consiste in cosa far apparire nello spazio, ma come diagrammare il funzionamento, come mostrare la convergenza delle forze sui raccordi. In definitiva come dimostrare la credibilità cinematica dell'insieme e rappresentare il funzionamento, una dimensione che non ha nulla a che fare con l' oggetto nello spazio.

Lo spazio dell'oggetto, entro cui funziona la macchina, deve abbandonare la comoda visione convergente dell'illusionismo greco-ellenistico. Il linguaggio della macchina si presenta come una scrittura abbreviata, fatta di linee che indicano, ma non separano, né congiungono; sovrapposizioni che sviano la logica di chi non conosce quello che sta dietro gli ovali dentellati dei ruotismi.

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Pagina 285

DISEGNARE IN «PARALLELI MODO»



La terminologia fin qui adoperata non proviene dalla moderna manualistica geometrica. Per esempio, a sostituzione della prospettiva parallela usata da Panofsky, si è fatto uso di espressioni contenute nei testi cinquecenteschi, come il paralleli modo di Gaurico, o riformulate in modo da non presentare incongruenze temporali e metodologiche. L'espressione disegno obliquo è riferita a una rappresentazione grafica simile a quella che si otterrebbe da una proiezione parallela obliqua della figura, proiettata insieme alla terna degli assi x, y, z: quella che, dopo la sua codificazione ottocentesca, si chiamerà assonometria obliqua monometrica, dimetrica o trimetrica.

Un esempio di protocollo procedurale classico è quello relativo al disegno obliquo di un cubo, quella figura a filo di ferro che si vede nei papiri matematici e che Pacioli riprende nel Divina Proportione. Per ottenere una rappresentazione che evochi l'oggetto nello spazio si parte dalla pianta quadrata e si innalzano dai vertici degli angoli dei segmenti di misura uguale ai lati, paralleli tra di loro e ortogonali a una diagonale del quadrato di base. Questi segmenti sono pensati perpendicolari al piano del disegno. Ma per renderli visibili vengono ribaltati, altrimenti la loro proiezione apparirebbe sul foglio come un punto. Naturalmente nei codici matematici non sempre l'inclinazione dei lati recedenti è pari a 45 gradi e non sempre la loro misura è uguale al lato del quadrato di partenza. Questo è più un problema di esecuzione a mano libera che di teoria; comunque il risultato del disegno, anche se approssimativo, è sempre corretto dal testo che descrive la figura come "cubo". In un contesto prospettico questo metodo per rappresentare la terza dimensione di un oggetto si dimostra efficace quanto più piccolo è l'oggetto rappresentato. Pomponio Gaurico spiega che quando l'ampiezza angolare sotto la quale si percepisce l'oggetto è ridotta rispetto al nostro cono ottico, queste rappresentazioni in paralleli modo sono perfettamente accettabili, come mostrano i dipinti quattro-cinquecenteschi di personaggi con un libro tra le mani.

Oggi la proiezione parallela viene solitamente studiata come caso particolare della proiezione conica, quando il centro di proiezione (il vecchio punto di vista) diventa improprio. Gino Loria, cui si deve una preziosa Storia della geometria descrittiva, utilizza la terminologia di derivazione proiettiva che si incontra in tutti i manuali di geometria descrittiva: «Come la projezione ortogonale è caso particolare della proiezione parallela, così questa lo è della proiezione centrale». Dal punto di vista proiettivo la definizione di Loria è ineccepibile, ma per chi studia i metodi di rappresentazione essa risulta poco significativa. Infatti il disegno obliquo precede non solo la codificazione della prospettiva quattrocentesca ma, come nel caso dei vasi apuli del tv secolo a.C., anche la pseudo-prospettiva pompeiana.

Per capire i modi del rappresentare nella storia non si può quindi seguire una ideale linea che ci porta dalla rappresentazione piatta a quella illusionistica, in una sorta di virtuoso progresso che culmina nella prospettiva rinascimentale. Si devono invece studiare le priorità culturali e tecniche che ogni epoca rende consuetudinarie. Ricordarsi, per esempio, che il punto di vista a distanza infinita in epoca classica e rinascimentale aveva poco senso. Già Guidubaldo del Monte si chiedeva «a quale condizione può avvenire che qualche cosa derivi dalla prospettiva mentre l'occhio si allontana a distanza infinita?». Nessuna immagine potrebbe infatti essere prodotta dall'intercisione tra la piramide visiva e il quadro, dal momento che nessuna vista può essere supposta infinita secondo il teorema VIII dell' Ottica euclidea. Di questo fatto sembra che tutta la figurazione tardo-antica sia cosciente, e che l'uso della proiezione parallela non sia tanto la restituzione di una veduta percepita dagli occhi del corpo, ma – come suggerisce Plotino – di una immagine colta dall' occhio interiore, che per comprenderla annulla la distanza tra la cosa e l'osservatore, identificandosi con essa. Non si tratterebbe quindi tanto di vedere quanto di comprendere, di capire. Piero della Francesca con il suo De prospectiva pingendi ha definitivamente separato l'ottica (perspectiva) dalla rappresentazione conica (prospectiva). Tuttavia nei trattati francesi e inglesi una rappresentazione che mostra le tre dimensioni dell'oggetto è definita come perspective. In tal modo un termine legato all'ottica (perspicere, vedere) viene impropriamente utilizzato anche per la rappresentazione grafica delle tre dimensioni ottenuta con una proiezione parallela. Anche Giulio Troili definisce la prospettiva militare la «maniera di rappresentare in disegno l'icnografia delle fortezze». Così per tutto il XIX secolo si continua a definire il disegno obliquo come perspective, se non addirittura prospettiva. Breithof individua la perspective cavalière come un caso particolare delle perspectives rapides, mostrando come alle caratteristiche illusionistiche della prospettiva lineare, questo metodo aggiunga la rapida misurabilità delle proiezioni ortogonali: «Elle donne des desseins qui font image et sur lesquels ont peut mesurer». Questo «disegno che fa immagine», e che permette anche la misura, era già stato chiamato perspective cavalière da Olivier, pur notando che in questa «perspective [...] les règles de l'alt ne sont pas scrupuleusement observées». Lo stesso uso improprio della dizione prospettiva cavaliera appare nei libri di Adhémar, Ciani, Regis. Infine Stabilini correttamente intitola il suo libro Sui sistemi di proiezione assonometrica parallela, con una disorientante tautologia.

Nella prima metà del XIX secolo si sente l'esigenza di precisare le definizioni della proiezione parallela ortogonale. Schreiber nel 1839 critica l'uso della dizione isometrical perspective, usata da Farish e poi ripresa dall'architetto Jopling, osservando come il disegno sia in realtà non una prospettiva, ma una proiezione parallela ortogonale. E se Farish parlava di una isometrical perspective, Sopwith quindici anni dopo, lo definisce più correttamente isometrical drawing; e poi Johnson nel 1869 la riconfronterà con le perspective, descrivendo una isometrical projection contrapposta alla «true or exact perspective».

Giovanni Codazza, contrapponendo alla tradizionale prospettiva concorrente il nuovo metodo della prospettiva parallela, non contribuisce a chiarire i termini del problema. In particolare suppone che «l'occhio dell'osservatore sia collocato a una distanza infinita sul prolungamento di una delle diagonali del cubo» e così riscopre che la proiezione di un cubo così disposto è un esagono regolare. «Lo spirito fondamentale del metodo adunque consiste in ciò che tutte le rette parallele alle tre dimensioni principali sono rappresentate mediante una stessa scala, e tutti gli angoli compresi da esse sono rappresentati da angoli di 60 gradi, o dai loro supplementi».

Il termine corretto, axonometrie, è finalmente coniato dai Meyer nel loro trattato stampato tra il 1852 e il 1862, Lehrbuch der axonometrischen Projectionslehre, dove compare l'intestazione Lehrbuch der Axonometrie, che ingloba l'idea stessa di misurabilità lungo gli assi. La proiezione assonometrica obliqua, invece, trova una sua formulazione generale solo nel 1853 con il teorema di Pohlke. E sarà lo stesso Pohlke a chiarire come le dizioni di prospettiva a volo d'uccello, cavaliera e militare non siano altro che definizioni storiche delle proiezioni oblique. Ma nonostante tutti gli sforzi di chiarimento terminologico, ancora nella seconda metà del XX secolo, un testo russo molto chiaro, nel capitolo dedicato alla proiezione parallela, definisce l'assonometria come una perspective: «La perspective axonométrique parallèle (cylindrique) consiste en principe à rapporter l'objet à un certain sistème de coordonnées et à le projeter par des projetentes parallèles sur un plan avec son système de coordonnées». Ancora oggi nei testi di storia dell'arte e di storia dell'architettura la terminologia utilizzata per definire i diversi metodi e tipi di rappresentazione è affidata alla fantasia dei singoli autori, ma temperata dal buon senso dei lettori che guardano le figure.

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