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| << | < | > | >> |IndiceAVVERTENZA 5 INTRODUZIONE 7 PARTE PRIMA: L'OCCUPAZIONE ITALIANA 1. La spartizione della Jugoslavia 23 2. Inizio della lotta 32 3. L'insurrezione popolare 46 Serbia 47 Montenegro 48 Croazia 56 Bosnia-Erzegovina 60 Slovenia 61 Vicende di italiani 62 4. Prima controffensiva dell'Asse 67 La partecipazione italiana 69 Dissidi tra Tito e Mosca 72 "Gli italiani superano i tedeschi" 74 Vittoria partigiana 78 5. Seconda e terza offensiva dell'Asse 85 Italiani: assassini o "disertori" 88 Atrocità italiane 99 6. Terrore sistematico 103 Aumentano le diserzioni 105 L'operazione "Dinara" 108 Nasce lo Stato partigiano 110 Note 114 PARTE SECONDA: IL "SECONDO FRONTE" IN ITALIA 1. La lotta armata nella Venezia Giulia (1942) 119 Istria 120 Fiume 124 La 1° Compagnia partigiana in Italia (maggio 1942) 126 Cooperazione italo jugoslava 130 2. Rapporti tra comunisti italiani e jugoslavi 134 Note 147 PARTE TERZA: L'ANNO CRUCIALE 1. L'operazione "Weiss" 151 Il passaggio della Neretva 160 L'odissea dei partigiani italiani 163 2. L'operazione "Schwarz" 168 La battaglia della Sutjeska 172 3. Marzo 1943: nasce la prima formazione partigiana italiana 176 Lotta armata in Italia 182 4. Dal 25 luglio all'8 settembre 186 Dopo il 25 luglio 187 L'episodio di Brazza 190 L'8 settembre 193 Note 196 Appendice: NOTERELLE AGGIUNTE PIŮ DI TRENT'ANNI DOPO (maggio-giugno 2011) 1. Stragi, deportazioni ed altri crimini 199 2. Snazionalizzazione violenta 201 3. Testa per dente 202 4. L'"allegro" linguaggio dei generali 204 5. "Fare piazza pulita" 205 6. Fucilazioni e lettere censurate 208 7. Criminale tutto d'un pezzo 209 8. Vittime degli italiani in Slovenia 212 9. Dalla Dalmazia al Montenegro 215 10. Un giorno di giugno 1943 216 11. I lager in mezzo al mare 219 12. Lo sterminio sull'isola di Arbe 222 13. La strage di Pothum 225 14. Dalla zona di Fiume fino a Trieste 227 15. Particolari che fanno rabbrividire 229 16. Qualcuno ha pagato 231 17. Il ricordo smemorato 232 18. "Sei il mio terzo figlio" 235 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 239 INDICE DEI NOMI 243 |
| << | < | > | >> |Pagina 5La prima edizione di questo libro – da gran tempo esaurita – risale al 1977. Uscì a Milano nella collana Esempi dell'editore La Pietra. Alla distanza di oltre trenta anni si è sentito il bisogno di ristamparlo. Perché sono pochissimi, nelle nuove generazioni, coloro i quali conoscono quella pagina nera di storia italiana ed europea che riguarda l'aggressione alla Jugoslavia e la sua occupazione da parte delle forze dell'Asse. Le truppe italiane furono impegnate in quei territori dall'aprile 1941 al settembre 1943 e la loro presenza, nel male e nel bene (il male fatto fu tanto, il bene pochissimo) tuttora pesa nei rapporti fra il nostro popolo e i popoli dell'ex Jugoslavia. | << | < | > | >> |Pagina 7Nel 1941, dopo vent'anni di azione ostile alla Jugoslavia, trame tese alla sua disgregazione, provocazioni, propaganda basata un tempo su velleità d'espansione imperialistica e disprezzo razzista verso quei popoli, Mussolini, entrato in guerra al fianco della Germania, credette giunto il momento di realizzarne con l'aggressione l'assoggettamento. L'invasione della Jugoslavia, travolta dalle divisioni corazzate naziste, nell'aprile 1941 permise al nostro esercito di occupare in poche settimane, quasi senza combattere, parte della Slovenia, la Dalmazia e il Montenegro. Ma se l'esercito regio aveva capitolato in dieci giorni, lasciando il paese alla mercé degli occupatori, i popoli jugoslavi non erano propensi a subire passivamente il giogo; questa volta la loro lotta fu tanto più accanita perché, sotto la guida del partito comunista, acquistava un contenuto rivoluzionario di liberazione, non solo dagli invasori stranieri ma anche dalle vecchie classi dominanti e sfruttatrici. Scagliati dal fascismo l'uno contro l'altro, il popolo italiano e lo jugoslavo soffrirono e sanguinarono. A migliaia i loro figli morirono in una guerra senza quartiere, combattuta da una parte – la nostra – da alcuni con odio e volontà di sopraffazione ma dai più per mera necessità, e dall'altra con consapevole abnegazione, a prezzo di immani sacrifici e innumerevoli vittime, sia tra i partigiani che tra le popolazioni civili. Per due anni e mezzo, dalla primavera del 1941 all'autunno del '43 i due popoli si affrontarono sanguinosamente in una guerra imposta dal fascismo. Se aver scatenato il conflitto era già un crimine, altri ne seguirono durante l'occupazione: quei popoli che con disprezzo razzista si era preteso di schiavizzare seppero portare vittoriosamente a termine una lotta di liberazione senza pari in Europa, che non solo attrasse nelle sue file centinaia di italiani ma dette anche un contributo determinante di uomini e di esperienze alla Resistenza italiana. Oltre quarantamila furono gli italiani che, sopravvissuti ai massacri e non cedendo alle intimazioni di resa da parte dei tedeschi dopo l'8 settembre, si unirono ai partigiani jugoslavi, combattendo in Montenegro e in tutte le altre regioni del paese, dando prova di valore e conquistandosi la fiducia, l'affetto dei compagni d'arme e delle popolazioni locali. Ventimila di essi caddero, riscattando con il sangue – non è retorica il dirlo – le infamie dell'aggressione e della repressione. I nuovi rapporti di fratellanza fra i due popoli furono contemporaneamente alimentati dai combattenti jugoslavi in Italia. Nei due anni precedenti il settembre 1943, migliaia di militanti del movimento di liberazione jugoslavo erano stati trasferiti nelle carceri italiane, nei campi di internamento e nei luoghi di confino. Dopo l'8 settembre alcuni riuscirono a tornare nel proprio paese, mentre la maggior parte rimase a lottare nella Resistenza italiana, soprattutto nell'alto Lazio, nelle Marche, in Umbria, in Romagna, in Toscana e anche in Liguria, dove Anton Ukmar (Miro) e Gregor Cupić (Boro) comandarono rispettivamente la VI Zona e la Divisione Garibaldi "Mingo". Forti della loro esperienza, i combattenti jugoslavi furono elementi di punta nella lotta, meritandosi l'ammirazione dei resistenti italiani e delle popolazioni. Oltre milleduecento di essi sacrificarono la vita.
Già molto prima dell'8 settembre i comunisti italiani del Friuli-Venezia
Giulia, terra di confine abitata da popolazioni mistilingui, avevano preso
contatto con il movimento di liberazione sloveno e croato,
ivi operante dal 1942; alcuni vi si erano direttamente inseriti, altri
nel marzo 1943 avevano costituito in provincia di Gorizia un primo
"Distaccamento Garibaldi". Tali precedenti fecero sì che nel settembre 1943
questa diventasse la prima regione partigiana della Resistenza italiana: per 15
giorni, nei pressi di Gorizia, circa mille
operai del cantiere di Monfalcone (si definirono 'Brigata Proletaria')
affrontarono al fianco dei partigiani sloveni le divisioni naziste che calavano
dall'Austria; non potevano non esserne alla fine
travolti e duecento caddero nel combattimento, ma poco dopo si ricostituivano i
primi battaglioni che, il 17 ottobre, davano vita alla
prima Brigata Garibaldi sorta in Italia. Era la "Friuli" che, al dicembre dello
stesso anno, già aveva 84 caduti. Nel quadro composito
della Resistenza italiana, così diversa da zona a zona secondo le
forze e gli uomini impegnati nella lotta, i combattenti jugoslavi e gli
italiani reduci dalla Jugoslavia portarono un 'esperienza aliena da
compromessi e una chiara impronta sociale. Nella formazione dei
Comitati di Liberazione e del CVL, nel promuovere organizzazioni di
massa giovanili e femminili, nel creare le "zone libere" e così via ci
si ispirò spesso agli esempi che venivano dalla Jugoslavia e che la
stampa partigiana frequentemente illustrava, tanto da poter affermare che, senza
l'apporto dei "fratelli maggiori" partigiani jugoslavi, l'immagine e lo sviluppo
della Resistenza italiana, nata dopo, non sarebbero stati quali furono.
Queste realtà di grande interesse storico, politico e umano fanno da sfondo al presente lavoro di Giacomo Scotti sugli italiani in Jugoslavia. Mentre nelle precedenti opere l'Autore presenta il frutto delle sue ricerche sugli italiani rimasti a combattere nelle file dell'esercito partigiano jugoslavo dopo la capitolazione dell'Italia, qui affronta il tema, ancora sconosciuto e per gli italiani assai scottante, dell'occupazione dall'aprile 1941 al settembre 1943. In questo quadro assai complesso e ricco di vicende, particolarissima menzione merita poi un fenomeno che, praticamente ignorato nei nostri studi sulla Resistenza italiana all'estero ha visto il passaggio di un gran numero di militari italiani, fin dal 1941, all'altro lato della barricata. Per quanto si fosse già scritto qualcosa sullo stato d'animo dei nostri soldati in Jugoslavia, sulla loro avversione al fascismo e alla guerra, e si sapesse anche che parecchi di loro erano passati ai partigiani nel corso dell'occupazione, non se ne conosceva il numero nemmeno approssimativo, non si avevano dettagli né si sapeva quando, dove e come tanti avessero compiuto quella scelta coraggiosa. Scotti qui parla diffusamente e documentatamente di tutto ciò, affrontando inoltre altri temi non meno importanti e poco noti. [...] Mario Pacor (Trieste 1915-Bergamo 1984) | << | < | > | >> |Pagina 231. La spartizione della Jugoslavia Prima di attaccare l'Unione Sovietica (operazione "Barbarossa"), Hitler avvertì il bisogno di assicurarsi il controllo dei Balcani. In Grecia la "passeggiata" dell'esercito italiano, iniziata il 20 ottobre 1940, era stata vigorosamente contrastata dalla resistenza popolare e la situazione minacciava di complicarsi ulteriormente a causa del preannunciato intervento delle truppe britanniche. Per accorrere in aiuto di Mussolini, già nel dicembre 1940 il Führer aveva emanato le direttive per l'operazione "Marita", che doveva consistere in un massiccio attacco tedesco alla Grecia lanciato dalla Romania attraverso la Bulgaria. A tale scopo erano state fatte pressioni sul governo bulgaro e il 29 gennaio 1941, intimorito dalle truppe naziste, che già avevano varcato i confini, questo aveva aderito al patto Tripartito. Non altrettanto arrendevole appariva la Jugoslavia. Tuttavia, dopo allettamenti e minacce, il 25 marzo anche i governanti di questo paese sottoscrissero a Vienna il Tripartito. Il loro gesto provocò però una violenta sollevazione popolare che due giorni dopo rovesciò il governo e il principe reggente Paolo, nominando re il diciottenne Pietro II e insediando un nuovo governo presieduto dal generale Dusan Simović. Questi offrì subito a Hitler la firma di un patto di non aggressione, ma il capo del nazismo si riteneva troppo oltraggiato dal gesto di ribellione del popolo jugoslavo per accettare. Il 27 marzo 1941 Hitler convocò d'urgenza a Berlino il suo Stato Maggiore. Alla presenza di Goering, Keitel, von Puttkamer, von Below, Christian, Halder, Brauchitsch, Bodenschatz, Heusinger, Sieverth, Hewel, Jodl, Schmidt, von Waldau e von Rintelen, arrabbiatissimo il Führer si dichiarò "deciso – come si legge nel verbale della seduta – ad avviare tutti i preparativi per infrangere la Jugoslavia militarmente e come Stato, senza attendere eventuali dichiarazioni di lealismo da parte del nuovo governo". Per avere il tempo di schiacciare il paese "con spietata durezza", l'operazione "Barbarossa" verrà rimandata di cinque settimane rispetto alla data già stabilita. Nel corso della giornata fu inviato al duce questo messaggio: La guerra contro la Jugoslavia potrebbe essere molto popolare in Italia, Ungheria e Bulgaria, poiché a questi paesi devono essere fatte intravvedere possibilità di ottenere certi territori: all'Italia la costa dalmata, all'Ungheria il Banato, alla Bulgaria la Macedonia. Ricevuto il messaggio, alle 3 di notte del 28 marzo Mussolini così rispose al capo tedesco: Desidero dirvi, Führer, che se la guerra si rendesse inevitabile, essa sarà in Italia molto popolare. Il duce comunicava inoltre che reparti italiani di fanteria stavano già affluendo verso la frontiera settentrionale dell'Albania, prendendo posizione "sulle direttrici di eventuali attacchi jugoslavi"; aggiungeva di aver ordinato lo spostamento di 7 divisioni sulla frontiera alpina orientale per unirle alle 6 già esistenti e ai 15.000 uomini di guardia al confine. La sera stessa del 27, poi il 28, il 29, il 30, il 31 marzo e il 2 aprile gli Alti Comandi tedeschi diramarono speciali direttive per l'attacco alla Jugoslavia. Da parte italiana, invece, le prime direttive partirono il 5 aprile. Quel giorno Mussolini telegrafò al capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale Mario Roatta: All'inizio delle ostilità con la Jugoslavia fate sapere a quanti sono schierati alla frontiera giulia che chiunque, ufficiale, graduato o soldato, ripieghi senza ordini da una posizione che doveva essere difesa ad oltranza, sarà passato immediatamente per le armi. Confermate ricevimento presente. Nella stessa giornata lo Stato Maggiore dell'Esercito inviò il seguente telegramma al comandante della II Armata generale Vittorio Ambrosio: Inizio ostilità domani mattina ore 6. Pregasi dare conoscenza presente telegramma at eccellenza Capo di Stato Maggiore Regio Esercito. Ricevuta telegrafica citando numero telegramma. Infine il 7 aprile, quando le operazioni tedesche erano già in corso, il Comando della II Armata diramò gli ordini sulle "operazioni offensive alla nostra frontiera orientale" ai comandanti del V Corpo d'armata (generale Riccardo Balocco), del VI Corpo d'armata (generale Renzo Dalmazzo), dell'XI Corpo d'armata (generale Mario Robotti), del Corpo d'armata celere (generale Ferrari Orsi), dell'Artiglieria (generale Giulio Martinetti), del Genio (generale Raffaele Canessa), dell'Intendente (generale Raffaele Pelligra) e dell'Aviazione (colonnello Renzo Severoni). Nonostante le preoccupazioni di Mussolini e dei suoi generali circa possibili ripiegamenti delle proprie truppe, le cose andarono lisce, grazie soprattutto alla totale impreparazione militare dell'esercito jugoslavo e alla potentissima macchina bellica tedesca. Gli italiani peraltro occuparono dovunque in ritardo i loro obiettivi e dovettero accontentarsi di poche fette del grosso bottino. Hitler aveva sferrato l'attacco all'alba della domenica delle Palme, 6 aprile, senza dichiarazione di guerra, come era ormai sua abitudine. La città di Belgrado, quantunque fosse stata dichiarata dal governo jugoslavo "citta aperta" insieme a Zagabria e a Lubiana, fu in gran parte distrutta da uno spietato bombardamento aereo ed ebbe circa 20.000 morti. Le truppe germaniche incontrarono poche e deboli resistenze. Irrompendo dalla Bulgaria occidentale, infransero le difese di Nis, di Skopje e della valle del Vardar. Un'altra colonna, dopo aver conquistato Salonicco, avanzò dalla Grecia settentrionale attraverso Bitola e lungo la costa del lago di Ohrid, dove si congiunse con i reparti italiani provenienti dall'Albania. Con un'avanzata ancora più rapida dal nord, il 10 aprile i germanici raggiunsero Zagabria e il giorno seguente, al sud, presero Kragujevac. Soltanto a quella data una colonna italiana raggiunse Lubiana mentre le altre, convergendo dall'Albania e da Fiume, invadevano la costa dalmata. Contemporaneamente le truppe dei paesi satelliti entravano nei territori loro assegnati: gli ungheresi occuparono parte della Vojvodina e della Slovenia con Novi Sad e Osijek, i bulgari la maggior parte della Macedonia e una fetta della Serbia. Perduto ogni controllo sul paese e sulle forze armate disintegratesi, il governo jugoslavo e il re Pietro si rifugiarono a Sarajevo (Bosnia) e poi nel Montenegro, donde raggiunsero in volo il territorio degli Alleati. All'alba del 17 aprile era cessata ogni resistenza organizzata. Un colonnello dell'esercito regio, il serbo Draza Mihailović, si ritirò sui monti con qualche centinaio di ufficiali e alcuni reparti armati. Alle 18 e 22 del 17 aprile il Nucleo Magliari, ovvero il centro di collegamento italiano presso il Comando supremo tedesco, per mezzo dell'ambasciatore d'Italia a Belgrado trasmise al Superesercito e al Comando della II Armata, il seguente telegramma: Regio addetto militare a Belgrado est autorizzato dal Duce a partecipare in qualità di plenipotenziario alle trattative con delegazione esercito jugoslavo sulla base di una resa incondizionata. Le trattative non furono lunghe. Poche ore dopo, un altro telegramma del Nucleo Magliari al Superesercito e al Comando della II Armata confermò: Armistizio con Jugoslavia firmato ore 21 di oggi in Belgrado con resa incondizionata. Esso entra in vigore 18 corrente ore 12 (ora estiva italo-tedesca). Il 23 aprile venne fissata la linea di demarcazione fra i settori italiano e tedesco di occupazione. Alla fine di aprile la spartizione della Jugoslavia era compiuta. La Germania si prese naturalmente la parte del leone: incorporò nel Reich la metà settentrionale della Slovenia e il Banato, assunse il controllo militare dell'intera Vojvodina formalmente amministrata dagli ungheresi e altrettanto fece con la Serbia, affiancando una propria amministrazione militare al governo fantoccio del generale collaborazionista Milan Nedić. L'Italia si riservò la "provincia" di Lubiana, ciò che era rimasto della Slovenia, nonché considerevoli fette del litorale dalmatico e alcune isole; inoltre assunse il controllo militare del Montenegro nominalmente indipendente e ottenne l'ingrandimento dell'Albania, con l'aggiunta della pianura del Kossovo e di una fetta della Macedonia. | << | < | > | >> |Pagina 31Nei territori annessi allo Stato italiano i fascisti iniziarono comunque l'opera di "pacificazione", imponendo una serie di misure, quali la italianizzazione di tutte le insegne pubbliche, la soppressione della stampa locale, l'obbligo di salutare romanamente negli uffici e in pubblico, lo scioglimento delle società culturali e sportive croate e slovene, l'italianizzazione dei cognomi, il licenziamento dei pubblici funzionari e la loro sostituzione con personale mandato dall'Italia, il parziale esproprio di terreni da distribuire a ex combattenti italiani, il trasferimento coatto della popolazione. Alle coercizioni legali si aggiunsero i metodi fascisti nella propaganda, le intimidazioni e il terrorismo.I peggiori arnesi dello squadrismo fascista vennero affiancati ai comandanti militari: commissario per il Montenegro fu nominato Serafino Mazzolini, già capo degli squadristi di Ancona e vicesegretario del PNF; il medesimo incarico in Slovenia fu affidato a Emilio Grazioli, già segretario federale di Trieste. I fascisti, che inizialmente erano stati sorpresi dal trattamento "inumano", "spietato" e dai "più cupi soprusi" commessi dagli alleati nazisti in Slovenia e in Croazia ("Spoliazioni, rapine, uccisioni sono all'ordine del giorno. Le chiese e i conventi devastati e chiusi", annotava Ciano il 28 aprile 1941), imitarono subito i camerati tedeschi. Ai primi di giugno del 1941, in occasione del primo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia, Mussolini indicò gli obiettivi "nazionali" da perseguire sulla sponda orientale dell'Adriatico: Far coincidere a un certo punto i tre elementi: razza, nazione, Stato. Gli Stati che si caricano di troppi elementi alloglotti hanno una vita travagliata. Può essere a volte inevitabile averli, per ragioni di sicurezza strategica. Bisogna adottare verso di essi un trattamento speciale, premessa, beninteso, la loro assoluta lealtà di cittadini verso lo Stato. Comunque quando l'etnia non va d'accordo con la geografia, è l'etnia che deve muoversi. Gli scambi di popolazione e l'esodo di parti di esso sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali. Dal momento che gli slavi non erano certo di "razza italiana", bisognava farli sloggiare dalla loro terra, estirparli. D'altra parte, nell'esercito italiano e nelle popolazioni civili si faceva sempre più netta la linea di demarcazione morale e ideologica che isolava i fascisti. Uno di questi ultimi, il telegrafista Cosimo, scrivendo all'amico Raffaele Ippolito il 30 luglio 1941, si vantava: Noi qui facciamo la guerra sul serio contro questa gente che è il popolo meno civilizzato e contro la canaglia comunista (... ); bevono olio di ricino e ne fuciliamo molti. I risultati sono noti: secondo la Commissione di Stato di Belgrado per la ricerca dei crimini di guerra, all'occupante italiano va attribuita la morte di poco meno di mezzo milione di jugoslavi. | << | < | > | >> |Pagina 2128. Vittime degli italiani in SloveniaLe perdite subite dalla Jugoslavia in seguito all'occupazione dei tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari, furono un milione e 706 mila morti, pari al 10,8 per cento della popolazione presente nel 1941, dei quali oltre 400.000 nei territori occupati o annessi dagli italiani. In questi territori si ebbe la distruzione del 25 per cento delle abitazioni per un valore all'epoca di 125 milioni di dollari. Nel volume Slom Kraljevine Jugoslavije (Il crollo del Regno di Jugoslavia, Belgrado 1982) il suo autore Velimir Terzić calcolò invece in circa 749.000 le vittime dell'occupazione italiana ("gli italiani lasciarono dietro di sé il deserto") compresi feriti, invalidi e deportati. Le persone uccise furono esattamente 437.395. La cifra fatta da Terzić dei morti jugoslavi per mano italiana si avvicinava dunque a quella ufficiale presentata dal governo di Belgrado alla conferenza di pace. A sua volta in polemica col "serbo comunista" Terzić, lo studioso croato di statistica Zvonimir Žerjavić di Zagabria ha scritto nel 1989 il libro Gubici stanovništva Jugoslavije u drugom svjetskom ratu (Perdite della popolazione della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale), riducendo notevolmente i numeri delle perdite civili provocate dagli occupanti italiani, calcolando che nei territori della Croazia e Slovenia i civili uccisi furono 176.000. Sommando a questi i civili uccisi durante l'occupazione italiana in Montenegro e in parte della Bosnia-Erzegovina, si superano abbondantemente le 300.000 persone. Siamo pur sempre di fronte a un orrendo bilancio di sangue. Senza contare gli invalidi e i deportati. Nella sola "Provincia di Lubiana", e cioè nella parte della Slovenia occupata e annessa all'Italia dall'aprile 1941 all'inizio di settembre 1943 il Tribunale militare di guerra presieduto dapprima dal colonnello Antonio Benincasa e poi dal pari grado Ettore Giacomelli dell'arma dei carabinieri, istruì 8.737 processi contro 13.186 imputati comminando 83 condanne a morte, 432 ergastoli ed oltre 2.600 condanne a 30 anni di carcere, vittime partigiani e civili. Secondo la "Relazione n.4" (Slovenia) della Commissione di Stato jugoslava sui crimini italiani inviata alla War Crimes Commission a Londra nel febbraio 1945, "gli invasori italiani hanno fucilato 1.000 ostaggi e ammazzato proditoriamente oltre 8.000 altre persone" nei rastellamenti. Inoltre, "hanno incendiato 3000 case, deportato oltre 35.000 persone, uomini, donne e bambini". Devastarono completamente oltre 800 villaggi. Attraverso gli uffici delle questure di Lubiana "passarono decine di migliaia di sloveni, sottoposti alle più orrende torture, donne violentate e torturate a morte". Dai campi di concentramento italiani oltre 11.000 non fecero ritorno, morti per fame, freddo, stenti e malattie, per lo più bambini e donne. In altre parole, in soli due anni più di cinquantamila sloveni della provincia di Lubiana,, su una popolazione di 350.000, furono sterminati. Queste cifre sono state confermate ed ampliate dalle ricerche dello storico Tone Ferenc pubblicate nel suo libro Si ammazza troppo poco (pubblicato nel 1999 dall'Istituto per la storia moderna di Lubiana) e ripetute in una denuncia penale presentata al Tribunale di Lubiana dall'avvocato Dušan Puh di Portorose contro 53 criminali di guerra italiani il 26 maggio dello stesso anno a nome di 128 cittadini sloveni e di undici organizzazioni combattentistiche. Le indagini del Ferenc e del Puh sono sunteggiate da Del Boca in Italiani brava gente?. Dalla denuncia di Puh, in particolare, si ricava che 84 civili morirono in seguito alle torture, altri 103 furono arsi vivi nelle loro case. Secondo Del Boca nella provincia di Lubiana si era tentata, più che un'italianizzazione rapida e forzata, un'operazione di autentica bonifica etnica" confermata "dall'altissimo numero di uccisi e dei deportati e dalle stesse dichiarazioni di alcuni alti ufficiali. In proposito lo storico italiano, oltre a quelle del generale Robotti, da noi già riferite, riporta quelle del maggiore Giuseppe Agueci: Gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà. E non ci fu pietà. Fu sterminato il 2,6 per cento della popolazione e furono addirittura il 10 per cento i deportati della regione slovena annessa! Questi crimini, nota bene, furono commessi per ordine delle stesse autorità militari e civili che, nei primi mesi dell'invasione occupazione, proclamarono fallacemente che le popolazioni dei territori occupati (e poi annessi) sarebbero state "rispettate nei loro beni e nella loro integrità fisica, in ossequio delle convenzioni internazionali". Invece, fin dai primi giorni, sia pure senza troppo chiasso, le autorità cominciarono ad attuare una ben delineata politica di snazionalizzazione e di fascistizzazione. Con telegramma n.153 R S-1 del 21 maggio 1941, il Commissario civile della "Provincia di Lubiana", Grazioli, ordinò il trasferimento nella capitale slovena della XL Legione di Camicie Nere stazionata a Sesana, con il compito di continuare l'opera di snazionalizzazione "brillantemente" attuata entro i vecchi confini della Venezia Giulia. | << | < | > | >> |Pagina 21911. I lager in mezzo al mareI campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. I più malfamati campi di concentramento furono quelli di Arbe (Rab) ed altri in Dalmazia, di Gonarsi in Friuli, di Renicci nei pressi di Anghiari (Arezzo), Fraschette di Alatri (Frosinone), Cairo Montenotte (Savona), Poggio III Armata e Castagnevizza nei pressi di Gorizia, Tavernelle in provincia di Perugia, Pisticci, Ferramonti, Brunello (Bergamo). A questi vanno aggiunti i campi di internamento di Corropoli, Colfiorito, Lanciano, Casoli, Pollenza, Sassoferrato, Scipioni, Lipari, Ustica eccetera. Non si contano, poi, i campi di transito che funzionavano lungo il litorale del Quarnerno, nell'Alto Adriatico. Ricorderemo subito quelli di Fiume, di Buccari (Bakar) e Portorè (Kraljevica) ad est di Fiume. Del numero complessivo di questi campi, delle torture in essi subite dagli jugoslavi, dei morti e delle altre cose orrende dell'"interramento civile" nell'Italia fascista parla diffusamente lo storico Carlo Spartaco Capogreco nel volume I campi del duce (Einaudi, 2004). Scrive l'autore: In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento. Più avanti, dopo aver denunciato i "tanti silenzi e rimozioni", i "buchi neri" e la "relativizzazione dei crimini fascisti" che avvolgono la storia dell'occupazione italiana dell'ex Jugoslavia, Capogreco si sofferma sulle "condizioni disumane" dell'internamento dei civili tenute nascoste purtroppo dalla storiografia italiana e perciò oggi "estranee al bagaglio culturale degli italiani". In particolare, evidenzia: primo, durante il ventennio fascista il numero dei condannati e confinati "slavi" della Venezia Giulia e dell'Istria fu particolarmente elevato, e non a caso dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli "ospiti" dei campi di concentramento italiani era costituita da civili sloveni, croati e montenegrini; secondo, il numero totale dei civili internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le "leggi eccezionali"; non a caso, più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. In Dalmazia campi di internamento – oltre che ad Arbe – furono istituiti a Vodice, Osljak, Zlarin, Divulje, sulle isole di Ugljano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest'ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, "un sepolcro di viventi". In questi e negli altri lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono altre 2.000 accertati (3.500 stimati), fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. A proposito, ecco un documento del 15 dicembre 1942. In quella data l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati "presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame". Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo. Ma anche di fronte allo sterminio di Arbe, documentato da storiografi italiani e da almeno una decina di ricercatori sloveni e croati in altrettanti libri, ai quali si aggiungono opere di memorialistica dei sopravvissuti, qualcuno in Italia, oggi, falsifica e minimizza. In una lettera al quotidiano «Il Piccolo» di Trieste (23 febbraio 2005) l'ex ufficiale mussoliniano Dino Papo afferma che gli internati di Arbe erano politici, comunisti, e che "famiglie intere" furono lì "ospitate" perché "avevano chiesto protezione in quanto invise al regime comunista di Tito", e non vittime di rastrellamenti e di operazioni per la cattura di ostaggi. Tanto è vero che dopo la fuga dal campo, il 9 settembre 1943, i superstiti – in gran parte ebrei e intellettuali – formarono una brigata partigiana inserita nell'esercito di Tito. Per il Papo la morte di migliaia di bambini e vecchi diventa "la morte di diversi bambini" e il messaggio del generale Robotti non fa una piega. La risposta di una sopravvissuta alle sofferenze di quel lager, Nada Milić, fu pubblicata sullo stesso giornale triestino al 4 marzo 2005. Dopo aver lamentato che in Italia gli 11.606 internati civili sloveni e croati morti nei sessantasette campi di internamento voluti dal Duce, vittime innocenti di una strategia di disumanizzazione e di annientamento realizzata sull'isola di Arbe/Rab (...) non hanno oggi nessuno che li difende o che si ricordi di loro". Nada Milić aggiunse: L'internamento nel campo di Arbe/Rab, iniziò nel giugno del 1942, con l'installazione di un migliaio di tende a sei posti. Il campo dipendeva dalla Seconda armata, ed era diretto dal comandante del presidio dell'isola, il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli. Al servizio di "guardia e sicurezza" furono impiegati duemila fra soldati e carabinieri. Le condizioni di vita nel campo erano estremamente penose, contrassegnate dalla fame, dal freddo e dal sovraffollamento. Durante i temporali più di una volta la pioggia intasò le latrine, e il letame si versò fra le tende. La razione di pane non superava gli 80 grammi al giorno. Il campo rimase operativo per 13 mesi, fino al settembre del 1943, quando ci fu l'armistizio, ma in questo periodo la mortalità raggiunse il 19 per cento, mentre nel campo di sterminio nazista di Buchenwald fu "soltanto" del 15 per cento. (...) Ma sappiamo che per crimini di guerra nessun italiano, militare o civile, è mai stato condannato. L'Italia ha sulla coscienza anche una sua "Norimberga italiana" che non c'è mai stata. | << | < | > | >> |Pagina 23217. Il ricordo smemorato
Nella semina dell'odio (e delle menzogne) da parte dell'estrema
destra neofascista in Italia rientra, tra mille altri, un recente episodio.
In occasione delle celebrazioni della Giornata del Ricordo
"in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo"
nel febbraio del 2011, un
manifesto di quella manifestazione organizzata a Bastia Umbra (Perugia) dalle
autorità locali in collaborazione con l'Unione degli
Istriani" di Trieste ha presentato una foto di soldati italiani che fucilano
civili sloveni, contrabbandandola come foto di partigiani titini
che fucilano civili italiani della Venezia Giulia nell'immediato dopoguerra. Un
crimine commesso delle truppe di occupazione italiane
è stato presentato come un gesto di violenza partigiana. Un tentativo
ignobile, disgustoso e perverso di manipolare la storia. Si trattava di
ostaggi civili sloveni, esattamente cinque, fucilati il 31 luglio 1942
nel villaggio di Dane, valle di Loska Dolina, alcune decine di chilometri a
sud-est di Lubiana, durante una offensiva italiana contro i "ribelli". Nei libri
di storia sloveni si ricordano anche i nomi delle
vittime innocenti che i fascisti d'oggi vogliono far passare come "italiani
uccisi e poi infoibati": Franc Znidarsić, Janez Kranjc, Franc
Skerbec, Feliks Znidarsić ed Edvard Skerbec.
Ancora un'annotazione a proposito della campagna contro i partigiani della
ex Jugoslavia condotta da anni nella "Giornata del Ricordo" per rammentare "i
crimini dei barbari slavocomunisti titini".
Mi ha fermato per strada a Fiume/Rijeka un ex partigiano croato
istriano: Veljko Margitić, nativo di Pola, oggi quasi novantenne,
dicendomi in italiano: "Se avrai l'occasione, cerca di pubblicare questa mia
testimonianza", consegnandomi un foglio scritto, facendo
qualche aggiunta a voce.
Leggendo vari giornali e riviste italiane ed ascoltando la televisione italiana, sento continuamente storie sulle cosiddette foibe in cui noi partigiani avremmo gettato i nostri corregionali italiani ma anche i soldati italiani di occupazione, sui maltrattamenti che avrebbero subito quegli italiani dopo la capitolazione dell'Italia nel settembre 1943 ed altre sciagure subite da quei civili e soldati in Istria, a Fiume e dintorni. Si dimentica di ricordare il comportamento umano e generoso avuto dai nostri partigiani verso gli italiani. Ecco alcuni miei ricordi personali. All'epoca, nell'agosto-settembre 1943, io ero partigiano nel Settore marittimo dell'alto Adriatico, e navigavo sulla nave "Slavija" contrassegnata dalla nostra stella rossa, trasportando merci varie dai magazzini di Porto Baross (Susak, sul confine con Fiume) fino a varie località sulle isole da noi liberate, ma soprattutto al porto di Segna da dove quella merce veniva trasportata via terra verso l'interno della Croazia, sempre diretta alle formazioni partigiane. Lo stesso compito veniva svolto da altre navi partigiane: "Makarska", "Lav" ed altre, che trasportavano pure i nostri reparti tra un'isola e l'altra fino al Quarnero. Intorno al 10-11 settembre 1943, dopo un ritorno da Segna a Susak, ci pervenne l'ordine del superiore Comando partigiano: ciascuna nostra nave doveva imbarcare il maggior numero possibile di soldati italiani che arrivavano ormai allo sbando dall'interno della Croazia verso la costa, provenienti per lo più da Ogulin, Gospić e da altre località, e di trasportarli fin presso la stazione ferroviaria di Fiume, permettendo loro di proseguire il viaggio in treno verso Trieste, di ritornare finalmente in patria, in Italia. Caricammo alcune migliaia di soldati italiani affluiti a Segna, compiendo allo scopo diversi viaggi. Soltanto la nostra piccola nave ne trasportò più di mille in tre-quattro viaggi Segna-Fiume. A bordo eravamo una cinquantina di partigiani armati, compreso il capitano comandante della nave, e quasi tutti – essendo istriani e dalmati – conoscevamo l'italiano, sicché potevamo chiacchierare con i soldati italiani. Erano spaventati, non sapevano che fine avrebbero fatto nelle nostre mani. Gli ufficiali per anni avevano dipinto i "ribelli" come dei diavoli assetati di sangue. Ora si trovavano di fronte a gente allegra, che conosceva la loro lingua e augurava loro di rivedere presto i loro familiari. Ma ancora dubitavano di noi, ci temevano. Quando li sbarcammo alla stazione di Susak-Pećine, e poterono salire a bordo del treno per San Pietro del Carso-Trieste, presero a ringraziarci senza fine, qualcuno ci abbracciò.
Nel corso di quei trasporti ebbi l'occasione di incontrare diverse navi con
la stella partigiana nel porto di Segna addette allo stesso compito, quello di
trasportare i soldati italiani. Un giorno, mentre eravamo riuniti nel porto di
Segna su tre-quattro navi in attesa che i soldati s'imbarcassero per la partenza
verso Fiume, arrivarono i caccia-bombardieri tedeschi che presero subito a
sganciare bombe e mitragliare. Alcune navi furono colpite in pieno, affondando,
mentre noi della "Slavija" riuscimmo a fuggire, allontanandosi con un centinaio
di solati italiani e cercando riparo in una insenatura sulla costa di Baska,
sull'isola di Veglia. La nave aveva subito danni. Alcuni giorni dopo
raggiungemmo il cantiere navale di Punat (Villa di Ponte) per le riparazioni.
Venimmo a sapere che quasi tutti i marinai e, con essi, i soldati italiani che
si trovavano sulle navi colpite e affondate a Segna, si erano salvati.
Anch'essi, sul finire di settembre, poterono raggiungere l'Italia.
A questo punto do la parola a una lettrice del quotidiano triestino «Il Piccolo» Luisa Minetti, che in data 19 ottobre 2010 ha ospitato la sua lettera. Ne rileggiamo un brano: Ci sono sempre due Trieste, una funerea come le sue insegne e i suoi gagliardetti, che domenica dal neocostituito e inaugurato Museo della "Decima Mas" di via Ghega n. 2 si è recata al Museo della civiltà dell'Istria, Fiume e Dalmazia, accolta con calore da Piero Del Bello, nell'oscura via Torino, città che cova vecchi rancori mai sopiti e quotidianamente rinfocolati. E l'altra Trieste, luminosa come l'altipiano carsico, quella della libertà e della solidarietà, custode di valori e sacre Memorie che ha reso omaggio in via Cologna, sempre domenica, scoprendo una lapide nel luogo che "a egregie cose il forte animo" accende, dove furono torturate decine e decine di partigiani italiani, sloveni e croati dalla famigerata banda Collotti, sede già dell'Ispettorato di P. S. della Venezia Giulia. Quei patrioti venivano rastrellati dai reparti nazisti, supportati dalle forze fasciste dei collaborazionisti repubblichini che Panzarasa glorifica al n. 2 di via Ghega. Molti di quei citati patrioti trovarono poi la morte nei campi di sterminio della Polonia e della Germania o furono subito dopo fucilati dai nazifascisti. Sta ai triestini scegliere (...) quale Trieste vogliamo. | << | < | > | >> |Pagina 23518. "Sei il mio terzo figlio"Concluderò facendo un lungo salto indietro, al giorno della resa del nostro esercito, l'8 settembre 1943. Č un episodio accaduto nel Montenegro, alla 37a Compagnia del battaglione "Intra" (divisione "Taurinense" alpina), comandata dal capitano Pietro Zavattaro Ardizzi. La compagnia era impegnata da parecchi giorni in un'operazione di rastrellamento in alta montagna quando, la mattina dell'8 settembre, attaccò il solitario villaggio di Crna Gora, strenuamente difeso dai pochi abitanti. La notte precedente, in tutti i casolari investiti dal "rastrellamento", s'erano levati i fuochi degli incendi rituali: bruciarono capanne e pagliai, perché le case di pietra erano state già distrutte nel maggio precedente. Sempre dai nostri soldati, divisione "Ferrara", che compirono una delle più spaventose stragi e innumerevoli atti di ferocia. Li racconta lo storico montenegrino Radislav Marojevi nel volume "Župa Nikši ka" (La Zupa di Nikši, Nikši, 1985), presentando un'abbondante documentazione. Dunque, nel quadro delle operazioni del maggio 1943, alcuni reparti della divisione "Ferrara" e un battaglione tedesco di SS penetrarono in Valle Zupa di Nikši il 28 maggio, rimanendovi anche il 29 senza incontrare un solo partigiano. Ma in quei due giorni avvenne l'inferno. Le poche famiglie che, disubbidendo alle direttive dei comandi partigiani in ritirata, avevano voluto restare, in attesa fiduciosa del ritorno delle truppe italiane, furono vittime di violenze inenarrabili: uomini fucilati, donne ed anziani gettati vivi nel fuoco delle loro case date alle fiamme, fanciulle violentate e poi massacrate. Il bilancio fu di 90 persone uccise, 680 case incendiate, chiese saccheggiate. I soldati commisero tali e tanti atti di ferocia che tuttora nei villaggi della Zupa, per significare una strage, si usa dire "il Ventinove maggio". All'alba dell'8 settembre, dunque, gli italiani erano tornati, attaccando col battaglione "Intra": ad eccezione di poche case, tutto fu distrutto dalle fiamme. L'azione avrebbe dovuto continuare nelle giornate successive e concludersi con la "totale distruzione dei partigiani", allo scopo erano state già rese note ai comandanti di reparti le disposizioni per l'indomani. In serata, invece, arrivò la notizia dell'armistizio. Così non ci furono altri rastrellamenti; chi avrebbe dovuto continuare a rastrellare i partigiani e a bruciare i villaggi dei "comunisti" venne a trovarsi da quel giorno di fronte ai tedeschi. Quanto al capitano Zavattaro Ardizzi, lo ritroveremo nel maggio 1944 al comando di un reparto partigiano della divisione "Garibaldi" nel villaggio di Crna Gora, quello stesso da lui attaccato e fatto bruciare all'inizio di settembre 1943. Lui e i suoi soldati non più alleati dei tedeschi e dei cetnici, ma partigiani di Tito, braccati dai tedeschi e dai cetnici, cercavano di uscire dalla morsa nemica insieme ai partigiani jugoslavi. Leggiamo una rievocazione dello stesso Zavattaro Ardizzi scritta nel maggio 1977, esattamente un mese prima di morire (col grado di generale d'armata). Con il tenente Simonetta raggiungo all'imbrunire del 14 maggio il piccolo villaggio di Crna Gora sulla mulattiera che da Trsa porta a Žabljak attraverso il passo di Stolac. Siamo sfiniti e cerchiamo ricovero nelle case. Gli abitanti non vogliono ospitarci perché comprendono che siamo convalescenti di tifo petecchiale ed hanno terrore del contagio. Leghiamo i cavalli allo steccato che circonda lo spiazza della chiesetta ortodossa e, dopo aver tolto agli animali le coperte che ci servivano da sella, ci stendiamo sul sagrato della chiesa coprendoci con quelle. Intorno il terreno è coperto da chiazze di neve, il sole è ormai scomparso e comincia far freddo. Crna Gora è sui 1500 metri di altitudine. Dopo poco che sono disteso, mi "sento" fissare: alzo gli occhi e mi trovo circondato da una decina di uomini. Dico loro che quella notte probabilmente moriremo per il gelo in quanto 'loro' non ci hanno accolti, sebbene fossimo combattenti per la libertà della loro Patria. Uno degli uomini si china su di me e mi solleva, dicendomi di seguirlo in casa sua. Quando ci troviamo nella piccola casetta, seduti intorno al fuoco, circondati dagli anziani del villaggio che vogliono dagli stranieri notizie, i padroni di casa ci offrono latte caldo. Ad un tratto la moglie del nostro ospite parla sottovoce al marito e questi mi guarda intensamente. Improvvisamente mi apostrofa: Sei tu il capitano che nella scorsa estate comandava gli alpini che hanno attaccato questo villaggio? Era vero, quel capitano ero io, allora in guerra contro i partigiani che appunto erano della zona (...). Replico: Sì, ero io, allora combattevo contro di voi, oggi lotto con voi per la libertà della vostra terra perché così agevolo la libertà della mia. L'uomo tacque pensieroso, poi fra il silenzio di tutti, dice:
Quel giorno, capitano, i tuoi uomini hanno ucciso i miei due figli. Io e
questa donna siamo rimasti soli. Tu ora combatti per la libertà del mio paese,
sei il nostro terzo figlio: questa è casa tua.
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