Copertina
Autore Giacomo Scotti
Titolo Tre storie partigiane
SottotitoloDalla Macedonia alle Alpi, dappertutto italiani
EdizioneKappa Vu, Udine, 2006, Resistenza storica , pag. 144, ill., cop.fle., dim. 140x210x12 mm , Isbn 978-88-89808-03-0
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe storia contemporanea d'Italia , storia contemporanea , biografie , paesi: Slovenia
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Indice

Prefazione di Elio bartolini                         5

Breve premessa                                       7

Prima storia: NEI BOSCHI DELLA SLOVENIA              9

Seconda storia: SOLDATO DI TITO, CAPPELLO ALPINO    69

Terza storia: UN LIVORNESE DA PATRASSO A BELGRADO  113


MATERIALE ICONOGRAFICO                             127

 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE

di Elio Bartolini


Questi che Giacomo Scotti presenta sotto il titolo di "Tre storie partigiane", non sono racconti nel senso tradizionale del termine; non sono nemmeno un diario di guerra, sebbene più di qualche volta attingano a note o appunti o testimonianze dirette. E nemmeno sono tre biografie di italiani coinvolti a vario titolo nella guerra partigiana jugoslava. Togliendone il tanto di personalistico, li definirei, come a Scotti stesso capita di dire, tre "esperienze partigiane", cioè di quel tipo di guerra affatto particolare che contrassegnò la seconda parte del conflitto mondiale, e per gli Italiani più propriamente il periodo che va dal settembre 1943 all'estate 1945.

Condizionata anzitutto dal convincimento ideologico e dalla resistenza fisica; inventata giorno per giorno dall'intelligenza dei Comandi, ma anche affidata all'escogitazione del singolo combattente; esigente e magari deprimente nella continuità dello sforzo quotidiano ed insieme esaltata da imprese di eroica unicità, ma anche insidiata dal tradimento, dalla viltà, da diserzioni e perfino deprecabili discordie interne, conviene definirla davvero "particolare", quella guerra.

Scotti la racconta esemplificandola in tre protagonisti italiani, due medici militari e un marinaio, che dopo l'Otto settembre rimasero in Jugoslavia, combattendovi fino alla conclusione delle ostilità.

Il napoletano Antonio Ciccarelli che della sua opera preferiva dire di non aver fatto «nient'altro che il mio dovere di uomo e di medico, per una giusta causa», ma nel quale un suo collega sloveno intravvide «qualcosa di simbolico» (da definire anche, se vogliamo attenerci alle avare parole del Ministero della Difesa Aeronautica, «bella figura di organizzatore e di combattente valoroso»), è il personaggio che Scotti ritrae con maggior partecipazione, seguendolo in tutta una vicenda che, dalla "baraonda" dell'Otto settembre, doveva portare Ciccarelli, ovvero il Doktor Anton, ovvero "il medico con la barbetta", a diventare uno dei personaggi di guerra più popolari in Slovenia.

Anche la seconda "storia" ha per protagonista un medico: torinese stavolta, "cappello alpino" ma anche "soldato di Tito", che movendo dal Sangiaccato, combatté fino alla liberazione partigiana di Belgrado. I Comandi jugoslavi ebbero modo di notare le «eccezionali» qualità del medico e del partigiano Domenico David. E gliele riconobbero permettendogli di rientrare in Italia «indossando l'uniforme e portando la pistola».

Il terzo protagonista, quello dall'avventura più rischiosa se arrivò fino "di fronte alla morte", è il marinaio livornese Pier Luigi Gaiozzi, il quale passò dalla Grecia al Kosovo alla Serbia, prima prigioniero dei tedeschi e poi a fianco dei partigiani jugoslavi.

Sia pure con qualche sovrabbondanza contenutistica tra l'urgenza delle tante cose da dire e il timore di dimenticarne qualcuna, Scotti - conviene dirlo subito perché è il suo merito primo - racconta queste tre vicende, talvolta perfino mirabolanti, con assoluta sobrietà, nessuna esaltazione "eroicistica", nessuna concessione al colore (con tanto che ne aveva a disposizione!). E sia per questi intrinseci meriti di scrittura che per il fatto d'aver messo in luce una zona di guerra mal conosciuta in Italia, la sua opera, storica ed insieme civile, appare degna di grande attenzione. E le scuole italiane farebbero bene a proporla come lettura formativa ai propri studenti.

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Pagina 13

NELLA BARAONDA DI SETTEMBRE



Ricorreva la Natività di Maria Vergine, era un giorno festivo. Ma, in guerra, un giorno come tanti altri quell'8 settembre 1943. Verso l'imbrunire, tuttavia, l'atmosfera cambiò all'improvviso. Nell'infermeria dell'Aeroporto militare di Merna, presso Gorizia, ammalati, feriti leggeri, soldati-infermieri e ufficiali medici cominciarono a fare un chiasso indescrivibile ripetendo in toni sempre più alti una frase che pareva magica: "La guerrà è finita!" Facevano eco frasi come "Si va tutti a casa!"

Da qualche minuto la radio aveva diffuso la notizia dell'armistizio, suscitando una specie di pazzia collettiva.

La guerra, purtroppo, non era finita. Se ne accorsero tutti, alcuni giorni dopo, quando dai monti scesero a valle i partigiani sloveni e dal Brennero cominciarono a dilagare le colonne motocorazzate tedesche. L'esercito regolare italiano si sfasciava, nasceva e si ingrossava l'esercito dei "ribelli", avanzavano e dilagavano a macchia d'olio le colonne germaniche.

A Trieste, il generale Alberto Ferrero, comandante del XXIII corpo d'armata dislocato nelle terre della Regione Giulia al di qua e al di là dei vecchi confini violati dalle truppe italiane nell'aprile del 1941 con l'aggressione alla Jugoslavia, rifiutò la consegna delle armi ai partigiani ed al popolo insorto per fermare l'avanzata tedesca. Disse che «le armi sono chiuse in un magazzino di cui si è persa la chiave». Dal suo ufficio, sistemato nella Villa Necker, erano appena usciti i rappresentanti del Comitato antifascista di Trieste, che vi entrarono il colonnello tedesco Barnbeck ed il capitano Wondrich. Rivolto al generale Ferrero, Barnbeck disse: «Le comunico che ho l'ordine di occupare la città col mio reggimento entro le ore 18 di oggi, con le buone o con le cattive».

Alle ore 17 il reggimento tedesco entrò in città scendendo dall'altipiano del Carso. I1 10 settembre, dopo aver firmato un'ordinanza che stabiliva l'orario del coprifuoco e proibiva l'esercizio della caccia in tutto il territorio occupato dal suo Corpo d'Armata, il generale Ferrero uscì dalla sua villa lasciando tre divisioni alla mercé del nemico. I soldati italiani, a loro volta, si sbandarono, abbandonando i depositi e le caserme, che vennero presi d'assalto dalle popolazioni. Le ultime armi furono portate via quando le avanguardie tedesche cominciavano ad arrivare con le motociclette.

Radio Berlino trasmise un bollettino straordinario: «Trieste è stata occupata dopo breve lotta e oltre 90 mila italiani sono stati disarmati... Le forze armate italiane hanno cessato di esistere». Migliaia e migliaia di soldati che andavano bussando alle porte delle case per barattare la divisa con l'abito borghese vennero infatti catturati dalle pattuglie tedesche senza opporre resistenza.

Dall'Istria, dalla Croazia e dalla Slovenia continuavano intanto ad affluire verso il vecchio confine interminabili e caotiche colonne di soldati italiani. Gli altipiani erano in mano ai partigiani che cercavano di fermare gli sbandati.

«Venite con noi che questa volta ci battiamo per una causa giusta!» - dicevano i vecchi e nuovi partigiani dirigendosi sui monti.

I soldati rispondevano: «Ce ne andiamo a casa. Sono anni che dura questa naja. Io vado in Sicilia... a Roma, a Bari, a Napoli...»

«Non ci arriverete a casa - gli rispondevano. - Vi prenderanno i tedeschi. Venite con noi...»

Qualcuno restava. Gli altri, a gruppi sempre più folti, alcuni già vestiti con indumenti borghesi, continuavano per la loro strada. Per chilometri interi, sull'altipiano, ai lati delle strade, giacevano mitra, maschere antigas, mitragliatrici, elmetti, cannoni, viveri, tutto abbandonato. Qua e là, muli e cavalli pascolavano ignari, con addosso ancora basti e finimenti.

A Gorizia, dove la sera dell'8 settembre c'era stata una manifestazione popolare antitedesca ben presto soffocata dal tenente colonnello Costa, gruppi di partigiani si recarono l'indomani alla caserma dell'Undicesimo Artiglieria per chiedere al colonnello Giorni di cedergli le armi per combattere contro i germanici. Il colonnello rispose: «Sarà l'esercito ad affrontare il nemico!» L'indomani tutti scapparono.

Prima di lasciare la caserma gli ufficiali si accapigliarono per impossessarsi della cassa del reggimento. Uno di essi, il tenente colonnello Francesco Rampolla del Tindaro, disgustato, raccolse la bandiera del reparto e, seguito da alcuni soldati, raggiunse i monti per unirsi ai partigiani.

Sui monti di Cormons nacque il primo battaglione partigiano italiano "Garibaldi" al comando di Mario Modotti, commissario Mario Karis; a Medana, sul Collio, nacque invece il battaglione "Mazzini".

Il trentenne Libero Sauro, gerarca fascista e figlio dell'eroe nazionale Nazario Sauro che gli austriaci impiccarono a Pola durante la prima guerra mondiale, passò al servizio dei tedeschi e, in attesa dell'arrivo delle nuove massicce forze di invasione dal Brennero, costituì e comandò la 60a Legione "Istria" facilitando ai nazisti l'operazione di occupazione e poi della più crudele repressione.

C'erano così italiani che venivano deportati, italiani che combattevano con i partigiani sloveni, italiani affiancati al nemico, italiani che cercavano di tornare a casa.

In quella baraonda, il Tenente medico dell'Aeronautica Antonio Ciccarelli, avrebbe potuto facilmente ecclissarsi, cercando di tornare a casa. Invece, scelse la via della lotta.

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NELLE BAITE DI MALA GORA



Tra le poche cose che il dottor Ciccarelli si portò a Giugliano, a casa, dopo la guerra, nel 1945, ci sono due poesie umoristiche, in lingua slovena, a lui dedicate. Una delle composizioni ricorda lo "scherzo" giocato dal tenente medico a un colonnello tedesco, al quale fece sparire due tacchini che andarono ad arricchire la magra mensa di un reparto italiano a Heraklion sull'isola di Creta. Nella guerra, certamente non voluta dal popolo italiano, quella del 1940-1943 per intenderci, Ciccarelli aveva combattuto prima come tenente di complemento di fanteria e poi come sottotenente e tenente medico di complemento del 2° battaglione del 31° Reggimento Fanteria, Divisione "Siena". Il «primo schifo», come lui diceva, gli venne sul fronte greco-albanese nel gennaio-aprile 1941, ma fece ugualmente il proprio dovere di soldato e di medico. E così continuò a fare, nei trasferimenti del reparto, in Peloponneso, poi sull'isola di Creta fino al febbraio 1943, e dopo nell'Aviazione. Da un fronte all'altro, di anno in anno, la sua avversione per i nazisti era aumentata nella misura in cui si erano moltiplicati gli episodi di arroganza, di malvagità e di disumanità dei militi ed ufficiali hitleriani.

Nella "battaglia di Gorizia" da pochi giorni conclusasi - il primo grande scontro tra le forze partigiane e quelle tedesche calate dal Nord dopo l'armistizio - Ciccarelli era stato ancora una volta testimone di stragi, sicché la sua decisione di seguire i partigiani per combattere i tedeschi si era ormai trasformata, nel giro di poche settimane, in una fede nuova nella lotta per la giustizia e la libertà, per un mondo migliore. Nello "stato di servizio partigiano", con le "note caratteristiche", si legge: «Ciccarelli Antonio (...) medico chirurgo, volontario partigiano dall'8 settembre 1943. Dal 10 settembre 1943 al 31 marzo 1944 chirurgo della XXX Divisione slovena dell'Esercito del Maresciallo Tito nelle azioni combattive di Merna, San Pietro di Gorizia, Villa Montevecchio, Carnicca Goriziana, Vertovina, Locavizza, Aidussina, Vipacco, Predmeja, Zalog, Montenero, Vojska, Ceconico, Rupa Fredda, Carnizza, Massora, Bivio Zelin, Sella Oblà, Circhina...»

All'epoca dei fatti di Golako, il marzo 1944 era ancora lontano. Mentre i tedeschi, dopo aver rastrellato la zona, dilagavano altrove, il dott. Ciccarelli e i suoi uomini scampati con i feriti si accingevano a trovare un rifugio più sicuro, l'ennesimo rifugio.

La colonna scendeva lentamente per la strada da Golako a Mala Gora; dappertutto si vedevano i segni dell'offensiva tedesca: lungo la strada, nei fossati, su qualche roccia giacevano cadaveri di partigiani. Fino a Mala Gora ne furono contati quattordici. Erano tutti disarmati, alcuni erano lì da vari giorni. Vicino alla bocca o nelle ferite già si muovevano i vermi. Più tardi i contadini raccolsero quei morti e li seppelirono.

I feriti furono sistemati provvisoriamente in una casa di contadini. Ma era troppo vicina alla strada che, attraverso Mala Gora, conduce dalla Selva di Tarnova ad Otlica; perciò dopo pochi giorni l'ospedale fu spostato più in basso, nella baita di Fuzinarje, ben nascosta nel bosco.

Ora toccava al personale il compito di soddisfare tutti i fabbisogni dell'ospedale sotto ogni punto di vista: alloggio, vitto, medicinali. Il reparto sanitario doveva rendersi auto-sufficiente. Con l'aiuto dei contadini riuscirono a trovare tutto rapidamente. D'altronde il reparto non era molto grande, e sopratutto non fu difficile trovare il cibo necessario. I contadini non si facevano pregare.

Pochi giorni dopo l'arrivo a Mala Gora erano già stati sistemati tutti i feriti della battaglia presso Crni-vrh. Alcuni più gravi furono trasportati dai contadini delle case vicine e nascosti in luoghi riparati. Nella baita di Fuzinarje, infatti, non vi era spazio sufficiente per circa 50 persone: una decina di feriti gravi, 20 o 30 feriti leggeri e 15 di personale. I feriti leggeri ed il personale si sistemarono come poterono nella stalla sulla paglia. Durante il giorno si mandavano pattuglie di due partigiani ciascuna per controllare eventuali movimenti di colonne nemiche. Le pattuglie camminavano tutto il giorno tornando a sera.

Una sentinella era sempre a guardia dell'ospedale. Per lo più si mangiava patate, cavoli, carne e rape. Il materiale sanitario era molto scarso, ma c'era molto da fare per tutti: il personale ospedaliero si occupava dei feriti, altri procuravano cibo.

L'autunno era bello e pieno di sole, il nemico non dava noie, ma a Mala Gora l'ospedale non poteva rimanere a lungo. Nella baita vi era poco posto per tutti, ed inoltre fuggire di lì in caso di attacco sarebbe stato molto difficile. Fu deciso perciò di dividere l'ospedale: i feriti leggeri e quelli in convalescenza furono mandati a Zadlog nella casa del contadino Vinko Gregorec. Costui, un uomo molto buono, ospitò nella propria casa dieci feriti che già si reggevano in piedi e non avevano più bisogno di medici; essi lo aiutavano nei lavori ed in cambio ricevevano da mangiare.

In casa di Vinko, con i convalescenti, fu ospitato anche un sottufficiale tedesco che era stato raccolto, gravemente ferito, presso Razdrto. A Lokavec il dott. Ciccarelli gli aveva salvato la vita. Subito dopo la cattura, infatti, aveva rischiato di finire davanti al plotone di esecuzione. Il "doktor Anton" si era opposto: «sarà un criminale - aveva detto - ma è certamente un ferito. E i feriti vanno assistiti, non fucilati». Così lo operò, amputandogli una parte della mano sinistra. Gli rimanevano il palmo della mano, il pollice ed il mignolo. Il tedesco era triste ma tranquillo, la sua situazione era talmente migliorata che poteva tagliare la legna in casa di Vinko e in tal modo guadagnarsi il cibo. Aveva perduto molto sangue, ma desiderava rimettersi al più presto.

Un giorno, verso sera, seduti presso la stufa di Vinko, i convalescenti cantavano canzoni partigiane. Fu allora che il tedesco sciolse la lingua. Dapprima parlò di guerra, della sua città, Aachen, della sua vita di soldato, di come fosse diventato sottufficiale. Fino a quel momento egli non aveva mai parlato di sé. Aveva gli occhi azzurri un po' sporgenti ed il suo sguardo vagava nel vuoto, come se non vedesse nessuno. Seguiva soltanto i propri pensieri.

«Ja, ja, i tedeschi sono i più potenti, combattono già da quattro anni in Europa. Nella mia Aachen il quaranta per cento della popolazione valida è stata mobilitata.»

Presuntuoso, fanatico. E, come vedremo, assassino.

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"SE LA LUNA CI PORTA FORTUNA"



Comincio con le presentazioni: Prof. Dr. Domenico David, già Capitano medico della 3.a Batteria Alpina Gruppo Susa, I° Reggimento Artiglieria Alpina, Divisione "Taurinense" dislocata in Montenegro e Sangiaccato; Maggiore dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia nelle cui file combatté tra la fine di settembre 1943 e l'estate del 1945.

Essendomi imbattuto nel suo nome in alcuni documenti partigiani da me consultati a Belgrado nel 1979, cercai di rintracciarlo e riuscii a venire in possesso del suo indirizzo: Torino, via Ferrucci 52. Cominciò così una fitta corrispondenza che continuò durante tutto il 1980 e nel 1981. Mi spedì dapprima un piccolo notes sul quale, durante la guerra, aveva scritto a matita rapidi appunti e segnato le tappe del lungo cammino partigiano fino all'arrivo a Belgrado. Poi, sollecitato dalle mie lettere con richieste di delucidazioni (volevo riempire certi vuoti e saperne di più su vari episodi), il Prof. David annotò sulla carta altri ricordi, completò il diario della sua vicenda partigiana. Sulla base di quei manoscritti, ancor oggi in mio possesso, ho potuto scrivere questa storia.


***



Braccati a Priboj sul fiume Lim da oltre un anno, gli uomini della batteria e il medico vengono trasferiti a Nikgic nel Montenegro nei primi giorni di agosto del 1943. Da circa un mese i bollettini di guerra del Comando Supremo italiano sono concentrati sui combattimenti in Sicilia, dove si allarga a macchia d'olio l'azione offensiva alleata. Le città italiane, da Napoli a Milano a Torino, subiscono pesanti bombardamenti. Il 18 agosto la radio comunica che gli Alleati, dopo 40 giorni di combattimenti, sono diventati padroni della Sicilia. Il 3 settembre cominciano su vasta scala le operazioni lungo la costa calabra...

Alle 5 del mattino del fatidico 8 settembre, dovendo recarsi in licenza, il dottor Domenico David approfitta dell'ultima autocolonna diretta a Plevlja (già sede della "Taurinense" e da un mese in mano ai tedeschi) per quanto ancora rimane con circa 300 uomini dei reparti più disparati. Dovendo poi raggiungere Visegrad in Bosnia per proseguire col trenino alla volta di Belgrado e poi per Torino, deve presentarsi ai Tedeschi: una loro autocolonna parte alle 8 dell'indomani. Ovviamente nessuno sa che fra poche ore sarà annunciato l'armistizio, diciamo pure la capitolazione dell'Italia.

Il Capitano medico trova una cameretta per la notte, ma alle 20 apprende, come tutti gli altri, dalla radio, il grande evento sintetizzato nel comunicato del Maresciallo Badoglio che termina con le parole: «difendetevi da chi vi assale». Il che dimostra, commenta il David, «quanto valessero i nostri alti comandanti. Se avesse dato l'ordine di combattere subito i Tedeschi, molte vite sarebbero state risparmiate, e molti sacrifici».

Nella notte, una ventina di ufficiali italiani, compreso il Capitano medico, vengono fatti prigionieri e rinchiusi in una scuola. Quella stessa notte i quindici o venti autisti dell'autocolonna italiana, dei quali il più elevato in grado è un Sergente, ricevono l'ordine da un ufficiale tedesco di mettersi a disposizione con gli autocarri. Tutti si rifiutano energicamente ed anch'essi vengono trattenuti sotto sorveglianza.

Il terzo giorno, dopo un discorsetto, un ufficiale tedesco chiede agli italiani di continuare la guerra con loro: nessuno si fa avanti.

Il 12 settembre, in colonna con circa 300 soldati italiani, gli ufficiali vengono diretti a Niksic. Le trattative con la "Taurinense" (i cui comandanti tergiversano fra tedeschi e partigiani, decisi però a opporsi decisamente ai primi, per prendere tempo e raggiungere la costa) risultano inconcludenti. Dopo due giorni di cammino, i soldati e ufficiali italiani presi a Plevlja vengono rilasciati. Il Dott. David torna a Plevlja dove trova l'ospedale da campo 635 comandato dal Tenente medico Toja, torinese pure lui, e gli si aggrega.

Il 19 settembre tornano a Priboj, sede dei magazzini della "Taurinense" ancora intatti. Li accoglie il Console Nino Palmieri, comandante del presidio e al tempo stesso del X Gruppo di Camicie Nere composto da due battaglioni. Palmieri promette il prossimo rientro in patria.

Cittadina sulla destra del fiume Lim, all'epoca terminale della ferrovia a scartamento ridotto Belgrado-Uzice-Vigegrad-Priboj, è stata la più importante base di rifornimento di tutto il materiale occorrente per le divisioni del XIV corpo d'armata. La presidiano, insieme a 1400 militi fascisti, un distaccamento di Carabinieri, uno di Guardie di Finanza, un reparto servizi, militari della "Base" della divisione "Venezia" al comando del capitano Roberto Carpi, alpini del PAM (Posto di avviamento munizioni) della divisione "Taurinense" agli ordini del maresciallo Guido Strungatti. Gli uomini dell'esercito sono circa cinquecento.

I soldati non sanno, ma lo apprenderanno in seguito, che il Palmieri ha stipulato fin dal 10 settembre un accordo con il comandante cetnico del Sangiaccato, maggiore Vojo Lukicevié, per combattere contro i partigiani. Per il "rientro in patria" spera invece nei tedeschi ai cui ordini si metterà il 20 settembre, insieme ai cetnici. Il dott. David intanto annota nel suo diario:

«Ce ne stiamo tranquilli e appartati, lontanti dalle camicie nere e ancor più dai cetnici comandati da Lukicevic che a Priboj hanno numerosi feriti. Attendati per una notte, verso le dieci del mattino seguente tutte le camicie nere e parte degli altri militari partono per Visegrad con l'Ospedale da Campo. Il ten. Toja mi invita a seguirlo, ma gli faccio presente come sia opportuno che io, come medico, rimanga col resto della truppa, tanto ci saremmo rivisti l'indomani. Ho appreso in seguito, appena a Visegrad, che gli italiani i quali non intendevano collaborare furono avviati in vagoni sigillati nei campi di concentramento in Germania. Il Console Palmieri era d'accordo con i tedeschi e ci aveva fregati.»

In realtà il 20 settembre partirono per Visegrad solo una piccola parte degli uomini del presidio di Priboj. I1 comandante del X Gruppo dei militi fascisti rimase nella cittadina dove, dal 26 al 30 settembre, oppose tenace resistenza ai partigiani, respingendone i parlamentari, così come respinse il 14 ottobre due ufficiali inviati dal comando della "Venezia" per informarlo che la divisione era passata sulla barricata dei partigiani. Un altro ufficiale, il tenente Sangermano, giunto a Priboj con il medesimo incaricato il 18 ottobre, venne tenuto dal Palmieri prigioniero e di lui non si saprà più nulla, come annoterà sul suo Diario il generale Oxilia, comandante della "Venezia" alla data del 2 novembre 1943.

Verso la fine di ottobre, di fronte alla persistente minaccia partigiana ed essendosi i Tedeschi ritirati dalla zona, il Console Palmieri evacuò il presidio di Priboj diretto a Uzice per unirsi ai nazisti. Nella marcia, la colonna fu attaccata dai partigiani che riuscirono a separare le Camicie Nere da una parte dei soldati e di questi 120 si unirono ai partigiani. I fascisti, invece, dopo una serie di peripezie, raggiunsero Uzice all'inizio di novembre, giurando fedeltà a Hitler e consegnando ai tedeschi, per destinarli ai campi di prigionia, i militari del nostro esercito che si erano rifiutati di giurare allo straniero.

Nel frattempo, rimasto isolato con alcuni soldati, il dott. David attendeva l'occasione per unirsi ai partigiani.

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CON L'EAM SUI MONTI



«Sono uno di quei tanti che combatterono in Balcania con i partigiani contro il nazismo, per la libertà.»

Così diceva in un punto della prima lettera che mi scrisse Pier Luigi Gaiozzi a quarant'anni dall'armistizio firmato dall'Italia nella seconda guerra mondiale, da quell'8 settembre 1943 che per lui e per decine di migliaia di altri soldati italiani dislocati in territori stranieri aggrediti ed occupati per volontà del fascismo mussoliniano, significò l'inizio di una guerra diversa.

Nato a Rosignano Marittimo e vissuto a Rosignano Solvay in provincia di Livorno, classe 1923, Pier Luigi combatté da partigiano col nome di Luigi Caiazzo.

Soldato di leva, il 7 dicembre 1942 fu assegnato alla Marina raggiungendo il Deposito CREM di La Spezia dove restò fino al 15 gennaio 1943. Fece poi un mese e sedici giorni a bordo della "Vittorio Veneto", fu trasferito al "Maridepo" di Venezia e di lì approdò il 3 giugno in Grecia, alle dipendenze del Comando Marina di Petrano. Dopo poco più di sette mesi, a Patrasso lo sorprese l'annuncio della capitolazione italiana.

Quella sera dell'8 settembre ebbe inizio l'odissea che farà del marinaio toscano un partigiano del Movimento di liberazione greco fino al 31 dicembre 1943, poi un prigioniero di guerra numero 233 per causa partigiana fino al 18 giugno 1944 e infine nuovamente un partigiano, stavolta nelle file dell'Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (EPLJ) fino al rimpatrio avvenuto il 23 luglio 1945.

Quale Partigiano combattente all'estero è stato insignito di due Croci al merito di guerra, con l'onorificenza di Cavaliere al Merito della Resistenza italiana e con la Medaglia al Valore jugoslava.

Ecco, nella sintesi più stringata, potrebbe concludersi qui la vicenda partigiana di Pier Luigi Gaiozzi. Ma è più bello leggerla condita da episodi e dettagli raccontati dal protagonista.


* * *



«Ero dislocato alla Stazione ricetrasmittente di Cuculi presso Patrasso quando mi giunse la notizia dell'armistizio. La mattina del 9 settembre, insieme al Capitano Commissario Dino Gennari, toscano come me, nativo di Procchio sull'isola d'Elba, lasciai la stazione. Non senza aver prima preso le armi. Ci ritirammo nella villa di un certo Kanelopulos, uno dei dirigenti clandestini dell'EAM di Patrasso. Nella stessa villa, al piano superiore, risiedeva il comandante di zona del movimento ellenico di liberazione.»

Pier Luigi e un altro marinaio italiano, tale Scuderi, furono destinati alla tipografia dell'EAM che si trovava nel sotterraneo di un fienile, e in quel luogo lavorarono per circa due mesi. Poi, inaspettatamente, sul capo degli italiani si addensò una pesante minaccia. La mattina del 15 novembre furono condotti in una baracca di campagna e qui fu loro ordinato di scavare una buca profonda un metro e mezzo, larga un metro per due. Doveva servire da nascondiglio, gli spiegarono, ma aveva la forma e le dimensioni perfette di una tomba...

«Venimmo poi a sapere, in segretezza, che la fossa doveva servire per seppellire i nostri cadaveri. Ma perché volevano eliminarci?»

Già, perché? «Perché sapevamo troppe cose sulla loro organizzazione segreta» e non si fidavano troppo degli italiani. «Se fossimo caduti nelle mani dei tedeschi, pensavano, con i sistemi delle SS saremmo stati costretti a spifferare ogni cosa sull'attività clandestina svolta dall'EAM nella città di Patrasso e nei suoi dintorni.»

A salvare Gaiozzi e Scuderi fu l'intervento del capitano Gennari che era stato informato dalla moglie del Kanelopulos. («Ma questo – precisa Gaiozzi – lo appresi appena dopo il rimpatrio nel 1945 da una lettera scrittami dallo stesso Gennari»). La terribile decisione fu annullata e sostituita dall'ordine di trasferire tutti gli italiani in montagna. «Scuderi ed io, comunque, non attendemmo oltre e, di propria iniziativa, ce la filammo. Riparammo sui monti dove ci aggregammo alla "Dodeca Sinderman", un reparto che operava sulle alture di Sticlaus, Sabbia Vrisi, Cazzaiteca eccetera, comandata da Spiro Panaiotas». (Lasciamo i toponimi così come li pronuncia e scrive Pier Luigi, anche perché non riusciamo a trovarli sulla carta geografica.)

Purtroppo, nel corso di un'operazione di rastrellamento condotta dalle SS con le truppe della Wermacht, Gaiozzi e Scuderi vennero fatti prigionieri. Correva l'ultimo giorno dell'anno 1943. Insieme ai due italiani (e ad altri connazionali), nelle mani del nemico caddero circa duemila partigiani greci, molti dei quali furono passati per le armi. Millecinquecento uomini, compresi quattordici italiani rimasti in vita furono condotti nelle carceri di Patrasso.

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