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| << | < | > | >> |Pagina 14Sembra proprio che mia madre mi abbia salvato la vita, ma solo perché aveva urgentemente bisogno del gabinetto. Penso sia stata più contenta di trovarmi semiannegato piuttosto che intento a giocare al naufrago. Ciononostante, la vista delle mie chiappe nude che ballonzolavano in quella zuppa sanguinolenta pare abbia ritardato la sua guarigione di un paio di settimane. Sono nella stanza degli ospiti, intento a valutare i danni nello specchio triplo della toilette. È uno di quei mobili d'antiquariato tutti chintz e fronzoli concepiti per signore vittoriane alte un metro e venti: l'ideale per quando mio padre deve aggiustarsi la pettinatura. Mi chino per osservare bene la mia faccia di fronte e di profilo. Fin qui nessuna sorpresa. Non sono mai stato un esemplare particolarmente splendido, ma a quindici anni ho dalla mia la gioventù. Sono snello, ben proporzionato, con la carnagione olivastra, ma ora il naso è orribilmente schiacciato da una parte e punta verso sinistra. Più avanti con gli anni avrei potuto conquistare un certo fascino bruno e meditabondo, ma ormai la cosa è fuori questione. Sembro il fratello maggiore del bambolotto mannaro di Eddie Munster in quel vecchio telefilm sulla famiglia di mostri. Cerco di consolarmi con i capelli: sono belli, fittissimi, neri e lussureggianti, il che spiega come mai stia qui da tanto tempo, piegato in due, intrappolato in questo specchio a tre luci, perso nell'ammirazione della parte posteriore della mia testa. Visto da dietro sarei fantastico per la pubblicità di uno shampoo. Da davanti, di una marca di cinture di sicurezza. Il nostro medico di base, il dottor Hemstock, dice che adesso il mio setto nasale è più fragile, e non si può più contare sul fatto che protegga la faccia o il cervello. Io però non ho mai notato che il mio naso fosse granché come protezione del cervello, piuttosto il contrario. Rifletto per la milionesima volta sulle parole di Miguel: «Non puoi dire di aver cominciato a vivere finché non arrivi sull'orlo del baratro». Ovviamente ha ragione. Ho bisogno soltanto di una full immersion: di un impegno assoluto. Per un clavadista avere il naso rotto non è niente, solo un piccolo contrattempo, anche se, nel mio caso, si tratta di un contrattempo di quarantacinque gradi rispetto alla perpendicolare. È evidente che sono un po' troppo cresciuto per la vasca da bagno. Lo scricchiolio di un'asse del pavimento mi mette in allarme. Sulla soglia c'è mio padre, con la faccia paonazza, che fa dondolare una vecchia racchetta da tennis marca Slazenger. Mi rannicchio, coprendomi le parti basse con entrambe le mani. Dalla sua espressione capisco che sospetta di avermi beccato mentre mi toccavo davanti allo specchio. Per un orribile istante penso che potrebbe davvero colpirmi con la racchetta, incidendo una graticola di corde sul mio fondoschiena rosa, una sorta di surreale cruciverba, come quelli del «Financial Times». Invece si limita a tendermela. «Tennis», mi abbaia contro. «Oggi giocherai a tennis con Coombs: e, per l'amor di Dio, prima mettiti qualcosa addosso.» «Ma... io odio il tennis», balbetto. Inarca un sopracciglio. «Oh, davvero?» Ciò significa che il papa ritiene che io passi di gran lunga troppo tempo al chiuso, dedito a pratiche onanistiche; che non respiri quasi aria fresca né faccia alcun tipo di esercizio fisico; e che oggi, e probabilmente tutti i giorni di queste lunghe vacanze estive, che mi piaccia o no, dovrò giocare a tennis con quello stronzo di Coombs. Mi vesto in fretta con un miscuglio di vecchi indumenti sportivi. Coombs, con il suo sorrisetto ipocrita, mi sta aspettando sul vialetto di casa appoggiato alla sua Range Rover nera. Barry Coombs abita nella casa vittoriana di mattoni rossi, indipendente e coronata da torrette, che si affaccia sul nostro giardino posteriore; è un omone barbuto che ricopre non so quale incarico presso il consiglio comunale. Ha qualcosa a che fare anche con il settore immobiliare, ed è presidente del Lawn Tennis Club di Caversham. In breve, un pilastro della comunità. Indossa un'immacolata polo da tennis Aertex bianca e un paio di pantaloncini di almeno tre taglie in meno della sua da cui sporgono due cosce grosse, pelose e arrossate che fanno pensare a un paio di wurstel troppo bolliti. E, come se tutto ciò non bastasse a fare di lui la grottesca caricatura di un idiota di mezz'età, sfoggia anche polsiere con il velcro e fascia da fronte di spugna abbinata. «Ecco qui il nostro giovane Henman. Adesso ci mostrerai cosa sai fare, eh, Michael?» Coombs mi parla così solo quando pensa che mio padre ci stia ascoltando. Per il resto del tempo non fa che ringhiare come un pit bull. Mi arrampico nella Range Rover e mi allaccio la cintura di sicurezza. «Tutto bene, signor Coombs?» borbotto in un tono tale da scoraggiare, o almeno così spero, ogni ulteriore conversazione. Ma la mia è solo una vana speranza. Infatti viene subito fuori che Coombs sta cercando di convincere mio padre a partecipare a certe dubbie speculazioni immobiliari e che proprio per questo si comporta in modo così servile, tanto che oggi ha accettato di fargli un favore. Approfitta del percorso in auto per cercare di strapparmi qualche informazione su quante possibilità ci siano che mio padre decida di «metterci dentro i piedi». | << | < | > | >> |Pagina 59La cartella contiene un mucchio di informazioni sulle cortecce prefrontali e sui lobi parietali, ma niente che spieghi con precisione quale sia il mio problema. Pare esista una piccola struttura, non più grande di un foruncolo, che corrisponde ai nuclei soprachiasmatici menzionati dal dottor Darrow: ed è questo il nocciolo della questione, per così dire. Io avrei, in gergo medico, lesionato e sfasciato per intero questa struttura, spiaccicandola come un insetto sul parabrezza. Sulla pagina sottolineata, nel giro di due brevi frasi, la grafia del dottor Darrow si trasforma da massa piacevolmente disordinata in sisma frenetico. «In conclusione», scrive, «sospettiamo che il paziente abbia irrimediabilmente compromesso la sua capacità di dormire.» Com'è ovvio, c'è anche la prescrizione di alcuni farmaci, soprattutto potenti sedativi ipnotici. Nelle ultime due settimane i medici sono riusciti a tenermi in stato semicomatoso con quantità elefantiache di questa roba. Ma il problema è che ormai mi ci sono assuefatto. Aumentando il dosaggio si correrebbe il rischio di bloccare del tutto la funzione respiratoria. Darrow e gli altri specialisti non ne sono sicuri, ma sospettano che gli ipnoinduttori possano aver spinto il mio ipotalamo a secernere un flusso continuo di adrenalina e di «adenilato ciclasi compensatoria». Detto in parole semplici, ogni volta che cercano di farmi dormire il mio cervello si batte ancor più strenuamente per tenermi sveglio. Tutto questo non rientra negli studi di riferimento, pagine fotocopiate dal «Lancet» e da altre pubblicazioni mediche che si sono occupate di una rara malattia simile denominata «insonnia a esito fatale». Il fatto ineludibile è che nessun essere umano ha mai resistito più di qualche settimana alla mancanza totale di sonno. Fragili organismi che non siamo altro. Ben presto il mio eloquio si farà confuso, avrò allucinazioni, cadrò nella psicosi e infine, fra una quindicina di giorni, il mio sistema nervoso, esausto, smetterà di funzionare. Su questo punto gli specialisti brancolano nel buio e non c'è assolutamente il tempo di inventare una soluzione. Nel paragrafo conclusivo Darrow consiglia tranquillamente di continuare a somministrarmi i sedativi e di tenerlo informato riguardo a ogni cambiamento o miglioramento. Suona un po' misera, come speranza. Di fatto il mio medico si lava le mani di me e dei miei sogni. Chiudo la cartella sapendo che stasera i miei hanno adulterato il latte della buonanotte, il che è l'unica ragione per cui non sto gridando. E ancora una volta non dormirò affatto. In un certo senso mi sembra una liberazione. Per i prossimi quindici giorni sarò esentato dalle opprimenti restrizioni di casa mia: potrò scappare con un circo, diventare davvero un clavadista, bere birra, fumare canne e leggere fumetti a mio piacimento. Senza conseguenze. Nel giro di un paio di settimane non importerà più cosa avrò fatto: sarò un idiota sbavante sull'orlo del collasso cerebrale. È una questione sulla quale mi sono interrogato spesso: siamo fondamentalmente creature morali o è solo la paura delle conseguenze a trattenerci dal fare quel che ci pare e piace? Adesso so che, fra non molto, potrò discuterne a tu per tu con Dio, con Buddha e compagnia bella. Sbatto la cartella clinica sulla scrivania di mio padre; qualche foglio non graffettato cade sul pavimento. Non potrebbe importarmene di meno; ormai sono al di là delle leggi di Bernard, al di là di qualsiasi altra legge che non sia quella della biologia: ragion per cui adesso devo pisciare. Il gabinetto del pianoterra ha uno sciacquone che sferraglia come una petroliera nell'uragano, quindi apro pian piano la porta della cucina e arranco con una sola stampella nel giardino posteriore. Mi svuoto in silenzio fra le ombre della vecchia quercia. Da un folto cespuglio in fondo al giardino sbuca una volpe. La bestiola annusa l'aria in un modo che mi ricorda mia madre, quindi attraversa trotterellando il prato. La guardo andare dritta verso i bidoni delle immondizie, rovesciarne uno e frugare nel suo contenuto. La luna bagna il paesaggio con una luce fredda, allucinata. Ombre striscianti si radunano e filtrano su tutto il prato. Nell'aria della notte c'è qualcosa di inquietante, o forse è dentro di me: non saprei dire con certezza. Potrebbe essere un effetto dei farmaci o l'inizio delle allucinazioni, ma decisamente non sono lucido. Poi mi accorgo di ciò che sto facendo: sono qui con la bocca semiaperta e l'uccello gonfio e vermiglio ancora in mano, che mi penzola davanti come un tacchino appena macellato. Lo rinfilo in fretta nei calzoni. Non voglio che la volpe si metta strane idee in testa. La bestiola si guarda attorno con fare furtivo e poi, con mio grande stupore, rutta. Non avevo idea che le volpi sapessero farlo, astute bastarde che non sono altro. Resto perfettamente immobile, ma lei scompare di nuovo nell'ombra dei ligustri. Nella soffice terra alla base della siepe c'è un avvallamento, il che spiega come abbia fatto la volpe a entrare. Lo allargo un po' con la punta della stampella e poi piego il mio emaciato scheletro per farlo passare attraverso l'intrico di radici e di vegetazione morta. Riemergo dall'altra parte, nel giardino posteriore di Coombs. Pur essendo ancora un po' incerto sulle gambe, mi gratifica sentire che le forze e una parte del vecchio senso dell'equilibrio stanno ritornando. Ho abitato qui tutta la vita, eppure è la prima volta che metto piede nella proprietà di Coombs. Non mi è mai stato permesso entrarci, nemmeno per recuperare un pallone. | << | < | > | >> |Pagina 256In tre rapidi balzi torno sull'alzaia e mi avvio tutto pimpante verso le Cascades. Per il momento non posso tornare a casa, questo è poco ma sicuro. Mi sono appena reso colpevole di aggressione non provocata ai danni di un uomo influente; se la storia di Livia è vera, sarebbe assurdo cadere nelle grinfie della giustizia proprio adesso. Desidero disperatamente tornare da lei. Ho le ore contate, e voglio trascorrere in sua compagnia tutto il tempo che mi resta. Anche solo per guardarla dormire. Mi avvicino di nuovo al locale di karaoke. Nell'ultima ora la folla degli avventori non si è diradata affatto, e mi domando se riuscirò a sgattaiolare via senza essere aggredito. «Ehi, guardate, è il tipo che ha castrato Harland!» Non posso correre, in nessun senso della parola. Tutt'al più posso produrrmi in un trotto sbilenco, come un ubriaco. Ma al momento sono troppo debole anche per quello. Cerco di prepararmi alle botte. «Mikey, Mikey, Mikey, ma allora sei qui! Grazie a Dio!» Dalla folla emerge un paio di mani; due grosse mani dall'aspetto gommoso, con le dita come banane, seguite dal signor T. che si strizza cercando di passare tra la marea di corpi. «Dove sei stato? Avresti dovuto dirci dove andavi!» «Sono uscito solo per fare due passi e chiarirmi un po' le idee, signor T.», gli spiego, tenendo d'occhio la folla. «Mikey, abbiamo un grosso problema. La signora H. ha notato le condizioni di Livia fin dal momento in cui è arrivata da noi. E no, decisamente non ne era soddisfatta.» «Oddio, cosa le ha fatto? In questo momento Livia ha bisogno di tutti gli amici che ha.» «Poco fa Deirdre - la signora Hodges, voglio dire - ha fatto un salto di sopra, solo per vedere come stava. Era preoccupata per lei, sai, dopo la cosa terribile successa a sua madre. Livia era a letto, ma non si sentiva bene: era pallida, sudata, aveva il fiato corto eccetera. Non riuscivamo a svegliarla. Abbiamo controllato i suoi segni vitali, polso e pressione sanguigna: centoventi battiti al minuto e il cuore in fibrillazione. Palpitazioni. Poi ancora la pressione, novantuno su quindici. Decisamente pessimi. E così abbiamo preso una decisione esecutiva e abbiamo chiamato un'ambulanza. I paramedici sono arrivati e l'hanno portata via con la barella, blaterando di infarto miocardico. E tu non c'eri. Ovviamente nessuno di noi sa se ha un altro genitore o dei parenti. Spero di non...» Il signor T. ha la faccia bianca, i lineamenti tirati e divisi fra il dolore e il senso di colpa. «Non sapevamo che altro fare, Mikey.» Le budella mi si contorcono; o comunque, qualcosa di strano sta succedendo al mio stomaco. Sento che le ginocchia cominciano a cedermi. Mentre cado, come al rallentatore, prendo in esame i miei rapporti con quella ragazza piena di guai. Sono abbastanza sicuro che, in buona parte, le dinamiche fra noi siano dovute alla mia morte imminente. Nelle ultime settimane ho cercato di reprimere un piccolo, fastidioso pensiero che continuava a riemergere dalla fangosa corrente della mia consapevolezza come un cadavere di mafia malamente fissato al suo blocco di cemento: l'idea che la volubile Livia mi stia vicino proprio perché sono un tipo usa e getta. Se non vuoi finire i tuoi giorni in carcere, sono quello che fa per te. Purtroppo però so anche cosa sia un infarto miocardico; il fratello minore di Bernard ne è morto. Un attacco di cuore è una cosa seria. L'idea che Livia possa andarsene prima di me, forse addirittura stanotte, è un cambiamento fondamentale, cosmico, un'alterazione di tutta la mia vita. Non c'è di che stupirsi se le ginocchia mi cedono. Il signor T., in piedi davanti a me, si agita invano per tenermi su come se fossi un soufflé venuto male che si rifiuta ostinatamente di gonfiarsi. Vuole sentirmi dire che ha fatto bene; io invece ho bisogno di sostegno fisico. Prendo due piccioni con una fava: mi aggrappo alla sua spalla, mi tiro su, cerco disperatamente di respirare. «Avete fatto la cosa giusta. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.» Lui gonfia il petto. «Devo vederla a ogni costo.» «Ovvio che devi vederla. Andiamo.» Il signor T. gira su sé stesso e all'improvviso scopre che abbiamo un folto pubblico. I linciatori hanno un diritto di prelazione su di me. «Va tutto bene, signor T., me ne occupo io», annuncio lasciando andare la sua spalla. Con le dita palpo il coltellino da burro che ho ancora nella tasca dei pantaloni. Sarò anche debole e molliccio, ma sono esente dalla paura. «Stai bene?» mi fa un'attraente signora bionda sulla trentina. «Come?» «Oddio, forse ci hai preso per una folla inferocita, ma la verità è che speravamo di poterti offrire qualcosa da bere. Poi però abbiamo sentito... Dio mio... che cosa terribile... la tua amica portata in ospedale. Vorrei tanto poterti aiutare.» «E perché mai dovrebbe volermi aiutare?» Perplessa, la donna ci riflette un istante. «Tu sei quello che ha dato una ginocchiata a Harland: il che fa di te una sorta di eroe della Sedgewick Stainless, la nostra fabbrica.» Al solo sentir pronunciare quel nome la folla esplode in un ruggito. Occhiali di plastica si alzano nella mia direzione. «Harland è il nostro direttore generale. Adesso è andato a casa. Ah, a proposito, io mi chiamo Vanessa.» «Mikey.» Ci stringiamo la mano. La sua ha le ossa sottili ma è ferma, la mia è flaccida e con la pelle come di carta. Lei mi lascia andare la mano e sorride. Noto che il suo labbro superiore, luccicante di rossetto, si alza un po' di più a destra che a sinistra. Un dettaglio simpatico.
«Tutta questa gente lavora alla Sedgewick Stainless otto
ore al giorno, sette e mezzo delle quali sono impiegate
a fantasticare sul momento in cui potrà dare una bella
ginocchiata nelle palle a Gavin Harland. E tu capiti da
queste parti e lo fai. Per tutti noi sei un eroe,
capisci? Come direttrice di dipartimento non dovrei
approvare il tuo comportamento, ma come donna costretta
a lavorare ogni giorno accanto a quel maiale non poso
far a meno di applaudire.»
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