|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 9
Nella seconda metà degli anni Sessanta mi recavo
di frequente, in parte per motivi di studio, in parte
per altre ragioni a me stesso non ben chiare,
dall'Inghilterra al Belgio, a volte solo per un giorno o
due, a volte per parecchie settimane. Durante una
di quelle puntate in Belgio che - questa era allora la
mia impressione - mi portavano in terre sempre
molto lontane, capitai anche, in una scintillante
giornata di inizio estate, ad Anversa, città che fino a
quel momento conoscevo soltanto di nome. Già all'arrivo,
mentre sferragliando il treno avanzava lentamente sotto la
volta buia della stazione, dopo aver attraversato un
viadotto dalle strane torrette a guglia su entrambi i lati,
fui subito colto da un senso di malessere che, per tutto il
tempo trascorso quella volta in Belgio, non mi avrebbe più
abbandonato. Ricordo ancora con quali passi incerti
girovagavo in lungo e in largo nel centro della città, per
la Jeruzalemstraat, la Nachtegaalstraat, la Pelikaanstraat,
la Paradijsstraat, la Immerseelstraat e per molte altre
vie e stradine, e come alla fine, tormentato dal mal di
testa e dai cattivi pensieri, trovassi rifugio al giardino
zoologico situato in Astridplein, nelle immediate vicinanze
della stazione centrale. Rimasi lì seduto, finché non mi
sentii un po' meglio, su una panchina in penombra accanto a
una voliera in cui svolazzavano numerosi fringuelli e
lucherini dal piumaggio variopinto. Verso il tardo
pomeriggio feci una passeggiata nel parco e infine entrai a
dare un'occhiata al Nocturama, che era stato aperto solo
da qualche mese. Ci volle parecchio prima che i
miei occhi si abituassero alla semioscurità artificiale
e io riuscissi a distinguere i diversi animali che, dietro
le vetrate, trascorrevano quella loro vita umbratile,
illuminata da uno scialbo chiarore lunare. Non ricordo più
con esattezza quali animali io abbia visto
quella volta nel Nocturama di Anversa. Probabilmente erano
pipistrelli e iaculini, originari dell'Egitto o del deserto
dei Gobi, esemplari della fauna locale come istrici, gufi e
civette, opossum australiani, martore, ghiri e lemuri, che
balzavano da un ramo all'altro, passavano rapidi sul terreno
di sabbia giallastra o erano sul punto di sparire in un
intrico di bambù. Un ricordo nitido mi è rimasto in fondo
solo dell'orsetto lavatore che osservai a lungo mentre, con
espressione seria, se ne stava seduto ai bordi d'un
rigagnolo, continuando a lavare sempre lo stesso pezzo di
mela, quasi sperasse, mediante quell'operazione che andava
ben al di là di ogni ragionevole scrupolo, di poter evadere
dal mondo illusorio in cui era capitato senza, per così
dire, il suo personale intervento. Per il resto, degli
animali alloggiati nel Nocturama, ricordo soltanto che
alcuni avevano occhi straordinariamente grandi e quello
sguardo fisso e indagatore, riscontrabile anche in
certi pittori e filosofi i quali, per mezzo della pura
intuizione e del puro pensiero, cercano di penetrare
l'oscurità in cui siamo immersi.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 33
[...] Nessuno può spiegare esattamente che
cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui
sono celati i terrori dell'infanzia. Io però ricordo ancora
che quella volta, nella casamatta di
Breendonk, mi salì alle narici un disgustoso odore di sapone
tenero, che quell'odore si associava, in
un angolo confuso della mia mente, con una delle
espressioni preferite di mio padre e a me sempre
odiosa: «spazzola di saggina», che una serie di tratti
neri cominciò a ballarmi davanti agli occhi e io fui
costretto ad appoggiarmi con la fronte alla parete
enfia di macchie bluastre, ammuffita e, così mi parve,
ricoperta di fredde gocce di sudore. Non posso
dire che insieme a quel senso montante di nausea
fosse affiorata in me un'idea precisa dei cosiddetti
interrogatori di rigore condotti in quel luogo proprio al
tempo della mia nascita: fu solo qualche anno più tardi,
infatti, che lessi in Jean Améry della
spaventosa vicinanza fisica tra vittime e carnefici,
della tortura cui egli era stato sottoposto a Breendonk;
tortura consistita nel sollevarlo in aria per le
mani legate dietro la schiena affinché i condili saltassero
dai glenoidi nell'articolazione delle spalle
con uno schianto e uno scheggiarsi che lui, ancora
al momento di scriverne, non aveva dimenticato, e
nel lasciarlo pendere nel vuoto con le braccia slogate,
tirate in alto da dietro e chiuse sopra la testa in
posizione rovesciata: la pendaison par les mains
liées dans le dos jusqu'à évanouissement - così viene detto
nel libro
Le jardin des plantes,
nel quale Claude Simon si cala nuovamente nel deposito
dei suoi ricordi e dove, a pagina 235, incomincia a
raccontare la frammentaria biografia di un certo Gastone
Novelli che era stato sottoposto, come Améry,
a questa particolare forma di tortura. Precede il resoconto
un'annotazione del 26 ottobre 1943, tratta
dal diario del generale Rommel il quale, vista la
completa impotenza della polizia in Italia, ritiene
che i Tedeschi debbano ora avocare a sé il comando. E in
seguito alle misure prese da costoro, Novelli - così
racconta Simon - fu arrestato e deportato a Dachau. Di quel
che là gli era accaduto, con lui Novelli non aveva mai fatto
parola - prosegue Simon - tranne un'unica volta in cui gli
aveva detto che, dopo la liberazione dal lager, la sola
vista di un Tedesco, anzi di una qualsiasi creatura
appartenente al cosiddetto mondo civilizzato, non importa se
uomo o donna, gli era divenuta così insopportabile che,
non ancora del tutto ristabilito, si era imbarcato sulla
prima nave diretta in Sudamerica per tentarvi la sorte del
cercatore d'oro e di diamanti. Per un certo
periodo Novelli era vissuto nella foresta vergine
presso una tribù di indigeni piccoli e color del rame, che
un giorno, senza tremar di foglia, erano
sbucayi lì accanto a lui come dal nulla. Egli ne assunse le
abitudini e compilò, alla bell'e meglio, un
dizionario della loro lingua fatta quasi esclusivamente di
vocali e, soprattutto, del suono A sottolineato e accentuato
in infinite variazioni; una lingua, come scrive Simon, della
quale all'Istituto di glottologia a San Paolo non è
registrata una sola parola.
Più tardi, tornato in patria, Novelli si mise a dipingere
quadri. Il motivo principale, da lui utilizzato in sempre
nuove versioni e combinazioni -
filiforme, gras, soudain, plus épais ou plus grand, puis de
nouveau mince, boiteux -,
era la lettera A, che egli incideva sullo strato di colore
appena steso, una volta con la matita, un'altra con il
manico del pennello o con uno strumento ancora più
grossolano, in serie cumulate le une accanto o sopra le
altre, sempre uguali e però mai ripetitive, in onde
ascendenti e discendenti come un grido prolungato.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 76
[...] A più di un anno dalla visita al manicomio di
Denbigh, all'inizio del trimestre estivo del 1949, giusto
mentre stavamo preparando gli esami che avrebbero deciso del
nostro futuro - così Austerlitz, dopo un po' di tempo,
riprese il suo racconto -, il direttore Penrith-Smith mi
fece chiamare una mattina nel suo ufficio. Me lo rivedo
davanti in quella veste sfilacciata mentre, avvolto dal
fumo azzurro della pipa, se ne stava lì in piedi nella
luce del sole che filtrava obliqua dalla griglia dei vetri a
piombo, e con quel suo tipico modo di fare
confuso ripeteva più volte, da cima a fondo, che mi
ero comportato in maniera esemplare, davvero esemplare,
considerando gli avvenimenti degli ultimi due anni, e se
nelle settimane successive io avessi soddisfatto le speranze
legittimamente riposte in me dagli insegnanti, avrei potuto
beneficiare di una borsa di studio offerta dagli Stower
Grange Trustees per portare a termine il corso superiore.
Al momento, in ogni caso, egli aveva l'obbligo di
comunicarmi che sui documenti d'esame avrei dovuto scrivere
non Dafydd Elias, bensì Jacques Austerlitz. It appears,
disse Penrith-Smith, that this is your real name. I miei
genitori affidatari, con i quali lui aveva parlato a lungo
al momento dell'iscrizione in quella scuola, avrebbero
voluto informarmi a tempo debito, prima che iniziassero gli
esami, della mia origine, e se possibile adottarmi, ma da
come si erano ormai messe le cose, aveva detto
Penrith-Smith, tale eventualità era esclusa, purtroppo. Lui
stesso sapeva soltanto che i coniugi Elias mi avevano
accolto in casa loro all'inizio della guerra, quando io ero
ancora un bambino piccolo, e perciò non poteva dirmi
niente di più preciso. Appena le condizioni di Elias
fossero migliorate, tutto si sarebbe sicuramente risolto.
As far as the other boys are concerned, you remain Dafydd
Elias for the time being. There's no need to let anyone
know. It is just that you will have to put Jacques
Austerlitz on your examination papers or else your work may
be considered invalid.
Penrith-Smith aveva scritto il nome su un foglietto e
quando me lo porse, io non seppi dirgli altro che
«Thank you, Sir», disse Austerlitz. A disorientarmi
più di tutto, sulle prime, fu che alla parola Austerlitz
io non associavo assolutamente nulla. Se il mio nuovo nome
fosse stato Morgan oppure Jones, in tal caso avrei potuto
riconnetterlo alla realtà. Perfino il nome Jacques mi era
noto per via di una canzoncina francese. Ma Austerlitz non
lo avevo mai sentito prima e perciò, fin dall'inizio,
maturai la convinzione che, tranne me, nessuno si chiamasse
così, né in Galles né nelle isole britanniche e nemmeno nel
resto del mondo. E in effetti, da quando alcuni anni
or sono ho cercato di ricostruire la mia storia, non
mi sono mai imbattuto in un altro Austerlitz, né negli
elenchi telefonici di Londra né in quelli di Parigi,
Amsterdam o Anversa.
[...] Quanto alla mia storia, io, come ho già detto,
fino a quel giorno d'aprile del 1949 in cui Penrith-Smith mi
porse il foglio da lui scritto, non avevo mai udito il nome
Austerlitz. Né riuscivo a immaginarmi come andasse
pronunciato e lessi tre o quattro volte sillabandola quella
strana parola simile a una formula segreta, prima di alzare
gli occhi e dire: Excuse me, Sir, but what does it mean?,
domanda alla quale Penrith-Smith rispose: I think you will
find it is a small place in Moravia, site of a famous
battle, you know. Ed effettivamente, nel corso del
successivo anno scolastico, avrei sentito parlare a lungo
del villaggio moravo di Austerlitz. Nel programma della
penultima classe era infatti prevista storia europea,
che in genere veniva ritenuta un argomento complicato e non
privo di rischi, ragion per cui non si andava di regola
oltre il periodo compreso tra il 1789 e il 1814, periodo
coronato da un grande successo dell'Inghilterra.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 92
[...] il tratto esotico di Andromeda Lodge erano
in primo luogo i cacatua dalle piume bianche, che
volavano tutt'intorno alla casa per un raggio di due
o tre miglia, si mandavano richiami dai cespugli e
facevano il bagno divertendosi fino a tarda sera fra
gli spruzzi del torrente. Il bisnonno di Gerald ne
aveva portate a casa alcune coppie dalle Molucche,
sistemandole nella orangerie, dove si erano presto
moltiplicate sino a formare una numerosa colonia.
Vivevano in piccole botti da sherry, accatastate a piramide
contro una delle pareti laterali, che gli stessi
cacatua, non rispettando su questo punto le loro
abitudini originarie, disse Austerlitz, avevano provvisto di
trucioli trovati in una segheria giù in riva al
fiume. La maggior parte di loro era riuscita a superare
persino il durissimo inverno tra il 1946 e il
1947, perché nei due mesi più gelidi, gennaio e febbraio,
Adela aveva appositamente acceso la vecchia
stufa dell'orangerie. Era uno spettacolo meraviglioso,
disse Austerlitz, osservare con quanta agilità quegli
uccelli si arrampicassero da una spalliera all'altra
tenendosi con il becco e, al momento di scendere,
eseguissero ogni sorta di evoluzioni acrobatiche come, con
le finestre aperte, volassero dentro e fuori,
oppure saltellassero e corressero sul pavimento,
sempre indaffarati e - questa era l'impressione -
sempre con uno scopo ben preciso. Del resto assomigliavano
agli uomini da parecchi punti di vista. Li
si udiva sospirare, ridere, starnutire e sbadigliare. Si
raschiavano la gola prima di incominciare a parlare
nella loro lingua di cacatua, si mostravano attenti,
calcolatori, scaltri e astuti, falsi, maligni, vendicativi
e litigiosi. A certe persone, più di tutte ad Adela e a
Gerald, erano affezionati, mentre ne perseguitavano altre,
come ad esempio la governante gallese che solo di rado si
faceva vedere all'aperto, con un vero e proprio odio; anzi,
sembrava sapessero esattamente a quali ore la donna, sempre
con un cappello nero in testa e un parapioggia nero in
mano, si recava alla casa di culto, e in attesa di queste
occasioni che si ripetevano regolarmente le facevano ogni
volta la posta per inseguirla con urli sguaiati. Anche il
modo di raccogliersi in folti gruppi sempre diversi per
tornare poi a starsene vicini a coppie, come se non
conoscessero altro che la concordia e fossero inseparabili
in eterno, era uno specchio della società umana. In una
radura, circondata da piante di corbezzolo, avevano persino
un cimitero, benché non fossero loro personalmente a
occuparsene, con una lunga fila di fosse, e in una stanza al
piano superiore di Andromeda Lodge c'era un armadio a muro,
costruito evidentemente proprio al medesimo scopo,
nel quale era stipato, dentro scatole di cartone verde
scuro, un gran numero di consimili defunti dei
cacatua, i loro fratelli dal ventre rosso e dal ciuffo
giallo, are azzurre e macao, lorichetti e cocorite,
parrocchetti terragnoli e con proboscide, che il bisnonno o
trisnonno di Gerald aveva portato con sé dalla sua
circumnavigazione del globo, oppure aveva commissionato per
un paio di ghinee o di luigi a un mercante di Le Havre, un
certo Théodore Grace, come risulta dai foglietti
registranti la provenienza sul fondo delle scatole. Il più
bello di tutti questi uccelli, tra i quali c'erano anche
alcune specie locali come picchi, torcicolli, nibbi e
rigogoli, era il cosiddetto pappagallo cenerino. Vedo
ancora distintamente, disse Austerlitz, la scritta sul suo
sarcofago di cartone verde: Jaco,
Ps. Erithacus L.
Era originario del Congo, e nel suo esilio gallese aveva
raggiunto - come recitava l'epitaffio allegato - la
veneranda età di sessantasei anni. Era stato oltremodo
docile e mansueto, si leggeva sul foglietto, aveva appreso
con facilità, parlato molto da solo e con gli altri, aveva
fischiettato e in parte anche composto intere canzoni, ma
soprattutto aveva imitato le voci dei bambini
lasciandosi addestrare da loro. Quando però non
gli davano abbastanza noccioli di albicocca e noci
da sgranocchiare, che sapeva aprire con somma destrezza, si
faceva di cattivo umore e - in ciò soltanto mancando di
creanza - se ne andava in giro dappertutto a rosicchiare i
mobili. Gerald aveva spesso tratto fuori dalla sua scatola
questo singolare pappagallo. Misurava circa nove pollici e,
come denunciava il suo nome, possedeva un piumaggio grigio
cenere, tranne la coda rosso carminio, un becco nero e una
faccia biancastra, segnata - come ben si poteva immaginare -
da profonda mestizia. Del resto, proseguì Austerlitz, ad
Andromeda Lodge quasi non c'era stanza che non ospitasse una
specie di gabinetto di storia naturale, con armadi provvisti
di innumerevoli cassetti, in parte muniti di vetri, nei
quali erano sistemate a centinaia le uova quasi sferiche dei
pappagalli e, accanto, collezioni di conchiglie, minerali,
coleotteri e farfalle, nonché, immersi nella formaldeide,
orbettini, vipere e lucertole, e poi ancora gusci di
chiocciola e stelle marine, gamberi e granchi e grandi
erbari con foglie di alberi, fiori ed erbe.
Adela gli aveva raccontato una volta, disse Austerlitz,
che la trasformazione di Andromeda Lodge in una
specie di museo di storia naturale aveva avuto inizio
nel 1869, quando l'antenato di Gerald amante dei
pappagalli aveva conosciuto Charles Darwin, il quale stava
lavorando allora al suo studio sull'origine
dell'uomo in una casa presa in affitto non lontano
da Dolgellau. A quell'epoca Darwin era stato spesso
ospite dei Fitzpatrick ad Andromeda Lodge e, secondo quanto
si tramandava in famiglia, aveva ripetutamente elogiato la
vista paradisiaca che si godeva di lassù.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 106
[...] Talvolta, alla vista di una tignola morta così
nel mio appartamento, mi domando che genere di angoscia e
dolore esse provino quando capiscono di essersi smarrite.
Come lui aveva appreso da Alphonso, disse Austerlitz, non
c'è in fondo alcun motivo per negare una psiche alle
creature più umili. A sognare di notte non siamo, a
suo giudizio, soltanto noi e i cani o gli altri animali
domestici, legati da millenni alle nostre emozioni;
anche i mammiferi più piccoli, i topi e le talpe, indugiano
dormendo, come si può dedurre dai movimenti degli occhi, in
un mondo esistente soltanto dentro di loro, e chissà, disse
Austerlitz, forse anche le tignole sognano, forse sogna
anche la lattuga in
giardino, quando di notte leva lo sguardo alla luna.
Io stesso, nelle settimane e nei mesi che mi era dato
trascorrere in casa dei Fitzpatrick, avevo non di rado
l'impressione - e questo persino durante il giorno -
di essere immerso in un sogno, disse Austerlitz. La
vista dalla camera con il soffitto azzurro, che Adela
ha sempre chiamato la mia camera, confinava davvero con
l'irreale. Vedevo dall'alto, simili a un verde
paesaggio collinare, le chiome degli alberi, in prevalenza
cedri e pini a ombrello che, dalla strada sotto
casa, scendevano verso la riva del fiume, vedevo i
corrugamenti scuri nelle masse montuose sul lato
opposto e guardavo a lungo in direzione del mare
d'Irlanda che, a seconda delle ore e delle condizioni
atmosferiche, cambiava di continuo. Quante volte sono
rimasto davanti alla finestra aperta senza
riuscire a fissare un solo pensiero di fronte a quello
spettacolo sempre diverso! Di mattina là fuori c'era
la metà in ombra del mondo, il grigio dell'aria stratificato
sull'acqua. Di pomeriggio si levavano spesso sull'orizzonte
sud-occidentale nubi cumuliformi: erano declivi e pareti
ripide che, d'un bianco abbagliante, si intrecciavano fra
loro e crescevano gli uni sulle altre arrivando sempre più
in su, così in alto - mi aveva detto una volta Gerald, disse
Austerlitz - come le vette delle Ande o del Karakorum.
Poi di nuovo incombevano in lontananza i piovaschi e
venivano trascinati dal mare verso terra, come a teatro
le pesanti cortine del sipario, e nelle sere d'autunno
la nebbia rotolava verso la spiaggia, si accumulava
contro i fianchi delle montagne e si spingeva su per
la valle. Ma era soprattutto nelle chiare giornate
estive che sull'intera baia di Barmouth era sospeso
uno scintillio talmente uniforme da rendere indistinguibili
le superfici della sabbia e dell'acqua, della terraferma e
del mare, del cielo e della terra. In una caligine
perlacea le forme e i colori si dileguavano; non c'erano più
né contrasti né gradazioni, solo passaggi fluidi, animati
dalla luce, un unico insieme indistinto dal quale
affioravano soltanto i fenomeni più fugaci, e stranamente -
me ne ricordo assai bene - era stata proprio la fugacità di
quei fenomeni a darmi allora come il senso dell'eterno.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 112
[...] Il tempo - così disse Austerlitz
nell'Osservatorio di Greenwich - è, fra tutte le nostre
invenzioni, senz'altro la più artificiosa e, nel suo essere
vincolata ai pianeti che ruotano intorno al proprio asse,
non meno arbitraria di quanto lo sarebbe ad esempio un
calcolo basato sulla crescita degli alberi o sul
periodo impiegato da una pietra calcarea per disgregarsi, a
prescindere poi dal fatto che il giorno
solare, in base al quale ci regoliamo, non fornisce
una misura esatta, sicché noi, anche al fine di calcolare il
tempo, siamo stati costretti a escogitare un
immaginario sole medio, la cui velocità di rotazione
non cambia e che, nella sua orbita, non è inclinato
verso l'equatore. Se Newton riteneva, disse Austerlitz - e
intanto indicava attraverso la finestra l'ansa
del fiume che, luccicante nell'ultimo riverbero del
giorno, abbracciava la cosiddetta Isola dei cani -, se
davvero Newton riteneva che il tempo fosse un
fiume come il Tamigi, dov'è allora la sorgente del
tempo e in quale mare esso sfocia alla fine? Un fiume, come
ben sappiamo, ha sempre e necessariamente un limite su
entrambi i lati. Ma quali sarebbero in questa prospettiva
le sponde del tempo?
Quali sarebbero le sue proprietà specifiche, tali da
corrispondere più o meno a quelle dell'acqua, che
è liquida, piuttosto pesante e trasparente? Come si
distinguono gli oggetti immersi nel tempo da quelli
che non ne sono mai stati toccati? Che cosa significa
che le ore di luce e quelle di oscurità sono segnate
nella medesima circonferenza? Perché in un certo
luogo il tempo è eternamente immobile e in un altro scorre
veloce e incalzante? Non si potrebbe sostenere, disse
Austerlitz, che il tempo stesso, per i secoli e i millenni,
è rimasto asincronico? In definitiva non è poi da molto che
si sta espandendo dappertutto. E d'altronde, in parecchie
regioni della terra,
la vita degli uomini non viene forse regolata ancor
oggi, più che dal tempo, dai fenomeni atmosferici e
quindi da una grandezza non quantificabile, che
non conosce la regolarità lineare, non avanza costantemente,
ma si muove a spirale, determinata da
ristagni e irruzioni, che si ripresenta di continuo in
forma mutata e nel suo sviluppo nessuno sa dove si
diriga? L'essere-fuori-dal-tempo - disse Austerlitz -,
che sino a pochi anni fa valeva per le zone arretrate
e dimenticate nel proprio paese più o meno come
in passato era valso per i continenti transoceanici
non ancora scoperti, è tuttora valido persino in una
metropoli fondata sul tempo come Londra. I morti,
d'altronde, sono fuori dal tempo, al pari dei morenti e di
tutti i malati costretti a letto in casa o negli ospedali, e
non soltanto loro, basta già un certo
grado di infelicità personale per tagliarci fuori da
qualsiasi passato e da qualsiasi futuro. Io in effetti,
disse Austerlitz, non ho mai posseduto alcun tipo di
orologio, né una pendola né una sveglia né un orologio da
tasca e nemmeno uno da polso. Un orologio mi è sempre
sembrato qualcosa di ridicolo, qualcosa di mendace per
antonomasia, forse perché,
per un impulso interiore a me stesso incomprensibile, mi
sono sempre ribellato al potere del tempo
escludendomi dai cosiddetti eventi temporali, nella
speranza - come penso oggi, disse Austerlitz - che il
tempo non passasse, non fosse passato, che mi si
concedesse di risalirne in fretta il corso alle sue spalle,
che là tutto fosse come prima o, per meglio dire,
che tutti i punti temporali potessero esistere
simultaneamente gli uni accanto agli altri, cioè che nulla
di quanto racconta la storia sia vero, che quanto è avvenuto
non sia ancora avvenuto, ma stia appunto accadendo
nell'istante in cui noi ci pensiamo, il che
naturalmente dischiude peraltro la desolante prospettiva di
una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 182
[...] Mille, diecimila, ventimila, mille volte mille e
migliaia di migliaia era dunque il ritornello abbaiato con
voce roca e fatto entrare nella testa dei Tedeschi non solo
in nome della loro grandezza, ma anche della fine già
incombente. Tuttavia, diceva Véra, proseguì Austerlitz,
Maximilian non aveva mai creduto che il popolo tedesco fosse
stato trascinato nella disgrazia: secondo
lui, piuttosto, esso si era pienamente rifuso in quella
forma perversa, muovendo dai sogni di ogni singolo
individuo e dai sentimenti coltivati nelle famiglie, e
aveva quindi prodotto, come rappresentanti simbolici del suo
stato d'animo, gli alti papaveri nazisti che
Maximilian riteneva tutti, senza eccezione alcuna,
arruffoni e lavativi. Ogni tanto Maximilian raccontava,
così ricordò Vèra, disse Austerlitz, di quella volta
all'inizio dell'estate del 1933 quando, dopo una riunione
sindacale a Teplice, si era spinto per un buon
tratto fin nella zona dei Monti Metalliferi e lì, nel
giardino di una trattoria, si era imbattuto in alcuni
gitanti che in un villaggio sul versante tedesco avevano
fatto ogni sorta di acquisti, fra l'altro un nuovo tipo di
caramelle con una svastica color lampone incorporata nella
massa zuccherina e tale dunque da
sciogliersi di fatto sulla lingua. Nel vedere quella
ghiottoneria nazista, Maximilian aveva detto di essersi
improvvisamente reso conto che i Tedeschi stavano
riorganizzando ex novo l'intero sistema produttivo,
dall'industria pesante giù giù fino alla creazione di simili
scempiaggini, e non perché glielo avessero ordinato, no:
ciascuno nel proprio settore, mosso dall'entusiasmo per il
riscatto nazionale. Véra raccontò ancora, disse Austerlitz,
che nel corso degli anni Trenta Maximilian aveva fatto
parecchi viaggi in Austria e Germania per poter meglio
valutare come stessero evolvendo le cose, ed ella ricordava
perfettamente il resoconto che lui fece, subito dopo il
suo ritorno da Norimberga, della strepitosa accoglienza
riservata al Führer, lì convenuto in occasione del congresso
del partito. Già diverse ore prima
del suo arrivo l'intera popolazione di Norimberga,
insieme con la gente arrivata da fuori, non solo dalla
Franconia e da altre località della Baviera, ma anche dalle
regioni più lontane del paese, dallo Holstein e dalla
Pomerania così come dalla Slesia e dalla Foresta Nera, si
accalcava impaziente ed eccitata lungo il percorso
previsto, finché, in mezzo al fragore delle ovazioni, non
apparve il corteo motorizzato
delle pesanti Mercedes e avanzò a passo d'uomo per
la stretta via, la quale separava la marea dei volti che
si spargevano raggianti e delle braccia che si tendevano
bramose. Maximilian aveva raccontato, disse Véra, che in
quella folla, concresciuta al punto da diventare un'unica
creatura e percorsa da strani fremiti e contrazioni, egli
si era in effetti sentito un corpo estraneo, pronto a
essere triturato ed espulso.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 186
[...] Agáta, per parte sua, non era disposta a recarsi
in Francia prima di Maximilian, benché lui glielo avesse
consigliato più volte, e fu così che tuo padre, ormai in
grave pericolo, mi raccontò Véra, disse Austerlitz,
decollò da Ruzyné per Parigi soltanto il pomeriggio
del 14 marzo, quando ormai era già quasi troppo
tardi. Ricordo ancora - disse Véra - che, al momento di
congedarsi, indossava un meraviglioso doppiopetto color
prugna e un cappello di feltro nero a tesa larga con un
nastro verde. In effetti la mattina dopo - s'era appena
fatto giorno - i Tedeschi entrarono a Praga mentre infuriava
una tempesta di neve che pareva farli spuntare per così dire
dal nulla, e quando attraversarono il ponte e i carri armati
arrivarono sulla Narodní un profondo silenzio calò
sull'intera città. A partire da quel giorno la gente prese
a far vita ritirata, a camminare con passo più lento,
come nel sonno, quasi non sapesse più in quale direzione
volgersi. Motivo di particolare disorientamento fu per noi,
notò Véra, disse Austerlitz, doverci di colpo adattare alla
circolazione a destra. Ho sentito spesso un tuffo al cuore,
ella disse, vedendo una macchina sfrecciare sulla strada
nella corsia di destra, perché mi assaliva irrimediabile il
pensiero che da quel momento in poi avremmo dovuto vivere in
un mondo sbagliato. Naturalmente, proseguì
Vèra, per Agáta era ancora più difficile che per me
riuscire a cavarsela sotto il nuovo regime. Da quando i
Tedeschi avevano emanato le loro disposizioni
relative alla popolazione ebraica, lei poteva fare i
suoi acquisti solo a determinate ore; non le era consentito
salire su un taxi, in tram doveva viaggiare
nell'ultima carrozza, caffè, cinema, concerti, e in generale
qualsiasi raduno le erano preclusi. Non poteva nemmeno più
calcare le scene, e le rive della Moldava, i giardini e i
parchi, che tanto aveva amato, ora le erano interdetti.
Non c'è luogo in mezzo al verde, disse una volta, dove io
possa ancora andare, e solo adesso capisco veramente,
aggiunse, com'è bello starsene appoggiati senza pensieri al
parapetto di un battello che va solcando il fiume. La
lista dei divieti, che si faceva ogni giorno più lunga -
sento ancora Véra raccontare, disse Austerlitz, che
presto fu proibito l'accesso ai marciapiedi intorno
ai parchi, alle lavanderie o alle tintorie, oppure l'uso di
un telefono pubblico -, condusse in poco tempo Agáta
sull'orlo della disperazione. La rivedo andare avanti e
indietro in questa stanza, disse Véra, battersi la fronte
con la mano a ventaglio e, scandendo le sillabe a una a una,
esclamare: Non ca pi sco! Non ca pi sco! Non lo ca pi rò
mai!! Ciò nonostante quando le era possibile andava in
centro, e lì è passata per non so quali e quanti uffici, ha
atteso ore e ore per spedire un telegramma nell'unica posta
cui potevano accedere i quarantamila ebrei di
Praga; ha raccolto notizie, ha stretto relazioni, depositato
denaro, esibito certificali e garanzie, e una
volta rincasata si torturava la mente sino a notte fonda.
Ma quanto più a lungo e in modo intenso si dava da fare,
tanto più si affievoliva in lei la speranza di
ottenere un permesso per l'espatrio, e così, durante
l'estate, quando già si sentivano voci sull'imminente
guerra e sulle restrizioni che di certo si sarebbero
inasprite al suo scoppio, ella si risolse infine - come
mi raccontò Véra, disse Austerlitz - a mandare almeno me in
Inghilterra, dopo che, grazie all'interessamento di uno dei
suoi amici del teatro, era riuscita a far inserire il mio
nome nelle liste di uno dei pochi convogli di bambini che in
quei mesi partivano da Praga alla volta di Londra.
|
<< |
< |
> |
>> |
Pagina 190
[...] Quando ripenso ai due anni che seguirono al
cosiddetto scoppio della guerra, disse Véra,
ho come la sensazione che tutto allora venisse risucchiato
sempre più rapidamente in un gorgo. Alla radio incalzavano
le notizie, trasmesse dagli annunciatori nel caratteristico
tono aspro e gutturale, circa gli inarrestabili successi
della Wehrmacht che stava
per impadronirsi dell'intero continente europeo e
le cui campagne, colpo dopo colpo, aprivano ai Tedeschi, con
logica a quanto pare ineluttabile, la prospettiva di un
impero universale, dove tutti loro, in
virtù dell'appartenenza a questo popolo eletto,
avrebbero avuto accesso alle più brillanti carriere.
Credo - sono parole di Vèra, disse Austerlitz - che
in quegli anni di travolgenti vittorie perfino i più
scettici fra i Tedeschi siano stati colti da una sorta di
ebbrezza da altitudine, mentre noi, i soggiogati, vivevamo
per così dire sotto il livello del mare e dovevamo assistere
al progressivo inserirsi delle SS nell'economia dell'intero
paese; e intanto le imprese commerciali venivano intestate
l'una dopo l'altra a fiduciari tedeschi. Persino la
fabbrica di fez e pantofole fu arianizzata. Ciò di cui
Agáta ancora disponeva bastava appena per far fronte alle
necessità più urgenti. I suoi depositi bancari erano
bloccati da quando aveva dovuto presentare una dichiarazione
patrimoniale di otto pagine con dozzine di sezioni.
Le era anche severamente proibito alienare oggetti
di valore come quadri o pezzi di antiquariato, e ricordo,
disse Véra, che una volta aveva richiamato la
mia attenzione su un paragrafo, in una di queste ordinanze
degli occupanti, nel quale si diceva che, in
caso di mancato rispetto del divieto, il giudeo in
questione e l'acquirente sarebbero andati incontro
alle più severe misure di polizia. Il giudeo in questione!
esclamò Agáta, e poi disse: Ma come scrive
questa gente! C'è da restare annichiliti! Fu nel tardo
autunno del 1941, credo, disse Véra, che Agáta dovette
portare al cosiddetto Posto di consegna obbligatorio la
radio, il grammofono insieme con i dischi
che lei tanto amava, il cannocchiale e il binocolo da
teatro, gli strumenti musicali, i gioielli, le pellicce e
i vestiti lasciati lì da Maximilian. In seguito a un errore
che aveva commesso in tale occasione, la mandarono, in una
giornata gelida - l'inverno, disse Véra, era giunto presto
quell'anno -, a spalar neve
fuori città nell'aerodromo di Ruzyné, e l'indomani
alle tre, nel cuore della notte, arrivarono i due messi
della comunità israelitica, che già da tempo Agáta
aspettava, per comunicarle che doveva prepararsi a
partire entro sei giorni. Questi messi, così me li dipinse
Véra, disse Austerlitz, si somigliavano in maniera
sorprendente e avevano volti in qualche modo
non ben delineati, dai contorni incerti; indossavano
giacche provviste di svariate pieghe, tasche, abbottonature
e di una cintura; giacche che, pur non risultando perspicuo
a che cosa mai servissero, parevano
straordinariamente funzionali. Parlarono per un
po' con Agáta a bassa voce e le consegnarono un fascio di
stampati nei quali, come si vide, era scritto
tutto con precisione e fin nei minimi dettagli: dove
e quando la persona convocata doveva presentarsi;
quali capi di vestiario - giacca, impermeabile, copricapo
caldo, paraorecchi, muffole, camicia da notte,
biancheria personale ecc. - doveva portare con sé;
quali altri articoli, come ad esempio l'occorrente
per il cucito, del grasso per il cuoio, un fornelletto a
spirito e delle candele, erano consigliabili; si diceva
inoltre che il peso complessivo del bagaglio non doveva
superare i cinquanta chili; che cosa si poteva
portare in fatto di bagaglio spicciolo e viveri, che le
valigie dovevano essere contrassegnate dal nome,
dalla destinazione e dal numero comunicato; che
tutti i moduli acclusi dovevano essere compilati per
intero e sottoscritti, che non era consentito portare
con sé cuscini dei divani e altre suppellettili e nemmeno
confezionare zaini e borse da viaggio utilizzando tappeti
persiani, cappotti o comunque scampoli di
stoffe pregiate; che i fiammiferi e gli accendini, così
come il fumare, erano vietati nel punto di raccolta e,
in assoluto, da quel momento in poi, e che bisognava
comunque seguire alla lettera ogni disposizione
degli organi ufficiali. Agáta non era in grado di attenersi
a queste norme che, come adesso ben vedo anch'io, disse
Véra, erano scritte in un linguaggio davvero nauseante;
tutt'al più avrebbe buttato a caso in
una borsa alcuni oggetti senz'altro poco pratici, come uno
che intenda fare una gita di qualche giorno: fu così che
alla fine, per quanto mi ripugnasse e
avessi l'impressione di rendermi corresponsabile,
mi incaricai io stessa di preparare i bagagli, mentre
lei, apatica, restava tutto il tempo appoggiata alla
finestra e guardava giù nella strada deserta. Il giorno
stabilito, di primo mattino, quando fuori era ancora buio,
ci mettemmo in marcia, il bagaglio fissato alla slitta, e,
senza scambiarci una parola, percorremmo verso valle, in
mezzo alla neve che scendeva giù a vortici intorno a noi, la
lunga via che costeggia la riva sinistra della Moldava,
passando davanti al parco, fino al palazzo della fiera a
Holesovice. Quanto più ci avvicinavamo a questo luogo,
tanto più spesso affioravano dall'oscurità piccoli gruppi di
persone cariche di pesanti bagagli che, nella tormenta
divenuta ora più fitta, si muovevano tutte a fatica verso la
stessa meta, sicché a poco a poco venne
a formarsi una lunga carovana in mezzo alla quale,
intorno alle sette, raggiungemmo l'ingresso debolmente
illuminato da un'unica lampadina. Lì aspettammo nella
schiera delle persone convocate, percorsa solo di quando in
quando da un mormorio di paura; persone tra le quali c'erano
vecchi e bambini, gente semplice e gente distinta, e che
portavano tutte, come prescritto, il loro numero di
trasporto legato intorno al collo con lo spago. Dopo poco
Agáta mi pregò di lasciarla. Al momento dell'addio
mi abbracciò e mi disse: Laggiù c'è il parco Stromovka.
Andresti qualche volta a fare una passeggiata per me? Un
luogo così bello, che mi è sempre stato tanto caro. Magari,
se guardi nell'acqua scura degli stagni, chissà che in una
bella giornata tu non veda il mio volto. Ecco, e poi,
disse Véra, ho ripreso la via di casa.
|
<< |
< |
|