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| << | < | > | >> |Indice5 Nota dell'autrice SHAKESPEARE'S KITCHEN UN'INTRODUZIONE 11 Soldi, fama, e belle donne CUGINI 35 Un'assenza di cugini 57 Conversazione nella cucina di Eliza CRIMINI 83 Il ladro di immondizia 95 A chi abbaia il cane 111 Una comunità cintata MORTI 117 Desiderio fatale 149 La morte degli altri L'URLO 163 La cimice al contrario SORPRESA DALLA GIOIA 181 Picnic 191 Mistral 197 Le scarpe di Leslie UNA FINE 215 Biglietto di Yom Kippur |
| << | < | > | >> |Pagina 11Qualcuno doveva appena aver detto qualcosa di bello su Nathan Cohn, perché quando quella serena mattina lui varcò la soglia del Concordance Institute, Celie, la centralinista, disse: «Buongiorno! Congratulazioni! Siamo tutti al settimo cielo!». «Oh, grazie, grazie!» disse Nathan, lasciandosi sfuggire l'attimo in cui sarebbe stato possibile chiedere: «Perché? Cosa ho fatto?», poiché ecco che dalle scale gli venne incontro Barbara, l'archivista dell'istituto, dicendo: «Eccolo qui! L'uomo del momento!». Abbracciò Nathan e aggiunse: «ศ un bel colpo per l'istituto! Joe dice di salire nel suo ufficio, vuole farti le congratulazioni». «Prima prendo il caffè» disse Nathan. «Non posso ricevere congratulazioni a stomaco vuoto». «Te lo porto io» propose Celie. «Latte? Zucchero?». «Neanche per sogno!» disse Nathan. «Faccio da me». L'istituto aveva uno stile democratico. Era normale che il direttore, i consiglieri, i fondatori, i membri attuali e onorari incluso il premio Nobel, Winterneet e i giovani ricercatori, gli stagisti, gli impiegati e le segretarie si dessero del tu, con l'eccezione della donna delle pulizie nera: quando parlavano di lei o con lei, tutti la chiamavano signora Coots. «Di' un po', Barbara» esordì Nathan «si può sapere cosa...». La semplice, brava donna lo stava guardando con un sorriso radioso. Nathan disse: «Si può sapere come l'avete saputo?». «Me l'ha detto Celie!» rispose Barbara. «Ha chiamato tua moglie» disse Celie. «Dice se per favore la chiami appena arrivi». «Aha» disse Nathan. Quindi è così che è andata.
Nathan si pentì di non essersi voltato quando Nancy era
uscita sulla veranda. Evidentemente qualcuno aveva telefonato a casa sua mentre
lui portava fuori l'immondizia girando intorno al garage. Nathan era salito in
macchina, e la sua nuca sapeva che Nancy era sulla veranda. Come se la vedesse,
lì in piedi. Lei l'aveva chiamato, però Nathan aveva già avviato il motore, o
aveva scelto quel momento per girare la chiave, pensando, con il motore acceso
non posso sentirla. Il semaforo all'incrocio era rosso. E c'era stato il momento
in cui Nathan avrebbe potuto invertire la direzione dell'auto facendo marcia
indietro nel vialetto degli Stone ma non l'aveva
fatto. Il semaforo era diventato verde e Nathan Cohn aveva
percorso i dieci minuti di strada fino alla Concordance University, aveva
parcheggiato dietro l'istituto ed era entrato per
essere coperto di complimenti e colmato di attenzioni.
Nat Cohn era un uomo massiccio con un'andatura pesante e una barba molto folta e molto nera dalla crescita entusiastica. A quarantadue anni, Nat era più anziano dei ricercatori e anche di alcuni dei membri più giovani, l'unico poeta in quella comunità di accademici. Otto anni prima, quando aveva preso il Nobel e aveva smesso di avere un ruolo attivo all'istituto, Winterneet l'aveva proposto come suo successore. Nat era stato un suo studente, e il suo secondo libro di poesie era stato recensito dal «New York Times». Nat e Nancy erano sposati da tre anni quando si erano trasferiti nella piccola città universitaria di Concordance, nel Connecticut. Si ritenevano molto fortunati. L'istituto, uno dei primi think tank del paese, era un'organizzazione senza scopo di lucro che pagava agli studiosi più o meno l'indispensabile per la sopravvivenza e per leggere, scrivere e pensare. Era un centro di ricerca indipendente, anche se era legato alla Concordance University, e aveva sede all'interno del campus, nella residenza rococò del primo rettore, che da tempo ormai era divenuta troppo piccola. Quella bella mattina Nathan avanzò lungo il corridoio ricoperto di moquette per ricevere il plauso di Betty Bennet e Jenny Bernstine, le cui scrivanie erano collocate sotto due archi a volta per lasciare libero il passaggio. Betty, la segretaria di Joe, confermò che anche lei era al settimo cielo. Jenny baciò Nathan e disse: «ศ una vera iniezione di ottimismo per l'istituto!». Jenny era la moglie di Joe Bernstine, uno dei due fondatori; da quando Teddy, il loro figlio minore, aveva iniziato ad andare a scuola, lei aiutava Barbara in biblioteca. Jenny accompagnò Nathan in cucina. Era una stanza piccola, affacciata sul roseto inselvatichito del primo rettore. L'enorme vecchia cucina nel seminterrato era stata adibita a ufficio spedizioni e magazzino. Alpha Stone, il direttore ad interim, era in piedi a un angolo del tavolo e versava caffè per sé e per Yvette Gordot nelle tazze bianche e blu con cui Jenny aveva sostituito le Spode sbeccate e senza manico ereditate dai tempi del primo rettore. La cucina era la piazza dell'istituto, il foro in cui avvenivano gli scambi sociali e intellettuali, e il caffè era sempre caldo, benché non necessariamente buono. Spesso c'era anche una teglia di biscotti appena sfornata da una delle mogli o delle segretarie. L'intimo capannello smise di parlare e accolse Nathan con uno sguardo amorevole. Lui capì che stavano dicendo belle cose sul suo conto. In quel momento il cuore di Nathan Cohn avrebbe dovuto provare un senso di gratificazione e pomparla nel sangue perché si diffondesse in tutto il corpo come un buon primo sorso di whisky. Ma Nathan era doppiamente distratto, dal retrogusto amaro del suo cattivo comportamento verso la moglie e dall'impazienza di scoprire il motivo di quelle congratulazioni. Nat Cohn era come un uomo che viene avvicinato da qualcuno che lo chiama per nome, gli chiede della sua famiglia qualcuno di cui ha dimenticato il nome, il cui viso non ricorda di aver mai visto. Si sforzava di non farsi cogliere in fallo e stava con le orecchie tese in cerca di possibili indizi. «E quando sarà?» chiese Yvette. Yvette era l'economista dell'istituto. «Nessuno mi ha dato dei dettagli» disse Nat. «Faranno la gita tradizionale sull'Hudson con lo yacht dei Crewberg. Dicono che sarà una serata di gala. A Nancy piacerà. Ce l'hai uno smoking?». «Oh cielo» disse Nathan. «Si possono affittare» disse Jenny. «Dovrai comprare solo le scarpe di vernice». Il professor Alvin Aye entrò e Jenny gli disse: «Nat ha vinto il Premio Columbia per la Poesia!». Ho vinto il Premio Columbia per la Poesia!, disse Nathan Cohn a se stesso, e avvertì il sussulto della soddisfazione, che nella sua mente prese questa forma: A volte penso di essere bravo, di essere il migliore. Adesso il mondo lo sta dicendo. I miei amici sentono il mondo che lo dice. Forse sono davvero il migliore? Ora il suo cuore si agitava nel petto con battiti sordi, una sensazione che, in circostanze diverse, Nathan avrebbe esitato a definire piacevole. Celie comparve sulla porta della cucina e disse: «C'è di nuovo tua moglie al telefono». Nathan prese la tazza del caffè e salì in ascensore nel suo ufficio. La voce di Nancy disse: «Cosa ti costava mettere fuori la testa da quel dannato finestrino quando hai sentito che ti chiamavo?». «Come diamine facevo a sentire che mi chiamavi se avevo il motore acceso?» ribatté Nathan. «Cosa volevi?». «Cosa voglio!» disse Nancy. «Cosa potrei mai volere? Comunque ti ho chiamato per ricordarti di comprare del vino da portare ai Bernstine. Suppongo che tu ti sia dimenticato che siamo a cena dai Bernstine». «Perché mai dovresti "supporre" una cosa del genere?» disse Nathan, prendendo nota sul blocco davanti a sé di cancellare l'appuntamento per il racquetball con Martin Moses. «C'è altro?» le chiese. «No». «Telefonate?». «Perché? Aspetti qualcosa?». Fu qui che Nathan avrebbe potuto dire a sua moglie che aveva vinto il Premio Columbia per la Poesia, ma la sua bocca restò chiusa in quel momento e nel momento che seguì. Poi disse: «Non si rinuncia mai ad aspettarsi qualcosa». «Io ormai ho rinunciato. Vedi di non arrivare di nuovo in ritardo» disse sua moglie. «Sarà fatto» disse Nathan. Riattaccarono. | << | < | > | >> |Pagina 40«Con chi parlerò?» disse Ilka ai suoi amici a New York e iniziò a piangere. I suoi amici aspettarono che finisse. Leina, che era seduta accanto a lei, le accarezzò il braccio.Herbert disse: «Winterneet vive a Concordance». «Ha tenuto un ciclo di conferenze da loro, l'anno prima del Nobel» disse Ilka. «Conoscevo un tizio...» disse Jules. «Suo cognato giocava a golf con il migliore amico dell'avvocato di Winterneet. Forse ho ancora il suo numero». «Questa è la tua opportunità di scoprire la vera America» dicevano a Ilka i suoi amici. Ilka amava parlare. I suoi amici avevano familiarità con i suoi aneddoti sui rifugiati; gli amici di più vecchia data le avevano letto nell'animo ascoltando i suoi aneddoti newyorkesi, e lei aveva fatto lo stesso con loro. «Ho una teoria» disse Ilka. «Secondo me i rifugiati non fanno scoperte. Quando gli scopritori finiscono di scoprire mettono su casa a Lisbona o a Londra. Ci ho messo un decennio a stabilirmi a Manhattan e adesso dovrei andare alla scoperta di Concordance!». Ricominciò a piangere e disse: «Sono sicura che non ci sono rifugiati scopritori». «Ho una teoria» disse Ilka a Jacquelyn. «Secondo me non ci sono rifugiati scopritori, o te l'ho già detto?». «Non importa» disse Jacquelyn. «Ti ascolto». Ilka perfezionò la sua teoria illustrandola agli amici, parlandone con la sua cerchia di conoscenti, e con la cerchia che stava intorno ai suoi conoscenti la gente che uno frequentava a New York. La cosa acquisì una forma e una pelle: «Ci ho messo dieci anni per individuare il cassetto giusto per i cucchiai e per trovare l'interruttore della luce in bagno al buio e adesso dovrei emigrare a Concordance! Non conosco nessuno a Concordance!». «Winterneet vive a Concordance» dicevano tutti, e Ilka rispondeva sempre: «Ha tenuto un ciclo di conferenze da loro, l'anno prima del Nobel». Ilka era stupefatta dalla quantità di persone che lei conosceva che conoscevano persone o conoscevano persone che conoscevano persone a Concordance, e che le diedero nomi e numeri di telefono che Ilka avrebbe potuto chiamare. Un uomo il cui nome Ilka aveva dimenticato così spesso che non avrebbe mai più potuto chiederglielo di nuovo le scrisse su un foglietto il numero della donna con cui usciva ad Ann Arbor, a cui Ilka sarebbe piaciuta tanto, e che sarebbe piaciuta tanto a Ilka. «Dille che ti ho detto io di chiamarla». «Uno può chiamare la gente così?» chiese Ilka.
«Verrai a trovarmi» disse Ilka a sua madre. «Io tornerò a
New York per le vacanze».
Ci vuole tempo per infilare la chiave nella porta di qualcun altro, soprattutto quando in casa il telefono squilla, squilla, squilla. Era Alpha Stone che voleva darle il benvenuto a Concordance. «Vieni a trovarci, quando il nuovo semestre si sarà avviato». L'ufficio del personale le aveva trovato la casetta di un assistente universitario che aveva preso un anno sabbatico. Ilka raccolse un mucchietto di lettere dal pavimento dietro la porta: E.D. Rasmussen; Prof. E. Rasmussen, Ph.D., e una busta scritta a mano per la signora E. Rasmussen da un certo E. Lipton di Madison, Wisconsin. Le poltrone del salotto dei Rasmussen erano rivestite di un tweed arancione logoro e sudicio. Ilka dedusse che avevano bambini piccoli. L'aria immobile suggeriva agitazione recente, assenze palpabili come il vuoto lasciato da qualcuno morto da poco. Ilka portò le valigie al piano di sopra, aprì una porta e annusò la temperatura aliena delle camere da letto di altre persone. Guardò dentro il loro armadio. Erano una coppia giovane, a corto di soldi, collezionisti di camicie di flanella a scacchi dei grandi magazzini in tristi colori sgargianti. Ilka percepì la loro irrequietezza, il desiderio di rintanarsi negli angoli, con i bambini che li tempestavano di domande, bambini che si ribellavano agli ammonimenti su un futuro in cui non sarebbero stati l'esclusiva preoccupazione di nessuno. Il letto era coperto con un tessuto troppo verde e troppo lucido il genere di lucentezza sbagliato. Ilka scelse di non toccarlo. C'era solo un'altra camera di sopra: il letto di un'adolescente, un ricamo a punto croce incorniciato sulla parete che diceva DIO AMA JILL. Tornata nella camera matrimoniale Ilka si tolse le scarpe, prese la sua lista di numeri di Concordance e il telefono dei Rasmussen e si sdraiò sul copriletto verde dei Rasmussen: aveva una superficie vitrea, più fredda della pelle umana. A un certo punto, senza alcuna consapevolezza di aver preso una decisione in merito, Ilka compose il numero della donna che aveva frequentato l'uomo di cui Ilka non riusciva mai a ricordare il nome, così si sentì sollevata quando non rispose nessuno. Fece il numero che le aveva dato Leina Shapiro. Non rispose nessuno. Provò il numero dell'amica di Jacquelyn Rosen e, quando non rispose nessuno, si sentì snobbata. Rimase sdraiata sul copriletto verde dei Rasmussen. Rimase lì a lungo. Martedì Ilka fece di nuovo il primo numero della lista e una gradevole voce femminile disse: «Credo che si sia trasferita a New York. Mi dispiace». Sembrava davvero dispiaciuta una voce allevata con gentilezza che da bambina aveva sempre ricevuto risposta alle sue domande. «Potrei darle il numero di qualcuno che forse ha il suo numero di New York». «Grazie» disse Ilka «ma in realtà non la conosco. Una persona di New York la frequentava ad Ann Arbor e mi ha dato il suo numero. Mi sono appena trasferita qui a Concordance». Ilka intendeva dire: Perché non mi invita a prendere un caffè? Invece disse: «Grazie. Mi scusi se l'ho disturbata». Mercoledì Ilka chiamò il numero che le aveva dato Herbert, e una voce di bambino, né maschio né femmina, disse: «Sono andati fuori. Ehi! Aspetta! Sono arrivati. Stai lì». «Non importa» disse Ilka e sentì il bambino che diceva: «Papà, c'è una signora al telefono». Nella stanza non vista il telefono non visto cambiò di mano. La voce del papà disse: «Chi parla?». «Sono una nuova ricercatrice dell'istituto» rispose Ilka. «Il mio amico Herbert Meadmore mi ha dato il suo numero e mi ha detto di farle un colpo di telefono». «Herbert chi?». «Non conosce Herbert Meadmore? Credo che...». Ilka arrossì. Il numero che Herbert le aveva detto di chiamare era il numero sotto a quello che aveva fatto. Se questo era il numero che le aveva dato Jules, forse stava parlando con il tipo il cui cognato giocava a golf con il migliore amico dell'avvocato di Winterneet. Ilka disse: «Conosce Jules McCartin?», ma l'uomo doveva aver allontanato la cornetta dall'orecchio. Ilka lo sentì chiamare qualcuno in un corridoio o in un ingresso, o forse in una cucina: «Conosciamo un certo Herbert? Per favore, Charlie, prendi il sacchetto, non vedi che tua madre ha le mani occupate? Joanne, conosciamo qualche Herbert? C'è una signora al telefono». La voce dell'uomo tornò forte e chiara, e disse: «Com'era il nome?». «Jules McCartin. Ma non importa...» disse Ilka. «Aspetti». L'uomo gridò: «HERBERT McCARTIN!» e la vocina della donna, chiara e distante, disse: «Per piacere, Charlie, mettilo in frigo. Direi che sei in grado di aprire un frigorifero come chiunque altro in questa famiglia. Charlie, tira fuori il sacchetto dal bagagliaio, per favore, e chiudi il frigo. Non era Herbert Qualcosa, alla crociera in Grecia, quello con cui siamo andati al... come si chiamava quel ristorante... a Samos, o era Skiathos? Chiedile se ha fatto una crociera in Grecia». «Perché diamine non vieni qui e le parli tu?» gridò l'uomo, e la vocina urlò: «Perché sto mettendo quest'accidenti di gelato in quest'accidenti di freezer». «Non importa...» disse Ilka, ma l'uomo nel suo orecchio disse: «Herbert ha fatto una crociera in Grecia...? Joanne» gridò «era quattro anni fa, vero?». «Herbert non è mai stato in Grecia» disse Ilka. «Non so se Jules McCartin c'è stato». Adesso la donna aveva preso la cornetta. «Conosce Mary Anne Popper? C'era anche lei a quella crociera». «No, non la conosco» disse Ilka. «Quanta gente c'è che non si conosce!». «ศ proprio vero» rispose la donna. | << | < | > | >> |Pagina 117«Vuoi che io mi autoesoneri dato che conosco Jimmy?» chiese Ilka a Leslie Shakespeare.
I suoi colleghi del Concordance Institute continuarono a
sfogliare le pagine del curriculum del candidato sul tavolo
davanti a loro, ma rizzarono le orecchie. A quanto pareva il
giovanotto aveva passato la notte nella casetta in affitto di
Ilka, ed erano un po' perplessi.
Ilka andava a letto con Jimmy Carl? Non più, e non ancora. Ilka aveva conosciuto Jimmy per caso, alla sua prima festa a New York, a cui era andata con un altro uomo di cui si stava innamorando. L'uomo si chiamava Carter un nero grande e grosso, colto, di più di cinquant'anni, e malato. Quando lui si era allontanato in cerca di un whisky, Ilka aveva notato un tipo con gli occhiali che teneva la testa piegata in una posizione assai scomoda, fingendo di leggere i dorsi dei libri sugli scaffali di vetro. Era, come Ilka, giovane, magro, ebreo, e a disagio. Sembrava solo. Era perché non si sentiva attratta da lui che Ilka gli aveva sorriso, e perché voleva fare pratica con il suo inglese che gli aveva chiesto se era amico della sposa o dello sposo. Il sopracciglio del giovane si era contratto sopra l'occhio sinistro, le narici si erano dilatate, le labbra si erano schiuse e lui aveva riferito a Ilka le date da quando a quando lui e lo sposo avevano lavorato come tirocinanti per un certo membro del Congresso a Washington. Ilka cercava di farsi venire in mente chi le rammentava quel giovanotto qualcuno che non le piaceva granché. «Devo andare a cercare il mio amico» aveva detto, ma lui era rimasto al suo fianco e non se ne sarebbe andato mai più. Le prime, svariate volte che le aveva telefonato, era stato costretto a ricordarle chi era. «Sono Jimmy Carl. Jimmy. Ero al matrimonio di Philip e Fanny». Capitò che chiamasse anche il giorno in cui portarono Carter all'ospedale psichiatrico. Jimmy invitò Ilka al ristorante cinese all'angolo. Ilka studiò il lungo menu, alzò lo sguardo, e lì, di fronte a lei, era seduto un giovanotto! Jimmy Carl, quello che era al matrimonio di Philip e Fanny! Il suo sopracciglio sinistro si contrasse, le narici si dilatarono, le labbra si schiusero: Ilka si sporse sul tavolo armata di tutto il suo più sollecito interesse in modo che il giovanotto non si accorgesse che si era dimenticata di lui. Jimmy Carl era appena stato licenziato. «Il presidente mi ha chiamato nel suo ufficio. Il presidente è il cugino di mia madre». «E ti ha licenziato!». «Aveva le sue buone ragioni. C'è un tizio, Stackport... sembra che soffra di alitosi cronica. Archivia nell'archivio di fianco al mio archivio. Archivia un fascicolo, archivia un altro fascicolo, un altro fascicolo ancora. Io ho pensato, posso andare più veloce se tengo i fascicoli sulle ginocchia, prendo quello in cima con la mano destra mentre preparo il successivo con la sinistra, solo che così non ti resta più una mano con cui grattarti il naso. La noia è veramente interessante, in effetti: hai la testa che ti scoppia, un dolore in mezzo alle spalle, il piede destro informicolato, il naso che ti prude. Insomma, come faccio a sapere che quella è noia? Mancano due minuti alle undici! Novantadue minuti prima del nostro appuntamento a pranzo». Jimmy arrossì. «Ho pensato, se archivio quindici fascicoli senza guardare l'orologio arriveranno le undici. Poi ho pensato, ne archivio altri quindici, e a quel punto saranno già due minuti dopo le undici! Guardo l'orologio. Manca un minuto alle undici. Il che è interessante. Sono arrivato quanto più vicino possibile per un essere umano a provare cosa sia l'eternità: non sono in grado di immaginare un minuto che non abbia una fine, ma posso immaginare una serie infinita di minuti passati ad archiviare una fugace anticipazione dell'inferno, che è un concetto interessante che gli esseri umani si sono inventati per farsi venire paura. Così piego la testa per grattarmi il naso strofinandolo sulla spalla e sento che i fascicoli scivolano via. Immagina un momento eterno di imbarazzo: il signor Stackport ha smesso di archiviare; la signora Winters è la capoufficio, una persona veramente gentile fa ruotare la sedia e mi guarda; le dattilografe si fermano; qualcuno ridacchia. Il signor Stackport è in ginocchio uno spettacolo insolito, te l'assicuro un uomo di sessant'anni e passa, che ha figli e nipoti, probabilmente, si porta a casa un millesimo di quello che guadagna il cugino Robert, ed è paonazzo perché i fascicoli del cugino Robert sono tutti sparpagliati sul pavimento dell'ufficio! Dice: "Com'è che non hai messo un'etichetta blu su Kux, Bloch & Co? Kux, Bloch non è attivo!". E il cugino Robert! Gli dava veramente fastidio che i fascicoli non attivi venissero archiviati nello schedario dei fascicoli attivi!». «Ma è terribile essere licenziati!».
«Sì. Beh, no, a dire il vero è stato interessante. Povero Robert. Potrei
rigirarmelo come mi pare, il cugino Robert».
Carter uscì dall'ospedale e poi ci tornò. Jimmy cominciò a lavorare per l'American Civil Liberties Union, un lavoro da cui non fu licenziato. Perché Ilka era stupita? Jimmy diceva che scrivere relazioni per loro era interessante. E ogni volta che Carter era nei guai, Ilka chiamava Jimmy Carl e facevano lunghe chiacchierate. Fu Jimmy ad andare alla stazione con Ilka, alla fine, per salutare Carter che partiva alla volta della West Coast. Per un periodo Ilka e Jimmy andarono a letto insieme. Jimmy era un amante premuroso, entusiasta. Lei era sorpresa che dentro il suo abito stretto fosse ben fatto. Non era sua la colpa se le braccia e il cuore di Ilka erano abituati ad accogliere una massa più voluminosa. Poi Jimmy fu trasferito alla sede dell'Aclu di Washington e capì che Ilka non sarebbe andata con lui. Il suo sopracciglio sinistro si aggrottò, le narici si allargarono, le labbra si schiusero e disse: «Interessante come sia impossibile credere davvero di non poter avere qualcosa che si desidera tanto!». Improvvisamente Ilka gli chiese se fosse mai stato in televisione. «Una volta. Quando studiavo alla Columbia. Ho partecipato a uno di quei seriosi dibattiti della domenica mattina». «Eri seduto sulla sinistra» disse Ilka. «Che cosa bizzarra. ศ incredibile! Voglio dire, è stato un sacco di tempo prima che ci conoscessimo!».
«Non mi ricordo di cosa si trattava» disse Ilka. Quello
che Ilka ricordava era che il ragazzo sulla sinistra, che dopo
tutti quegli anni si era rivelato essere Jimmy Carl, aveva
detto le stesse cose che avrebbe detto Ilka, e che suonavano
piuttosto tediose. Mentre il ragazzo sulla destra parlava, la
telecamera aveva fatto un primo piano del dissenso espresso
dal ragazzo sulla sinistra. Il suo volto aveva occupato tutto
lo schermo, tagliato sopra il sopracciglio sinistro e sotto le
labbra separate dall'infausto scherzo giocato dai muscoli ai
lati del naso. Ilka giurò in cuor suo che Jimmy non avrebbe
mai, mai e poi mai saputo che anni prima di incontrarlo,
Ilka si era alzata dal letto, si era avvicinata al televisore e
aveva spento Jimmy.
«Perché non vuoi sposarmi?» piagnucolava Jimmy ogni volta che arrivava in aereo da Washington. «Perché» rispondeva puntualmente Ilka «non mi chiedi se voglio sposarti ma perché non voglio sposarti». «Quindi la risposta è sì?». «Non essere ridicolo». Jimmy allora le raccontava cos'era andato storto con la sua ultima conquista di Washington, e Ilka, confusa, diagnosticava dentro di sé lo spettro della gelosia. Di solito trovava simpatiche le donne che Jimmy portava a New York per fargliele conoscere, ed era stupita che a queste ragazze socievoli piacesse Jimmy, finché non si ricordava che a lei, Ilka, Jimmy piaceva. Negli anni che seguirono Jimmy si irrobustì, le sue spalle si allargarono. C'era più di Jimmy da davanti a dietro. Perché Ilka si meravigliò quando lui iniziò a pubblicare articoli e saggi? | << | < | > | >> |Pagina 163«Prima di tutto gli avvisi» disse Ilka agli studenti del corso di Inglese colloquiale. «Domani sera ci sarà un convegno organizzato dall'istituto. Ahmed» chiese allo studente turco con i magnifici baffi a manubrio «dove si tiene il convegno?». «Nel Nuovo Teatro» disse Ahmed. «Il tema» disse l'insegnante «è: "Dovrebbe esistere un termine di prescrizione per il crimine di genocidio?". Seguirà un rinfresco a base di vino e formaggi...». «... Nell'atrio...» disse Ahmed. «... A cui siete tutti invitati. Adesso» disse Ilka con la voce squillante di una padrona di casa che cerca di rianimare una cena un po' fiacca «di cosa vogliamo parlare? Mi faccio solo del male, lo so, ma vi pregherei di venire più avanti e di sedervi tutti vicini». Matsue, un giapponese di una certa età che lavorava al dipartimento di Ingegneria dell'università, era al suo posto vicino alla finestra; Izmira, la dottoressa cipriota, aveva lasciato le solite due file vuote tra sé e Ahmed, il turco. Juan, il basco, era seduto nell'angolo in fondo a destra ed Eduardo, lo spagnolo di Madrid, in fondo a sinistra. «Chi vuole rompere il ghiaccio? Qualcuno racconti una storia. Le storie piacciono a tutti. Raccontate alla classe come siete arrivati in America». L'insegnante ignorò deliberatamente la mano e il braccio che Gerti Gruner mulinava in aria morte, tasse e giovedì con Gerti Gruner in prima fila nel posto centrale. Lo sguardo di Ilka oltrepassò misericordiosamente Paulino, che era seduto in ultima fila, con la schiena contro il muro. Matsue le fece un bel sorriso e scosse la testa come per dire: Non io, per favore! Ilka si guardò intorno in cerca di qualcuno troppo timido per farsi avanti che potesse essere contento di parlare se interpellato, però la mano di Gerti fendeva l'aria proprio sotto il mento dell'insegnante, così Ilka disse: «Gerti vuole iniziare. Forza, Gerti. Quando sei arrivata negli Stati Uniti?». «Al giugno scorso» disse Gerti. Ilka la corresse, e disse: «Spiega alla classe da dove vieni, e, per favore, cercate tutti di costruire delle frasi complete». Gerti disse: «Ho vissuto vent'anni in Uruguay e prima in Vienna». «Meglio: Prima vivevo» disse Ilka, e Gerti disse: «E prima ancora in Vienna». Ilka la corresse. Il racconto di Gerti aveva una certa aria di famiglia con la storia indigesta e ormai sorpassata dell'insegnante espulsa da bambina dall'Europa di Hitler. «Alla stazione ferroviaria di Vienna mio padre ha detto a me...» disse Gerti. «Mi ha detto». «Mi ha detto che al più presto che sto arrivando a Montevideo...». «Appena fossi arrivata o, in modo più colloquiale, arrivavo a Montevideo...» disse Ilka. «Arrivavo a Montevideo, dovrò dirgli a tutti...». Ilka la corresse. Gerti proseguì: «... Dire a tutti di portare via mio padre da Vienna prima che arrivano i nazisti e lo mettono in campo di concentramento». «Nel o in un campo di concentramento» disse Ilka. «Anche mia madre» disse Gerti «e il mio Opa, e la mia Oma, e il mio Onkel Peter, e i miei cugini Hedi e Albert e Roserl. Mio padre ha detto: "Di' alla madre adottiva: 'Vieni, per favore, con me, al consolato americano"». «Mio padre è andato al consolato americano» disse Paulino, e tutti si voltarono a guardarlo. La voce di Paulino non si era più sentita in classe dopo il primo giovedì, quando Ilka aveva fatto girare gli studenti per l'aula perché si presentassero. Paulino aveva detto che il suo nome era Paulino Patillo ed era nato in Bolivia. Ilka si era resa conto con piacere che Paulino le ricordava Danny Kaye biondo, riccioluto, mezza età, sorridente. Arrivava puntuale ogni giovedì un uomo molto garbato, forse molto semplice. Ilka disse: «Dopo che Gerti avrà terminato la sua storia, Paulino ci racconterà la sua. Quanti anni avevi quando hai lasciato l'Europa?» chiese Ilka a Gerti, che disse: «Otto anni», ma sia lei che il resto della classe, e l'insegnante stessa, stavano guardando Paulino che infilava la mano destra nella tasca interna della giacca, tirava fuori una grossa busta, la rovesciava e faceva cadere sul banco un mucchietto di ritagli di giornale. Alcuni sembravano nuovi, altri gialli e consunti; alcuni sembravano essere singoli paragrafi, altri erano lunghi diverse colonne. Ilka esortò Gerti: «E così sei arrivata a Montevideo...». «E la mia madre adottiva è venuta a prendermi alla nave. Io ho detto: "Ciao, e per favore puoi portare mio padre fuori da Vienna prima che arrivano i nazisti e lo mettono in... un campo di concentramento"!» concluse Gerti trionfante. Paulino aveva avvicinato la busta agli occhi e ci stava guardando dentro. Inserì un indice, liberò qualcosa che era rimasto incastrato e lasciò cadere un ultimo ritaglio che si ruppe lungo la piegatura quando lui lo appiattì sul banco. Paulino spazzò via alcuni frammenti di carta prima di iniziare a leggere: «La Paz, 19 settembre». «Paulino» disse Ilka «devi aspettare che Gerti finisca». Ma Paulino lesse: «La se๑ora Pilar Patillo ha denunciato la scomparsa del marito, Claudio Patillo, dopo che questi si era recato al consolato americano di La Paz, il 15 settembre». «Vai avanti, Gerti» disse Ilka. «La madre adottiva ha detto: "Quando viene a casa lo zio dall'ufficio, glielo chiediamo". Io ho detto: "E portate fuori, per favore, anche mia madre, il mio Opa, la mia Oma, il mio Onkel Peter..."». Paulino lesse: «Un portavoce del consolato americano contattato a La Paz ha dichiarato che nessun se๑or Patillo si è recato da loro negli ultimi due mesi...». «Paulino, devi aspettare il tuo turno» disse Ilka. Gerti disse: «"Anche i cugini". La madre adottiva ha fatto una faccia disperata con le labbra così». Paulino lesse: «Né dal calendario degli appuntamenti del mese di settembre risulta alcun incontro con il se๑or Patillo. Circolano voci secondo cui sarebbero in corso verifiche presso il consolato di Sucre». E Paulino piegò il suo ritaglio e lo ripose con delicatezza nella busta. «Va bene, Paulino, grazie» disse Ilka. Gerti disse: «Quando il padre adottivo è arrivato a casa, ha detto: "Vedremo, domani" e io ho detto: "E andrai, per favore, con me, al consolato americano?" e il padre adottivo ha fatto una faccia strana». Paulino stava lisciando un secondo ritaglio di giornale sul banco. Lesse: «New York, 12 dicembre...». «Paulino» disse Ilka, e incrociò lo sguardo di Matsue che la stava guardando dritto negli occhi. Scosse lievemente la testa e con la mano destra, palmo rivolto all'ingiù, diede tre colpetti in aria. Nell'intelligibile linguaggio della sciarada con cui probabilmente il genere umano frustrò Dio a Babele, Matsue stava dicendo: Lascialo finire. Niente che tu possa fare lo fermerà. Ilka fu grata a Matsue. «Un portavoce della rappresentanza israeliana alle Nazioni Unite» lesse Paulino «smentisce la notizia secondo cui Claudio Patillo, scomparso dopo essersi recato al consolato americano di La Paz il 15 settembre, sarebbe in viaggio per Israele...». Paulino finì di leggere anche questo ritaglio, lo rimise nella busta, aprì l'articolo successivo e lesse: «United Press International, 30 gennaio. L'auto di Pilar Patillo, moglie di Claudio Patillo, la cui scomparsa da La Paz era stata denunciata lo scorso settembre, è stata trovata in fondo a un dirupo nelle Ande orientali. Non è noto se nella carcassa del veicolo siano stati rinvenuti dei cadaveri». Paulino leggeva con la cieca imperturbabilità di un carro armato che non recepisce i suoni o i movimenti del mondo esterno. Gli studenti avevano smesso di guardarlo. Non guardavano più nemmeno l'insegnante. Fissavano le proprie ginocchia. Paulino lesse un articolo dietro l'altro, riponendo ciascuno nella busta prima di passare al successivo, e quando ebbe letto e rimesso via l'ultimo, e infilato la busta nella tasca, appoggiò la schiena contro la parete e rivolse all'insegnante il suo dolce, abituale sorriso di partecipe attesa. Gerti disse: «Quella stessa notte mi ero svegliata...». «Mi sono svegliata» mormorò l'insegnante. «Mi sono svegliata» disse Gerti Gruner «e ho pensato: E se è proprio adesso, in questo momento preciso, che un nazista sta bussando alla porta, e io sono qui sdraiata senza dire niente a nessuno, e mi sono alzata e sono andata in camera da loro e ho svegliato la madre adottiva e il padre adottivo, e la mattina dopo la madre adottiva ha portato me alla commissione per i rifugiati e mi hanno trovato un'altra famiglia adottiva». «Tocca a te, Matsue» disse Ilka. «Come, quando e perché sei venuto negli Stati Uniti? Coraggio, ti aiutiamo noi!». L'inglese scritto di Matsue era impeccabile, ma il suo accento rasentava l'inaccessibilità. Il suo contributo alla conversazione in aula richiedeva sempre un atto interpretativo collettivo. «Iustidituddo alli unuibershitati innu muonaco» disse Matsue. Un paio di tentativi e infine Eduardo, il madrileno, tradusse: «Hai studiato all'Università di Monaco!». «Hai studiato acustica?» azzardò Izmira, la cipriota. «La guerra ti ha tenuto bloccato in Germania?» propose Ahmed, il turco. «Hai lavorato nei forni?» suggerì Gerti, la viennese. «Forni acustici?» si meravigliò Ilka. «Vuoi dire fornelli? Cucine economiche?». No, quello che Matsue intendeva dire era che aveva trovato il suo primo lavoro presso un'azienda di Monaco che si occupava dell'insonorizzazione dei forni crematori di Dachau in modo che quello che succedeva al loro interno non potesse essere udito all'esterno. «Ho fatto i nastri» disse Matsue. «I nastri?» gli chiesero. Ricostruirono la storia: Matsue era tornato in Giappone nel 1946 e aveva raccolto i suoi "nastri di Hiroshima". Era arrivato a Washington come consulente acustico per il Kennedy Center, poi era venuto a Concordance, dove era stato assunto per progettare il sistema del suono del Nuovo Teatro e ora aveva un incarico di ricercatore al dipartimento di Ingegneria. Sarebbe tornato a casa una volta terminato il suo lavoro a Ilka parve di capire sulla cimice al contrario. «Pensa un po'» disse Ilka «mi sembrava che avessi detto "la cimice al contrario"!». "La cimice al contrario" era quello che avevano capito anche tutti gli altri e che in effetti Matsue aveva detto. Con la mano destra Matsue tracciò una serie di cerchi in aria e, indicando la parete dietro la cattedra, chiese, e ottenne, l'assenso per potersi spiegare scrivendo alla lavagna. Gesso alla mano, illustrò in modo eloquente il funzionamento della cimice normale, che può essere installata in una stanza per trasmettere a chi si trova all'esterno quello che chi sta all'interno preferirebbe non far sentire. Una cimice moderna tecnologicamente avanzata, spiegò Matsue, era impossibile da individuare e disattivare. C'erano edifici che avevano dovuto essere smembrati per poter essere liberati da dispositivi acustici alieni. La cimice al contrario, altrettanto impossibile da individuare e disattivare, era un dispositivo mediante il quale chi si trovava all'esterno poteva trasmettere in una stanza quello che chi stava all'interno avrebbe preferito non sentire. «E in quali circostanze si usa un dispositivo del genere?» gli chiese Ilka.
Matsue sembrò spiegare che poteva essere utile in determinate situazioni a
certi consolati, e Paulino disse: «Mio padre è
andato al consolato americano» e mise la mano nella tasca interna della giacca.
Qui Ilka si alzò e, anche se mancavano ancora quindici minuti buoni di lezione,
disse: «Bene! Ci vediamo giovedì prossimo. Preparate un argomento di cui
vorreste parlare. Non dimenticate il convegno di domani sera!», si avviò verso
la porta a passo spedito e andò a casa.
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