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| << | < | > | >> |IndiceVII Introduzione 3 Parte prima - Mutamenti di identità 5 Capitolo primo: Caratteristiche dell'identità ebraica – Il nemico permanente, p. 8 – La vocazione rivoluzionaria monoteistica ebraica, p. 10 — L'alternanza fra sovranità ebraica e dominio imperiale nel Medio Oriente, p. 12 19 Capitolo secondo: Legittimità e legalità dei nuovi Stati mediorientali – La caduta dell'Impero ottomano, p. 19 — Vari tipi di Stati arabi, p. 24 – Messianesimo, vittimismo e laicità, p. 31 33 Capitolo terzo: Dal ghetto allo Stato – La «riforma» dell'educazione ebraica del II secolo a.C., p. 35 — Auto-emancipazione politica e auto-colonizzazione culturale, p. 46 – Giudeofobia e antisemitismo, p. 54 59 Capitolo quarto: Gli equivoci dell'identità – Il sionismo utopico, p. 63 – L'equivoco del sionismo, p. 72 – L'equivoco dell'identità israeliana, p. 74 77 Parte seconda - L'evolversi dei fatti 79 Capitolo quinto: Le guerre costruttive di Israele – Da società pioniera a rifugio di ebrei perseguitati, p. 80 – Da territorio mandatario a Stato sovrano privo di frontiere (1948-1956), p. 86 — Da Stato «paria» a Stato degli ebrei (1956-1967), p. 93 — Da Stato assediato a Stato occupante, p. 100 107 Capitolo sesto:. Le guerre distruttive di Israele – Le guerre nel Libano, p. 110 — La prima Intifada, p. 113 — L'altalena dei primi ministri, p. 124 129 Capitolo settimo: Le guerre distruttive di Israele: Intifada al Aqsa e la metamorfosi di Ariel Sharon – La seconda Intifada, p. 129 — La metamorfosi di Sharon, p. 143 151 Capitolo ottavo: Lo Stato, la società globalizzata e il conflitto palestinese – La mutata natura della nazione israeliana, p. 153 — Diaspora, Stato e religione, p. 156 — Identità israeliana e minoranze non ebraiche, p. 163 169 Capitolo nono: Dalla guerra al terrorismo a quella con gli Stati terroristi – Il campo demografico, p. 173 — Il campo strategico, p. 179 — Il campo geopolitico, p. 182 — Il campo istituzionale, p. 186 197 Parte terza - Il dopo Sharon e la nuova metamorfosi 199 Capitolo decimo: La seconda guerra del Libano 213 Capitolo undicesimo: Il paradossale «sionismo» Palestinese e la guerra civile a Gaza 229 Epilogo: La misteriosa «singolarità» di Israele 241 Cartine 253 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina VIINon ho dubbi che fra mille anni gli ebrei esisteranno ancora come tali. Non ho dubbi che fra mille anni lo Stato di Israele attuale non esisterà più. Fra tutte le ideologie politiche che si sono sviluppate nel XX secolo, quella nazionale ebraica – il sionismo che ha creato lo Stato – emerge infatti per le sue incongruenze, oltre che per il suo successo. La prima incongruenza è quella fra la precarietà di ogni creazione umana e la durabilità dell'ebraismo. La seconda è che il sionismo, come idea politica, era la più romantica ed appariva la più irrealizzabile fra quelle, nate dalla rivoluzione francese, che miravano a cambiare il corso della storia assieme alla natura dell'uomo. I sionisti credevano che questa metamorfosi fosse piu necessaria per gli ebrei di quanto non lo fosse per gli esseri umani il socialismo, il comunismo, il fascismo, il nazismo e, in seguito nelle colonie africane, l'africanismo: agli ebrei mancavano infatti, per continuare a sopravvivere, due elementi essenziali: la territorialità e la coscienza politica. Privi di sovranità, gli ebrei vivevano da diciannove secoli in Europa, dove rappresentarono sino alla metà del XIX la maggioranza degli israeliti del globo, confinati in ghetti o in «zone di riserva amministrativa». In queste diaspore, sia per la discriminazione sociale ed economica imposta dall'esterno, sia per la fedeltà religiosa accettata all'interno, si perpetuò, sino all'epoca moderna, una società di tipo medievale, chiusa su se stessa e «sacra». Il sionismo — movimento che si voleva al tempo stesso messianico, rivoluzionario, nazionale e laico — intendeva liberarli, da questa abiezione sociale ed economica non meno che dalle persecuzioni. Si trattava di una visione utopica e di una «missione impossibile», a cui romantici cristiani, soprattutto, protestanti infarciti di letture bibliche, tendevano a credere spesso più degli ebrei. Il sionismo invece la realizzò in cinquant'anni, trasformando gli ebrei da minuscola comunità religiosa della Palestina ottomana in popolo sovrano (demograficamente superiore a qualsiasi altra diaspora) e fondando sulla terra ancestrale, abbandonata da diciannove secoli, uno Stato moderno molto particolare. Israele è fra i pochi Stati dei territori ex coloniali a essersi dotato di un regime parlamentare e democratico di stampo europeo; ad essere passato dallo stadio agricolo a quello post-industriale, in una situazione di guerra permanente. Con frontiere, solo in parte internazionalmente riconosciute, lo Stato d'Israele ha conservato, in sessant'anni di turbolenta esistenza, una continuità territoriale superiore a quella di più vecchi Stati europei (Germania, Polonia, Jugoslavia, Italia, Cecoslovacchia), di nuovi stati ex coloniali (Pakistan, Somalia, Etiopia, Indonesia) o di imperi ideologici come quello sovietico. Sul piano umano lo Stato sionista ha creato una società multiculturale, caratterizzata dalla rinascita di una lingua praticamente morta (l'ebraico), oggi parlata dentro e fuori i confini dello Stato da un numero di persone senza precedenti nella storia. Sul piano sociale, rappresenta un riuscito esperimento di integrazione di immigrati appartenenti alle più svariate etnie. Il movimento nazionale ebraico non è riuscito a creare un nuovo tipo di ebreo, ma l'impatto del sionismo sulla società ebraica e su quella politica internazionale è stato enorme ed ha permesso all'interno dello Stato la coesistenza — sinora pacifica — di ideologie e di interessi che altrove hanno provocato lunghe e sanguinose guerre civili. Una «politeia» del genere, impegnata a difendere con le armi il suo diritto all'esistenza nel punto di congiunzione territoriale e ideologico (Palestina e Gerusalemme) dei popoli arabi d'Africa e d'Asia; una sovranità nuova, emersa nel momento storico in cui le popolazione arabe nel Medio Oriente ottenevano l'indipendenza dal colonialismo europeo; uno Stato di ebrei che per molti versi appariva anacronistica, non poteva non provocare violente reazioni e contraddittorie analisi del suo significato storico e operato politico. Lo scopo di questo libro è cercare di descrivere quelle caratteristiche del nuovo potere sovrano ebraico che ci sembrano più significative per la sua comprensione e per l'apparente insolubilità di un conflitto diventato il più lungo dell'epoca moderna. Le precedenti forme di sovranità ebraica non hanno lasciato molte tracce sul piano storico-politico, salvo nel racconto biblico e talmudico e nelle testimonianze dei suoi avversari greci e romani. Ho perciò scelto di distinguere fra cause antiche e moderne della turbolenza connessa con l'ebraismo e i suoi membri. In un primo capitolo tratterò uei pensiero politico monoteistico ebraico, per come è espresso (in maniera assai inarticolata) nei testi sacri e nelle reazioni antiebraiche nel mondo pagano antico. Nello stesso capitolo, con un salto di secoli, tratterò di un'altra forma di potere ebraico (il «potere dell'assenza di potere») che caratterizza la lunga vita delle comunità ebraiche della diaspora, in particolare nel mondo cristiano. Un accenno alle turbolenze create dall'apparizione di nuove identità sovrane nel sistema internazionale — quella tedesca e italiana in particolare — servirà da introduzione all'analisi delle tensioni create dal ritorno della sovranità ebraico-israeliana sulla scena politica contemporanea. Lo Stato di Israele, come d'altronde gli Stati ebraici dell'antichità, non è nato in un vacuum politico. Nel passato l'esistenza ideologica e politica ebraica si è manifestata nel grande quadro di lotta e di influenza culturale della «questione orientale» antica. Le tracce di quello che fu per secoli lo scontro imperiale e di civiltà fra l'Ellade e la Persia, fra Roma e i Parti, e poi fra Cristianità e Islam, sono oggi riconoscibili in molti aspetti della «questione orientale» moderna, provocata politicamente dallo smembramento dell'impero ottomano non meno che dal processo di modernizzazione e globalizzazione. Lo Stato di Israele e gli altri Stati della regione sono il prodotto del crollo di questo grande e antico impero in seguito alla prima guerra mondiale e della spartizione del territorio mediorientale fra Francia e Inghilterra. Il comportamento di questi Stati è stato però condizionato da forze e idee che con il vecchio impero turco hanno poco a che vedere. Molto in comune hanno, invece, con la politica e gli interessi dei governi di Londra e Parigi. Essi imposero dei sistemi imperiali europei di carattere coloniale a popolazioni dell'ex impero musulmano, velando questo dato di fatto con l'assunzione della responsabilità (in quanto mandatari della Società delle Nazioni) di preparare questi paesi all'indipendenza. La conseguenza di questo escamotage fu lo scontro, tuttora irrisolto, fra le forme di legalità e lo stato di legittimità a cui fanno riferimento i governi e le opinioni pubbliche di questi nuovi Stati cosiddetti nazionali. Questo scontro forma il tema del secondo capitolo. L'analisi delle conseguenze di questi problemi irrisolti sulla formazione dell'identità collettiva dei popoli di questi stati mette in luce, tanto nella società israeliana quanto in quella araba (in particolare palestinese), il ruolo che la violenza – guerre e guerriglie, boicottaggi e occupazioni, rivolte, espulsioni, terrorismo — ha avuto nel consolidamento delle varie coscienze nazionali, nello sviluppo delle strategie militari ed economiche, e nelle scelte di politica estera. Da qui la tesi che, per Israele, il rifiuto di riconoscimento arabo e le guerre con gli Stati arabi hanno rappresentato un elemento decisivo e positivo per il suo consolidamento materiale e ideologico. In maniera diversa questo appare vero anche per lo sviluppo della coscienza nazionale palestinese, sviluppo di cui tratteremo solo incidentalmente dato che esula dallo scopo di questo libro. Nei capitoli terzo e quarto, dedicati ad alcune significative caratteristiche dell'identità ebraica, tratterò degli equivoci che essa ha introdotto nel linguaggio politico contemporaneo, confondendo spesso giudeofobia (odio antico per l'ebraismo e per gli ebrei) con antisemitismo (odio moderno per entrambi) e anti-israelianismo. Un aspetto curioso di questi equivoci anti-ebraici, anti-sionisti e anti-israeliani è di aver dato vita a corrispondenti equivoci nel mondo non ebraico. Ad esempio ci si è appropriati, nel mondo africano come in quello palestinese, di «modelli» di «sionismo». Essi non hanno in comune con l'originale altro che il linguaggio dell'antagonismo (anti-coloniale, anti-razzista, anti-imperialista) e la copiatura di slogan, simboli, immagini e miti, usati contro il sionismo propriamente detto. Il capitolo quinto in un certo senso inizia la seconda parte del libro, passando dalle analisi storiche a quelle politiche contemporanee. Esso propone la tesi che le guerre sostenute dal sionismo (e poi dallo Stato d'Israele) sono di due tipi differenti: guerre fra Stati e guerre fra popoli. In quanto tali, hanno condizionato e condizionano l'evoluzione dell'identità e della politica israeliana. Si mira a provare come lo scontro con gli arabi, nel periodo mandatario inglese, e in seguito fra Stato di Israele e Stati arabi confinanti è stato uno scontro costruttivo per l'affermazione della sovranità ebraica, per la sua sopravvivenza politica e per il suo sviluppo portando anche a soluzioni di pace — come dimostrano gli accordi fra Israele e l'Egitto e fra Israele e la Giordania. I capitoli sesto e settimo trattano del secondo tipo di scontro, quello fra popoli. Si sostiene che, a seguito della vittoriosa guerra del 1967, il conflitto fra Stati si trasforma, con la prima e seconda Intifada, da conflitto costruttivo a scontro distruttivo, nella misura in cui esso assume forme di guerra coloniale e civile. Spicca in questo contesto il ruolo di Ariel Sharon e la sua capacità di metamorfosi, dimostrata dal ritiro da Gaza da lui ordinato. Il capitolo ottavo, partendo da una analisi storica della trasformazione del concetto e ruolo dello Stato nella società internazionale, pone la questione del ruolo dello Stato d'Israele in una società globalizzata in cui il terrorismo internazionale ha sviluppato la privatizzazione della violenza, messo in discussione l'idea della sovranità territoriale e della legittimità della guerra difensiva o preventiva. Il capitolo nono, riprendendo il filo del discorso concernente le particolarità dell'identità politico-religiosa ebraica, esamina come questo particolarismo al centro del dibattito ideologico e istituzionale israeliano possa ispirare forme nuove e originali di governo, influenzate tanto dall'aumento demografico della componente araba nell'elettorato israeliano quanto dalle nuove correnti migratorie asiatiche ed africane. Una coesistenza, questa, che richiederà un riposizionamento geopolitico «verso Oriente» di Israele che non dia per scontato il patronato di una sola grande potenza. Più adatti a caratterizzare il ruolo della sovranità ebraica sulla scena internazionale, in virtù del versetto biblico che destina Israele a «non avere parte fra le nazioni». Gli eventi corrono veloci dappertutto, ma in Israele sembrano avere una rapidità particolare. Dalla prima edizione di questo libro, nel marzo 2006, Sharon è scomparso, Israele si è ritirata da Gaza, è scoppiata e si è (più o meno) risolta una seconda guerra del Libano, è iniziato uno scontro interno all'Autonomia palestinese che forse riuscirà a chiarire, per quanto nel sangue, cosa il popolo palestinese intende fare del proprio futuro. Nel capitolo decimo ho guardato a questi eventi dal campo israeliano: il ritiro da Gaza visto dalle frange più estremiste degli ebrei ortodossi come foriero di punizioni divine che per molti versi non si sono fatte attendere, ha invece dato nuova vita politica al personaggio politico maggiormente accusato di incompetenza e irresponsabilità, il primo ministro Olmert. Questi, infatti, è riuscito a barcamenarsi politicamente anche dopo la sua controversa conduzione della seconda guerra del Libano. Gli errori della dirigenza israeliana, denunciati in tempo reale dalla Commissione Vinograd, sono ancora lontani dall'essere corretti e correttamente valutati. Essi però diminuiscono a confronto di quelli commessi dai precedenti governi, in pace e in geurra anche perché la seconda guerra del Libano si è rivelata paradossalmente un bene sotto l'aspetto del male. Nel capitolo undicesimo ho invece dato uno sguardo alla situazione dei territori occupati, o recentemente sgomberati. Il popolo palestinese ha costruito nei decenni una propria identità che si potrebbe definire «sionista», e a questo paradosso abbiamo dedicato attenzione. Il vuoto di potere creatosi a Gaza dopo il ritiro dei coloni e la seguente guerra civile fra Hamas e Al Fatah hanno dolorosamente chiarito molte posizioni, anche nell'opinione pubblica occidentale, e forse, nel lungo periodo, è qua che gli storici guarderanno per capire che direzione hanno deciso di prendere i palestinesi. Nell' Epilogo ho voluto fare qualche cauto, ma doveroso, esercizio di futurologia. Israele è sempre riuscita a garantire la propria esistenza anche grazie al supporto di «patroni» che nel corso dei decenni si sono susseguiti al suo fianco solo per trasformarsi in avversari: tedeschi, inglesi, francesi. Non è affatto certo, quindi, che l'ultimo di questa serie di Stati «patroni», gli Stati Uniti, debba avere un ruolo di patrono permanente in un mondo in cui il prestigio dell'America è diminuito, quello della Russia post sovietica ritrovato e quello dell'India e della Cina emerso. Questi sviluppi aprono allo stato ebraico nuovi orizzonti di intesa politica ed economica. Ma ciò che a prescindere dai suoi alleati e perfino dai suoi nemici presenti e futuri continua a distinguere Israele è la sua irriducibile «singolarità», su cui ancora una volta ho cercato di riflettere e provato a spiegare. | << | < | > | >> |Pagina 59Berl Katzenelson (1887-1944) è considerato «il» pensatore politico socialista dello Yishuv, la comunità ebraica della Palestina. Aveva una visione realista del sionismo che, come movimento politico, era caratterizzato — a suo parere — dalla confusione come la confusione dell'Uganda — diceva — e della fallita rivoluzione russa del 1905, come minimo. In questa confusione sorse il movimento laburista sionista in Palestina e di essa si nutrì provocando equivoci che hanno accompagnato e continuano ad accompagnare lo sviluppo della nazione israeliana. Equivoci provocati da un'idea di sovranità diversa (in quanto ebraica) da quelle invocate da altre nazioni; dalla difficile comprensione dell'odio anti-ebraico di cui si è trattato nel capitolo precedente. L'equivoco principale dell'ideologia sionista risiede nel tentativo di unire due elementi fra loro divergenti: giudaismo e illuminismo. Ben Gurion, conscio di questa difficoltà, preferì lasciare al tempo il compito di definire il carattere dello Stato, accettando fra l'altro la richiesta dei religiosi di non dargli una costituzione. L'errore degli idealisti sionisti laici fu invece di credere che il contrasto fra illuminismo e giudaismo (cioè fra una società sacra, chiusa ed elitista, e una società laica, aperta e egalitaria) sarebbe scomparso con l'eliminazione della religione dalla politica attraverso il «progresso». L'inaspettata vittoria militare del 1967 dimostrò quanto effimera fosse questa convinzione non solo per gli israeliani ma per l'intero popolo ebraico e per i suoi rapporti con le altre nazioni. Jean Daniel, uno dei più versatili editorialisti politici francesi ha trattato il problema dell'identità ebraica nel passato e nel presente in uno splendido libro sulla «questione ebraica» intitolato La prigione ebraica: una ribelle meditazione sullo stato del giudaismo (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004). Ottantacinque anni, una vita spesa come direttore di una delle più influenti pubblicazioni francesi di sinistra, «Le Nouvel Observateur», osservatore (appunto) dei principali conflitti internazionali con al centro quelli coloniali e quello arabo-israeliano, ebreo laico algerino, affascinato dai problemi di identità; questo intellettuale francese ha scritto uno dei più onesti e dolenti esami del problema ebraico e israeliano contemporaneo. La prigione di cui parla e di cui lui stesso si sente prigioniero, nonostante la porta aperta, ha tre muri invisibili esistenti nella mente di ogni ebreo, laico, religioso o indifferente: l'elezione biblica del popolo, l'olocausto (che attraverso le sue ossessive commemorazioni ha assunto un'aria di sacralità) e Israele, che ha indebolito la capacità degli ebrei di essere «testimoni e sacerdoti» come chiede loro di essere il loro invisibile «carceriere», Dio stesso. Jean Daniel, definito «il più religioso degli agnostici» dallo scrittore ed amico Jean Juillard è stato ispirato a scrivere questo viaggio nell'anima ebraica in cui l'osservanza religiosa era in declino e in cui la bravura militare di Israele si sostituisce gradatamente «all'avvento del messia». Per molti ebrei la lezione da trarre – anche se non si ha il coraggio di ammetterlo – scrive Jean Daniel – è che «Dio ci ha puniti quando eravamo pacifici» mentre «ci protegge mentre siamo guerrieri». Si arriva così all'assurdo di una identità ebraica che gli ebrei, nonostante la loro nuova potenza, continuano a coltivare con un segreto sentimento di vulnerabilità. L'identità rischia di diventare, nell'espressione di Georges Perec, «una domanda, un continuo chiedersi, una fluttuazione, un'ansietà, un'ansiosa certezza», ma l'aspetto più paradossale di questo aspetto «fluttuante» dell'identità ebraico-israeliana la si ritrova per converso in una giudeo-centralità nella identità palestinese. Il poeta palestinese Mahmud Darwish afferma in un'intervista: «L'interesse per la questione palestinese deriva dall'interesse nella questione ebraica. [...] abbiamo la disgrazia di avere per nemico Israele con tanti simpatizzanti nel mondo e la fortuna che il nostro nemico è Israele dal momento che gli ebrei sono il centro del mondo. Voi [gli israeliani] ci avete dato la nostra sconfitta, la nostra debolezza e la nostra fama». La guerra del 1967 riproponeva in modo violento l'ebraicità dello Stato, la sacralità dei territori, culla storica e religiosa della nazione (Giudea e Samaria); la possibilità fisica, esplosiva di ricostruzione del tempio sulla collina occupata da due delle più sacre moschee dell'Islam, il ritorno ad uno Stato al tempo stesso teocratico e democratico. Nel luglio del 1967 l'allora Capo di stato maggiore Itzhak Rabin, accettando come premio della vittoria la laurea «honoris causa» in filosofia sul monte Sion, ebbe a dire: «I paracadutisti che presero possesso del Muro del Pianto [i resti del muro occidentale del Tempio di Gerusalemme distrutto dai legionari di Tito nell'anno 70] e appoggiarono il capo, in lacrime, sulle sue pietre, compirono un atto il cui simbolismo non ha paragoni nella storia umana. Questa scena sulla Spianata del Tempio, che nessuna parola ha il potere di descrivere, ha rivelato, come un lampo di luce, verità profondamente nascoste». Nella bocca di un rabbino parole del genere avrebbero commosso ma non sorpreso. Pronunciate da Rabin erano un segno dei tempi che cambiavano. Rabin, agnostico, autentico prodotto della più «conformista» educazione laica, sionista e socialista, era infatti così digiuno di ebraismo che un rabbino, incontrandolo in procinto di diventare primo ministro, disse che: «Il suo problema è di credere che Israele sia nato con il palmah (le unità d'assalto di cui era stato un comandante)». Testimonianze non meno significative dello stupore che la «riscoperta» dell'ebraismo creava nella società sionista laica israeliana si ritrovano nei molti scritti che circolavano negli ambienti intellettuali di sinistra ancora un anno dopo la fine della guerra dei Sei giorni. In uno, pubblicato da una organizzazione di estrema sinistra apertamente anti-religiosa, si leggeva: «Puoi definirlo reazionario, puoi definirlo negativo, medievale ma [...] è un fatto. Che ci troviamo in un periodo di ritorno alla tradizione, al popolo ebraico e ai nostri legami con esso» (A year later, «Haaretz», 22 novembre 1968). Al riavvicinamento fra le vedute illuministiche dei «progressisti» con quelle elaborate dagli «ortodossi» si aggiungeva una reazione all'assimilazione da parte di intellettuali laici influenzati dalla cultura della diaspora, che credevano nella possibilità di creare in Israele una società al tempo stesso «giusta» ed ebraica, liberale e tradizionale, multietnica ed esemplare come condizione e giustificazione del diritto alla sovranità riconquistata e ora terribilmente allargata. Si trattava di una visione più irreale di quelle dei «sognatori del ghetto» che, in assenza di responsabilità statale, potevano permettersi di disegnare i più utopistici schemi politici. Ma, proprio perché una parte di questi sogni si erano realizzati attraverso un pionierismo egalitario prestatale, molti, laici e religiosi, videro nella giudeizzazione dei territori occupati, in primo luogo quelli della Giudea e Samaria (Cisgiordania) e di Gaza, non un'occupazione di tipo coloniale, ma la continuazione del sionismo pionieristico prestatale. Gli interessi costituiti nuovi di questa colonizzazione si articolarono politicamente nel movimento YESHA, sostenuto da partiti di destra — laici e religiosi — di cui Sharon divenne prima il più attivo patrocinatore poi il più odiato traditore con la sua decisione di evacuare unilateralmente la zona di Gaza (e alcuni insediamenti in Cisgiordania). Viste le differenze fra questi due tipi di pionierismo, sionista laico pre-statale e post statale, ci sembra necessario ricordare l'essenza, le strutture e gli scopi del primo, per comprendere la natura lo sviluppo politico e il rapido collasso del secondo e la sua insospettata incapacità di provocare una — molto pronosticata — guerra civile. | << | < | > | >> |Pagina 79Il conflitto arabo ebraico è secondo per durata solo a quello indo-pakistano. Come conflitto fra popoli è il più lungo e bellicoso del primo dopoguerra. Guardato con occhio spregiudicato, il conflitto dello Stato d'Israele con gli Stati arabi mette in evidenza il proprio carattere costruttivo per l'identità nazionale e per la potenza economica e militare della repubblica ebraica. Il che è vero anche, ma in maniera diversa, per i suoi vicini. Molto differente, invece, è stato lo scontro fra il popolo israeliano e quello palestinese, che ha creato ex nihilo la nazione palestinese, ma si è trasformato gradatamente in un fattore distruttivo per l'unita e il consolidamento della coscienza nazionale ebraica. In questo capitolo tratteremo delle cause e delle tappe belliche diventate occasioni di sviluppo della minuscola comunità ebraica di Palestina nella prima potenza militare e industriale del Medio Oriente, distinguendo quattro fasi di un conflitto interstatale che ha trasformato la società israeliana: a) da società pioniera, ideologica, elitaria, in rifugio indiscriminato di ebrei perseguitati (1930-1948) b) da territorio mandatario a Stato sovrano privo di frontiere (1948-1956) c) da Stato «paria» a Stato degli ebrei (1956-1967) d) da paese assediato a Stato occupante (1967-2005). | << | < | > | >> |Pagina 107Yeshayahou Leibovitz non era stato la sola «Cassandra» della vittoria israeliana nella guerra del 1967. Altri analisti politici, molto lontani dalle considerazioni morali e religiose addotte da Leibovitz, avevano previsto i pericoli che il trionfalismo militare e l'occupazione di vasti territori arabi avrebbe causato allo Stato d'Israele. Uno dei migliori esperti di politica araba, Shimon Shamir, futuro ambasciatore di Israele al Cairo e ad Amman, si preoccupava invece di un altro tipo di conseguenze nefaste della guerra su Israele: l'indifferenza del governo di Gerusalemme nei confronti del nazionalismo palestinese. Nessuno nella coalizione diretta dal premier Levi Eshkol sembrava rendersi conto che la disfatta degli eserciti arabi lasciava ora i palestinesi soli e incontrollabili a «difendere l'onore» dell'intera nazione araba. «Il movimento nazionale palestinese è un fatto – scriveva il professor Shamir – ed è stupefacente notare come il pensiero politico ebraico sia in ritardo su questi sviluppi [...]. Quando il panarabismo toccava il suo apogeo negli anni Cinquanta [...] gli esperti di politica estera israeliani affermavano che il nazionalismo arabo non esisteva, che il Medio Oriente era costituito da maroniti, alawiti ecc. Ora che il processo di regressione del panarabismo è una realtà evidente e le nazioni arabe, inclusi i palestinesi, sottolineano i loro "particolarismi locali", gli ideologi della politica estera israeliana dicono di accettare il nazionalismo arabo come interlocutore possibile per raggiungere la pace, mentre affermano che una identità palestinese separata non esiste. I palestinesi sono pregati di cercarsi un posto all'interno dei paesi arabi in virtù di premesse ovviamente panarabe». Il fatto che gli israeliani dopo decenni di lotta con gli arabi continuassero ad avere difficoltà nel capire, usando modelli interpretativi occidentali, concetti semplicistici influenzati dal successo militare, dall'ignoranza linguistica, religiosa e culturale del mondo arabo, era, se non scusabile, comprensibile. Ma che una dirigenza politicizzata, colta, d'origine europea e con un profondo senso della storia non riuscisse a comprendere il pericolo mortale della creazione di un problema coloniale all'interno del proprio territorio, questo appariva incomprensibile, frutto di un «blocco mentale» che aveva poco a vedere con la logica sensibilità politica. Le radici di questo blocco andavano ricercate nella confusione e nell'equivoco di una società che si voleva laica, democratica e sionista ma che volente o nolente sapeva di dover trovare la propria legittimità «ebraica», in un altro tipo di società: ebraica, sacra, teocratica e medioevale. Proprio quella da cui il sionismo aveva voluto liberarla. Ritorneremo sul problema. Qui ci limiteremo a citare il sociologo israeliano-americano Amitai Etzioni che definiva la conquista dei territori come «la tentazione colniale d'Israele». Nasceva da un dilemma dal quale la dirigenza israeliana sembrava incapace di districarsi. «I loro istinti, l'esperienza degli anni trascorsi, considerazioni di sicurezza geopolitica, li spingono a tenersi la Cisgiordania; la loro tradizione, i loro impegni anticoloniali li incitano a ritirarsi se fossero offerte condizioni accettabili di pace». La soluzione che venne adottata fu quella solita che i governanti israeliani avevano l'abitudine di prendere quando dovevano affrontare difficili problemi di identità, non fare nulla, decidere di non decidere, lasciando al tempo il compito di far maturare le questioni insolubili nell'immediato. Ma una cosa erano le questioni interne, per così dire tribali e di famiglia, fra gli ebrei. Un'altra quelle legate ad un contesto politico internazionale su cui Israele non aveva nessun controllo. Venne deciso di mantenere i territori occupati sotto regime militare «temporaneo» come «carte» di scambio con la pace. Lo storico Jacob Talmon la definì una soluzione illusoria, frutto della nevrosi che spesso si impadronisce dei popoli in situazione di conflitto, indipendentemente dai loro interessi concreti. «Gli arabi agiscono sotto l'impulso dell'ira, di un bruciante senso di insulto ricevuto, di odio, di invidia. Gli ebrei sotto la spinta della paura e del sospetto. Le nevrosi di entrambi nascono da una visione fissa e paranoica della storia [...]. Per gli ebrei questa terra è problema di vita e di morte non questione di imperi o di riconquista di province come per gli arabi [...]. Ma a seguito della guerra dei Sei giorni siamo stati presi dalla nevrosi, da una fede mistica nella "mano dell'Eterno", nella inesorabile marcia "della rivoluzione sionista verso qualche sua realizzazione apocalittica". | << | < | > | >> |Pagina 151La guerra civile scoppia quando il potere dello Stato diventa inconciliabile con le aspirazioni della società ad esso sottoposta, diventando un fattore determinante della identità collettiva. Nell'epoca della globalizzazione, entità nazionali consolidate dalla geografia e dalla storia diventano più fragili e vulnerabili alle pressioni di gruppi di interesse – economiche, etniche, religiose – decisi a ottenere con maggiore o minore violenza il riconoscimento dei propri diritti. Quella che sembrava nel XIX e XX secolo la malattia congenita degli imperi è diventata la malattia degli Stati, specie quelli di nuova formazione, creati da potenze coloniali. Nel Medio Oriente gli Stati successori dell'Impero ottomano, mosaici di minoranze, ne sono la prova, con il problema dell'identità nazionale, della legittimità del potere, delle frontiere storiche come fonte permanente di conflitti interni ed esterni. Il fenomeno è messo in evidenza nel conflitto arabo-israeliano che ha reciprocamente influenzato le parti in causa dimostrando nel caso egiziano e giordano come costruttive possano rivelarsi le guerre fra Stati (per lo sviluppo dell'economia, il consolidamento dei regimi, e persino per il raggiungimento della pace) e distruttive quelle fra popoli (come nel caso israelo-palestinese). Al contrario l'Intifada delle pietre e l'Intifada Al Aqsa (come il tentativo di eliminare con l'invasione del Libano la forza militare e politica dell'OLP) in quanto guerra fra popoli col pericolo di provocare in Israele una guerra civile, sembrano essere state la ragione profonda del cambiamento di visione politica di Ariel Sharon, trasformandolo nel corso di meno di tre anni, nel maggior avversario dei princìpi che aveva sostenuto tutta la sua vita.
Sharon, come tutti i grandi leader, ha i difetti delle sue qualità e non è
questa la sede per darne un ritratto psicologico (le
sue biografie già stanno inondando il mercato) basandosi sulle
spiegazioni dei suoi intimi (consiglieri, cortigiani e familiari,
giornalisti, compagni d'armi). La spiegazione più sincera del
suo voltafaccia politico, che in precedenza gli aveva già valso il
titolo di «maestro dei zig-zag», è data da lui stesso: «Quando
si sta seduti dall'alto del potere si vedono le cose in maniera
differente da quello che apparivano dal basso». Su questa «visione dall'alto»
devono aver certamente influito tre fatti su cui
Sharon non aveva alcun controllo: la mutata natura della nazione israeliana; gli
effetti della guerra di Al Qaida contro Stati Uniti, ebrei e i cristiani;
l'evoluzione del ruolo dello Stato in generale e di uno Stato ebraico in
particolare nella società internazionale globalizzata. In questo capitolo ci
occuperemo dei due primi temi lasciando l'analisi del terzo — l'evoluzione del
ruolo dello Stato — al prossimo in cui verranno ipotizzate alcuni possibili
scenari dell'evoluzione dello Stato degli ebrei nel
mondo politico contemporaneo.
La mutata natura della nazione israeliana La particolarità degli ebrei, come abbiamo cercato di spiegare nei capitoli precedenti, è insita nella loro storia, nella vocazione di «popolo di sacerdoti e nazione sacra» da essi accettata o a loro imposta, all'origine della loro esistenza collettiva, dall'ordinamento teocratico mosaico. Con un bagaglio ideologico e morale del genere, condizionato da esili e persecuzioni, rivoluzionato dal movimento laico sionista, drammatizzato nel corso dell'ultimo secolo dal conflitto con gli arabi, lo Stato degli ebrei deve oggi affrontare le sfide lanciate alla sua sicurezza interna ed esterna dal proprio processo di modernizzazione e da quello dei suoi nemici. Queste sfide non sembrano, nell'immediato, mettere in pericolo la sua esistenza. Rivelano tuttavia i sintomi di un conflitto per la formazione dell'identità della nazione, nazione che Renan definiva «quell'anima collettiva dei popoli che si crea in ogni istante». Su questa «anima», come sulla struttura sociale dello stato sionista, dei partiti e delle istituzioni ebraiche, Sharon non poteva avere che le idee tipiche di quella plantocrazia a cui si è accennato parlando dello Yishuv ebraico della Palestina mandataria. Queste idee difficilmente potevano essere ancora valide, dopo mezzo secolo, in un paese che aveva cessato di essere un rifugio per ebrei perseguitati per diventare terra di attrazione per immigrati di ogni razza o religione. Soprattutto erano idee che non servivano più a risolvere né una situazione coloniale considerata illegittima dalla società internazionale e ancor meno a mettere fine con le armi alla rivolta da essa causata. Sull'«anima collettiva» di Israele molti intellettuali israeliani offrono opinioni differenti da quelle espresse dai padri del sionismo. Pinsker, Ahad Ha Am, Herzl, ad esempio avevano interpretato la crisi dell'ebraismo nel XIX secolo come una variante di situazione coloniale applicata all'ebreo (nonostante la sua pelle bianca) in Europa, uno stato di alienazione da cui il sionismo, (inteso come presa di coscienza nazionale di tipo europeo), doveva liberare fisicamente e psicologicamente l'ebreo. Oggi molti intellettuali israeliani interpretano lo Stato creato dal sionismo, con analisi critiche e teorie non molto differenti da quelle di chi accusa Israele di colonialismo e razzismo. Un'idea dell'astio con cui gli universitari israeliani criticano il sionismo e l'idea stessa di uno Stato ebraico si può avere nell'articolo del «Jerusalem Post» Academic against Israel (19 ottobre 2005). Una delle fonti di questa delegittimazione interna del sionismo e di Isreale è legata al «revisionismo storico». «Una delle più grandi ironie della storia ebraica – si legge in una delle molte nuove pubblicazioni di destra ebraiche («FrontPage» Magazine.com, 15 settembre 2005) – è che il sionismo laico emerse come doppia risposta all'assimilazione e all'antisemitismo. Chi avrebbe mai pensato che la sua realizzazione sarebbe stata accompagnata dall'emergere delle più maligne manifestazioni di odio israeliano di sé, di antisemitismo ebraico all'interno dello Stato di Israele e della terra di Sion [...]. Il fallimento del sionismo laico coincide con la crisi dell'israelianità [...], con lo sforzo di rimpiazzare l'identità ebraica tradizionale con una israelianità civica, col consumismo in lingua ebraica e con un patriottismo civico post-ebraico». Nello Stato d'Israele una parte della società, preoccupata della perdita di identità privata e collettiva, si ripiega su posizioni religiose che equiparano l'individualismo ad una permissività distruttiva per i valori tradizionali. Si tratta però di valori che se nel corso dei secoli si sono dimostrati sufficientemente forti nel passalo per dare solidarietà di un popolo disperso, restano legati ad un tipo di società chiusa, comunitaria, medievale, sotto certi aspetti tribale, che male si adatta ad affrontare le sfide della modernità e che per secoli non ha dovuto affrontare il test del monopolio statale della violenza e il controllo di popolazioni non ebraiche sottomesse in guerra. Questo rifiuto arabo di Israele spalleggiato da ampio sostegno ideologico e di interessi strategici delle grandi potenze, genera paura, favorisce un senso esagerato di vittimismo che a sua volta contribuisce a spingere larghi settori della società a chiudersi in se stessi. Si tratta di ripiegamento che promuove correnti ideologiche influenzate da una scorretta e spesso schizofrenica lettura degli avvenimenti; che porta attraverso l'esaltazione politico-religiosa a dissacranti forme di paganesimo territoriale lontane dai valori morali del monoteismo ebraico. Il paganesimo dello Stato di Israele ha trovato appassionata denuncia, ancor prima della guerra del 1967, negli scritti del prof. Y. Leibovitz, già ricordato. In un articolo intitolato «Il mondo e gli ebrei» («Forum», primavera 1959, vol. 4, pp. 83-90) egli sosteneva che lo Stato di Israele poteva rimanere ebraico e legittimo strumento per la realizzazione di scopi ebraici unicamente nella misura in cui si fosse mosso in una direzione sacra. Se fosse diventato «uno Stato come gli altri Stati», deciso ad emettere le proprie leggi senza sottomettersi a quelle ebraiche, si sarebbe trasformato nella culla di un nuovo popolo: il popolo israeliano, che non era e non poteva più essere la continuazione del popolo ebraico. «Ci sono ebrei, nello Stato di Israele, per i quali il popolo è Dio, lo Stato la religione, il nazionalismo la legge e il valore supremo. Sono dei fascisti, alcuni consci di esserlo, altri no, legati con passione all'idea che il popolo ebraico debba definirsi in funzione del loro Stato [...]. Vi sono molti ebrei fra di noi che innalzano il concetto della terra al livello della santità. Questa è idolatria pura e semplice [...]. La terra è neutrale come ogni altra cosa nel mondo. Solo Uno è Santo e, all'infuori di Lui, nulla è santo, nella storia come nella natura, come nell'uomo; ma è possibile santificare ogni cosa attraverso il servizio del Signore». Una delle ragioni per cui il movimento dei coloni e i loro sostenitori rabbinici non hanno mai amato Leibowitz è appunto questa sua vibrante denuncia dell'idolatria insita nel possesso materiale della terra invece che nella sua santificazione attraverso una condotta morale. L'Intifada ha drammatizzato questo scontro di valori allargando la crisi di coscienza israeliana. Da un lato la guerra di popolo aumentava, con le sue preoccupazioni di difesa contro il terrorismo, i controlli, le pressioni spesso arbitrarie sulla popolazione palestinese, l'imbarbarimento di una società già sofferente per un quasi ininterrotto stato di guerra. A questo si aggiungeva la corruzione derivante dall'ineguaglianza legale prodotta dalla colonizzazione e dall'occupazione militare. Allo stesso tempo, la rivolta armata della seconda Intifada, sviluppava immagini e condizioni di guerra psicologica che favorivano all'estero (ma anche in ambienti revisionisti israeliani) la delegittimazione di Israele confondendo anti-semitismo e anti-israelismo. Un altro effetto degenerativo dell'Intifada sulla società israeliana è stata la crescita della tensione fra democrazia e teocrazia. Questo scontro riceve sostegno dalle giustificazioni religiose della colonizzazione, in cui si confondono interessi materiali, dubbie considerazioni strategiche di sicurezza, paura, disprezzo e arroganza di potere. Se per Leibovitz il compimento della missione sacra e morale del monoteismo mosaico è la sola giustificazione dell'esistenza del popolo d'Israele e della legittimità delle istituzioni che si definiscono ebraiche, altri pensatori israeliani affrontano il problema della identità ebraica in maniera differente. Li unisce, se pure in maniere molto diverse, la convinzione che lo scontro coi palestinesi – diventato scontro fra popoli invece che fra Stati – ha rimesso in discussione l'esistenza dello Stato e la sua identità. La rivolta palestinese ha drammatizzato il dilemma irrisolto del ritorno degli ebrei come soggetto attivo, non passivo, sulla scena internazionale: la moralità applicata (non teorica) della sovranità politica per uno Stato che si proclama ebraico, il rapporto fra Stato degli ebrei e altri Stati e fra Stato e diaspora.
Viene insomma risvegliato in chiave ebraica il dilemma fra
morale e politica, che
Machiavelli
sintetizzava dicendo: Principe cristiano.
Impossibile. O si è principi o si è cristiani.
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