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| << | < | > | >> |Pagina 3È nato. La madre lo stringe, lo culla e gli dà la prima poppata, lieta di tenere fra le braccia la vita che ha sentito dentro di sé per tutti questi mesi. È un po' prematuro, ma non troppo piccolo, e le stringe forte i pugnetti intorno alle dita. Lei lo conosce già e gli vuole bene. Quando il marito rincasa dal lavoro, la levatrice lo prende in disparte, lo intercetta prima che raggiunga la porta della camera. A differenza della moglie, l'uomo non ha la possibilità di guardare il figlio e vederlo perfetto, di volergli bene prima di conoscere la sua imperfezione. In clinica l'attività è febbrile; il medico, raccomandato dalla levatrice, è sbrigativo ma sensibile. Ai neo-genitori viene detto che si tratta di un difetto congenito, ma non grave. In parole povere, al bambino manca un muscolo nel petto. Purché venga sottoposto a una regolare fisioterapia, sarà sicuramente in grado di scrivere e di svolgere tutte le attività quotidiane. Non potrà mai usare normalmente il braccio destro, questo è certo, e non potrà praticare lavori manuali, ma la mancanza di un muscolo pettorale non è per forza di cose un ostacolo insormontabile. Con il passare del tempo, potrebbe riuscire perfino a fare sport, anche se è meglio non nutrire troppe speranze. A casa osservano con attenzione il bimbo che gorgoglia e tira calci nel cassetto che gli fa da culla, gli arti piegati e le lunghe dita dei piedi, le grinze della pelle appena nata. È bellissimo e i neo-genitori si sorridono, ciascuno pronto a ridere al minimo accenno dell'altro. Tolgono la magliettina al bimbo e gli ispezionano il torace e l'ascella destra mentre si dimena. Da un lato è più magro, questo è vero, ma le braccia si agitano con la stessa energia quando gli danno da mangiare o gli fanno il solletico, ed è robusto e vivace.
Mutti esclama: non c'è niente che non va. Papi la stringe fra le braccia,
continuando a guardare il figlio. Rimangono seduti insieme sul letto per molto
tempo, ascoltando il loro respiro mentre il bimbo dorme. E chiamano il piccolo
Helmut, animo chiaro, perché è così che lo vedono: perfetto quanto basta, e va
bene così.
La vita fra le due guerre è dura: pasti frugali, pochi lussi, spazi ristretti. Il padre di Helmut è un veterano e tossisce ancora durante la notte e in autunno, quando fa umido. È più vecchio della moglie ed è grato che la vita gli abbia dato la possibilità di essere felice; così esce di casa presto, tutti i giorni, e trova ogni volta un nuovo lavoro. L'appartamento in cui rincasa è sempre pulito, con almeno una delle due stanze riscaldata; e siccome la madre di Helmut è un'ottima massaia c'è sempre qualcosa in tavola. I genitori sono molto felici del loro unico figlio e prendono precauzioni per non averne altri, riversando il loro amore su Helmut, che ride molto più di quanto pianga. Il materasso che i tre dividono è largo e caldo, e anche se il figlio ormai parla e cammina, un letto separato per lui sembra esagerato, fuori luogo, un peccato. Sul davanzale della finestra, Mutti coltiva erbe aromatiche e fiori che lascia curare a Helmut; e se Papi non è troppo stanco, quando rincasa canta un paio di ninnananne al bambino. Al mattino e alla sera gli esercizi sono un gioco che Helmut fa con i genitori. Deve pensare che li facciano anche tutti gli altri bambini, per diventare forti come i padri, che tutte le famiglie siano così felici. Nelle calde estati della prima infanzia, Helmut e la madre affrontano il lungo viaggio verso nord, fino alla costa, mentre il padre rimane in città, facendo qualsiasi lavoro gli capiti. Dopo una settimana Helmut è abbronzatissimo e ha i capelli biondi come il sole. Gioca nudo nell'acqua bassa assieme agli altri bambini, mentre in spiaggia Mutti fa amicizia con le altre madri. Non attira mai l'attenzione sul petto del figlio, sul braccio, e quando sembra che le altre donne non notino nulla, Mutti chiacchiera più liberamente, si rilassa e si stende a godersi il sole e la compagnia. Notti estive in camere d'ostello piene di madri che bisbigliano; favole per bambini insonni; confidenze e sigarette condivise vicino a una finestra aperta sul cielo buio e afoso.
Helmut sente la madre venire a letto, e l'odore di fumo che ha nei capelli.
Chiude di nuovo gli occhi e si riaddormenta con un pollice in bocca, la sabbia
sotto le unghie e il sale sulla pelle.
Il padre di Helmut ha trovato un lavoro fisso da Herr Gladigau, il proprietario dello studio fotografico della stazione; tre o quattro giorni alla settimana di stipendio assicurato. Papi pulisce la camera oscura, cambia le soluzioni chimiche e bada al negozio quando Herr Gladigau ha qualche appuntamento. A Gladigau piace il nuovo dipendente, si fida di lui. Non ha figli, è vedovo, ed è contento di essere entrato in contatto con una giovane famiglia felice. Non può permettersi di pagare quanto vorrebbe, quanto necessita la famiglia di Helmut. In compenso, propone di creare un archivio fotografico della vita di famiglia. L'accordo iniziale è di una seduta di ritratti ogni sei mesi: mentre il bambino è ancora piccolo e cresce in fretta. Mutti è entusiasta, Papi leggermente imbarazzato, ma anche contento. Fissano la prima seduta per la settimana dopo. Nella stampa scelta da Papi, Helmut è in piedi sulle ginocchia del padre e con la mano destra indica le palme decorative di Herr Gladigau, a sinistra nella foto, vicino alla madre. I genitori lo guardano e sorridono: un bambino biondo che sta uscendo dalla prima infanzia, con il braccio destro ben teso all'altezza della spalla, forse appena più su. Una posa normale per un piccolo curioso e vivace, sebbene poco convenzionale per un ritratto. Gladigau preferisce le foto più composte scattate nella prima parte della seduta, in cui i soggetti in posa guardano verso 1'obiettivo e tengono le mani in grembo; ma il suo dipendente è placido quanto irremovibile, e Gladigau non trova nessuna ragione valida per rifiutare la sua richiesta. Sceglie una cornice semplice fra quelle di prezzo medio e incarta con cura il ritratto. | << | < | > | >> |Pagina 31Come una calamita, la folla attira Helmut sulle piazze dei mercati, nei cortili delle scuole, sulle strade piene di gente e di vetrine. Scatta un paio di foto, va oltre, ormai dimentico del negozio; la luce è così bella da spingerlo ancora più lontano. Gira per una serie di vicoli quasi deserti, poi coglie un vocio e lo segue. Si perde nelle viuzze tra i caseggiati e finalmente riesce a individuarne l'origine in uno spiazzo.Ci sono camion e uomini in uniforme che gridano e danno spintoni. Ci sono cento, forse centocinquanta persone: alcuni si muovono alla rinfusa, altri allungano il passo, altri ancora stanno fermi. Helmut si accovaccia dietro un muretto e inizia a scattare fotografie. Attraverso l'obiettivo vede oggetti personali sparsi qua e là: vestiti, pentole, scatole, sacchi presi a calci e scaraventati sul terreno fangoso. Un ufficiale vicino a una jeep sbraita ordini con una voce tagliente che terrorizza Helmut, spingendolo a ritrarsi ancor più dietro il muretto. Si asciuga le mani sudate sui pantaloni e con dita tremanti appoggia la macchina fotografica sul muretto di mattoni, guardandosi intorno con aria furtiva. Altre persone osservano la scena, raccolte all'ingresso di una palazzina all'estremità dello spiazzo. Sono molto più vicine alla folla di Helmut, ma lui ha paura di attraversare la calca per raggiungerli. Adesso le urla sono più forti, i motori dei camion si accendono. Helmut allunga una mano per afferrare la macchina fotografica, impaurito, ma anche preoccupato che la scena gli sfugga. Gli zingari vengono separati e caricati sui camion. Urlano agli uomini in uniforme, scoprendo i denti d'oro. I bambini piangono in braccio alle madri e si nascondono sotto le ampie gonne variopinte. Le bambine prendono a morsi le mani dei soldati che strappano loro i gioielli dalle orecchie e dai capelli. Gli uomini prendono a calci quelli che li colpiscono e vengono presi a calci a loro volta. Le donne si difendono da mani che spingono, e una si mette a correre, ma non arriva molto lontano e poco dopo finisce priva di sensi sul camion assieme al resto della famiglia. Helmut è impaurito, elettrizzato; ha le mani sudate e tremanti. Scatta, ricarica e scatta di nuovo, fotografando più in fretta che può, ma non abbastanza. Inserisce un nuovo rullino, maledice le dita deboli e umidicce, regola con difficoltà la messa a fuoco. Nel mirino, i suoi occhi incontrano quelli di uno zingaro che lancia un grido e lo addita. Altri si voltano a guardare: facce impaurite e adirate incorniciate da fazzoletti, copricapi, e anche cappelli da uniforme. Helmut sente un tuffo al cuore, ricorda il soldato alla stazione e si nasconde la faccia tra le mani. Sente un urlo che gli ordina di smettere, di alzarsi, ma non ci riesce, può solo girarsi e mettersi a correre. La fotocamera gli ricade sul petto e l'obiettivo gli rimbalza sulle costole; la cinghia sfrega sulla nuca, mentre si volta di scatto per allontanarsi dagli occhi e dalle voci rabbiose. Appoggia male un piede sul terreno accidentato. Il ginocchio gli cede e inciampa, cade in avanti; un braccio fende l'aria a vuoto, l'altro pende floscio, inutile e pesante, trascinando la spalla destra verso il terreno sassoso. Tiene in alto la macchina fotografica, scostandola dal corpo per proteggerla. | << | < | > | >> |Pagina 85Su una lunga asse di legno inchiodata al tronco, sono state attaccate alcune grandi fotografie sfocate. Il gruppo rimane in silenzio, a un passo dalle immagini, mantenendo una distanza regolare. Davanti a Lore c'è la fotografia di una catasta di rifiuti, potrebbe essere anche un cumulo di cenere. Piega il capo per vedere l'immagine da vicino, pensa che potrebbero essere scarpe. Ogni foto riporta il nome di un luogo. Uno di questi sembra tedesco, ma gli altri due no. Nessuno di essi le risulta familiare. La colla sotto le fotografie è ancora fresca, la carta è raggrinzita e le immagini confondono le idee. Lore socchiude gli occhi, frustrata e accaldata nella ressa ammutolita. Fa un passo in avanti uscendo dal gruppo e spiana le grinze umide con le palme delle mani. Dietro di lei si leva un bisbiglio che si diffonde tra la gente.Sono fotografie di scheletri. Adesso Lore lo vede, togliendo le mani e abbassandosi le maniche fin sulle palme umidicce di colla. Centinaia di scheletri: un intrico di anche, braccia e teschi. Alcuni sono distesi in un vagone ferroviario aperto, altri in una depressione poco profonda del terreno. Lore trattiene il respiro, distoglie lo sguardo, guarda la fotografia successiva: capelli, pelle e seni. Fa un passo indietro, intrappolata dal muro di folla. Persone. Nude, distese in fila. Sulle ossa la pelle è sottile come carta. Cadaveri ammassati senza vestiti. Un vecchio vicino a Lore si schiarisce la gola. Il gruppo si muove e Lore viene allontanata dalle immagini e trascinata dalla gente che si raccoglie in circolo. La ragazza è accerchiata da schiene calde, maniche e spalle, e dall'odore di fumo sulla lana. Le due signore anziane tornano di fianco a Lore. Prendendola con delicatezza sotto il braccio, la spingono in fondo alla carrellata di fotografie, ai margini della calca. L'ultima foto è più nitida: un uomo giace contro una barriera di filo spinato. Indossa un pigiama con la casacca aperta e Lore gli vede le costole. Ha il tessuto dei calzoni ripiegato e annodato intorno alla vita magra, le caviglie sono giunture enormi alle estremità di gambe scarne. Gli occhi dell'uomo sono ombre nere. Ha la bocca aperta e le guance incavate perché non ha denti. Le due donne anziane si spostano ancora, allontanando Lore dalle fotografie, dall'albero. Una per parte, la prendono per le braccia e la spingono in avanti, via dalla piazza principale, di nuovo in strada. Dietro di loro il gruppo si ammutolisce di nuovo e richiude lo spazio vuoto lasciato dalle donne. Lore si guarda intorno. Nessuno le guarda. La gente è tornata a rivolgere la propria attenzione muta alle fotografie sull'asse. La donna anziana alla destra di Lore tiene un fazzoletto premuto sulla bocca e non parla. L'altra sospinge la ragazza lungo la strada. Anche lei è magra. La mano ossuta lascia andare il gomito di Lore e le dà dei colpetti sul braccio. «Torna a casa, piccola. Sbrigati. Qui non c'è niente da vedere.» Lore cammina senza guardarsi attorno. Si sente accaldata, debole, non mangia da ieri ed è già pomeriggio. Si siede sul ciglio della strada, pensa che deve comperare del pane, recuperare i bambini, rimettersi in viaggio. Qualcosa da mangiare. Appoggia la fronte sulle ginocchia, strizza forte gli occhi. Dietro alle palpebre vede le foto appese all'albero. Forse quelle persone non avevano da mangiare e sono morte di fame. Non riesce a ricordare i nomi dei luoghi riportati sotto le fotografie, non sa neppure in che città si trovi adesso. Lore ripete di nuovo nella mente il percorso verso nord, a occhi chiusi e con il viso rivolto verso il cielo. Sente il sole che brucia sulle guance e tenta di ricordare se l'uomo nell'ultima foto avesse gli occhi aperti o chiusi. Si chiede se fosse morto e se sia possibile morire con gli occhi aperti. | << | < | > | >> |Pagina 142Rimangono seduti a terra per ore. Hanno trovato un posto nel corridoio vicino alla porta, sopra le ruote che stridono lente sulle rotàie. Quando il treno si arresta, non scende nessuno. Alcuni soldati saltano giù dal tetto e si dispongono lungo i binari. Sono più pacati dei soldati americani, hanno le uniformi più scure e movimenti più misurati. Ma anche loro tengono le mani sui fucili, pronti a fermare chiunque cerchi di scappare. Lore è contenta che ci siano. Tomas è seduto di fronte a lei ed evita di guardarla.Quando diventa buio, Juri arriva carponi fra le braccia di Tomas e si addormenta con il capo appoggiato al suo petto. Tomas tiene gli occhi chiusi e non respinge il bambino, ma Lore sa che è ancora sveglio. La ragazza si assopisce, Liesel si appoggia alla sua spalla, mentre Peter dorme sul fagotto, in mezzo a loro. Lore si sveglia con i piedi intorpiditi e un dolore acuto alle gambe. Tomas si è scostato di poco, ma Juri gli dorme ancora in grembo. La ragazza si sfila gli stivali, massaggiandosi i piedi, senza toccare piaghe e vesciche. Il treno procede rumorosamente, vibrando. Comincia ad avvertire un formicolio nelle dita dei piedi, ma il dolore alle gambe non si attenua. Rimane in piedi finché non le passa l'intorpidimento e poi cammina avanti e indietro. Lore barcolla lungo il corridoio che ondeggia, scavalcando le persone che dormono, con le braccia tese e le palme appoggiate alle pareti per tenersi in equilibrio. Attraversa la porta fra un vagone e l'altro, e nella carrozza successiva trova un finestrino aperto. Allora si ferma e lascia che il vento le soffi tra i capelli. Si sporge verso l'esterno e con lo sguardo cerca le ruote che stridono nel buio; il bordo del vetro le preme contro i fianchi. Attraversano la vasta campagna pianeggiante, superando le ombre fredde e scure degli alberi. La notte è umida e l'aria è pregna dell'odore di erba. Alcune persone parlano nello scompartimento dietro di lei. La ragazza si allontana dal finestrino, continuando a dare loro le spalle, ma ascolta quello che dicono. «Quando ne hai viste un po', di quelle foto, ti accorgi che sono state tutte scattate nello stesso posto.» «Ma il giornale dice che c'erano diversi campi, forse centinaia.» «Non sto dicendo che questi campi non esistano. Dopo tutto, ogni nazione ha le sue carceri. Dico solo che non uccidevano la gente.» «E le fotografie dei cadaveri?» «È tutta una messinscena. Le foto sono sempre sfocate, troppo scure, oppure sgranate, no? Non sono mai nitide. E le persone in quelle foto sono attori. Gli americani hanno architettato tutto, forse li hanno aiutati addirittura i russi, chissà.» «Chi te l'ha detto?» «Fahning, per dirne uno, e anche Mohn. Torsten e suo fratello ne hanno sentito parlare.» «Ma l'hanno letto sui giornali?» «Senti, io ho visto le foto. Circolano sempre le stesse. Sono angolature diverse della stessa scena. Lo capirebbe anche un idiota.» Lore guarda i due ragazzi con la coda dell'occhio. Sono poco più grandi di lei. Hanno visi lisci e affilati e occhi scintillanti. Fumano seduti sui loro fagotti accanto alla porta dello scompartimento. A terra, tra i due giovani, c'è il moccolo di una candela; la fiammella tremola nella corrente creata dal finestrino aperto. Uno dei due è senza un braccio. La manica è appuntata alla spalla e svolazza mentre il ragazzo parla. Poi incrocia lo sguardo di Lore e solleva la manica vuota. «Una granata.» Le sorride. Lore si sente arrossire in volto ed è contenta che sia buio. «Anch'io ho visto quelle foto.» «Ecco, vedi, le hanno viste tutti. Ed erano tutti magri e sdraiati a terra, no?» «Pensavo che fossero morti.» «Sono attori americani. E alcuni di loro sono manichini, modelli. Quelli che sembrano davvero morti.» L'amico spegne la candela. «Adesso dormo.» Ignora la ragazza.
Il ragazzo monco le ammicca nel buio. L'estremità della sigaretta gli
sfavilla tra le labbra e le guance di Lore avvampano nell'oscurità. Dopodiché
Lore chiude il finestrino e torna indietro. Apre la porta del vagone e il
fischio delle ruote le stride nelle orecchie.
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