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| << | < | > | >> |Indice9 Premessa 13 Capitolo primo Del castigo e del perdono Guerre infinite Achille di destino Il dolore consumato Paideia guerriera 33 Capitolo secondo Eccessi Impatti Assenze Altro di desiderio Stragismi Risentimenti Antropofagie Economia delle passioni gioiose Simulacri 75 Capitolo terzo Accessi Calipso, la dismisura Ulisse, il dilemma Penelope, il perdono Del riconoscersi 101 Concludendo Se hai due soldi 105 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 9PremessaNello scontro tra le armi il primato è delle forze in campo, ma nello scontro delle forze il primato è della mente. E. Olmi, Cantando dietro sparaventi Non sono così sicuro, come sembrano essere invece alcuni recenti osservatori, che nuove speranze possano accendersi in questi nostri tempi segnati da guerre ubique e diffuse, e che basti attendere che la ragione offesa riprenda nelle sue mani le redini del mondo confidando in classi dirigenti più lungimiranti. I media continuano a portarci in casa immagini di raccapriccio: sequenze interminabili di una guerra infinita che ha abolito ogni diritto civile e fa scempio perfino di quel codice di onore militare che pure era riuscito a sopravvivere all'orrore delle grandi guerre del XX secolo. I corpi abbattuti non vengono restituiti, né onorati per una pietosa sepoltura; gli ostaggi barattati, e la crudeltà psicologica fa alzare il prezzo della restituzione. L'umano Sapiens insomma sembra votato a una regressione ferina che nessun'altra guerra moderna ha conosciuto e il XXI secolo sembra segnato dal destino di un nuovo evo barbarico di cui non s'intravedono né durata, né vie d'uscita. Essendo lontani scenari di pace, l'hegeliana lotta per il riconoscimento si trova a dover rinegoziare uno spazio di contenimento, in attesa che possa nuovamente affermarsi quel kantiano rispetto di sé che non può darsi senza il rispetto e l'onore dell'altro, anche quando nemico. Un'etica del conflitto, in attesa che maturino le condizioni per un'etica del riconoscimento, non può che esigere relazioni giuridiche in grado di lenire la perdita dei più alti valori di civiltà che pure l'umanità ha conosciuto non solo nello spazio del moderno, ma anche nel fondo più arcaico della sua storia. Ma l'evoluzione del diritto richiede un'elevazione culturale e la trasformazione dei modelli di organizzazione sociale. Richiederebbe una Umbildung trasformativa che alla forza del dominio sappia opporre le ragioni della mutualità. Si accede a una superiore civiltà di mutualità (Eisler 1996) attraverso il riconoscimento dei torti inflitti a tre quarti dell'umanità che sostiene l'agio di un terzo; riconoscimento del volto di un dio diverso dal nostro; riconoscimento delle responsabilità storiche dell'Occidente... Scrive Jeremy Rifkin in un libro recente (2004, p. 386): "Oggi gli americani consumano più di un terzo dell'energia mondiale e quote ingenti delle altre risorse della terra, pur essendo meno del 5% della popolazione mondiale". "Il sogno americano - aggiunge - è fortemente intriso di istinto di morte (...). Hanno costruito la più potente macchina bellica della storia dell'umanità per ottenere quello a cui ritengono di aver diritto. Purtroppo, il loro interesse si sta trasformando in egoismo puro: quella americana è diventata una cultura della morte" (p. 385). Bisognerebbe forse chiamarla incultura di morte, e credo che Rifkin accetterebbe di buon grado il suggerimento. C'è un lungo cammino da intraprendere per apprendere a riconoscere; riconoscere per riconoscersi. È questa è la sola via per dar tregua alle armi. Se in queste pagine rievochiamo le gesta di alcuni eroi omerici e profili femminili che diversamente si collocano rispetto al tema centrale del riconoscimento è per quell'esigenza di andare a placare nelle antiche gesta umane, anche nelle più estreme di una civiltà prevalentemente guerriera, lo strazio per questo presente interminabile che rende impotente ogni supplica di pace e di ragione ragionevole. | << | < | > | >> |Pagina 33Capitolo secondo
Eccessi
La vita non vale nulla, ma nulla vale quanto, la vita: è qui il paradosso del tragico. M. Maffesoli, Le retour àu tragìque Pentesilea, regina delle Amazzoni, figlia di Ares, dio della guerra (a sua volta figlio di Zeus e di Era), scese dalla lontana Tracia col suo esercito di amazzoni in soccorso di Priamo, dopo la morte di Ettore. Si distinse subito in battaglia uccidendo molti greci e più di una volta respinse Achille. Ma dopo molti assalti l'eroe greco la trafisse al seno destro (un particolare riportato solo da Grimal 1990). Per Graves invece, studioso inglese dei miti greci, Achille afferrò per i capelli Pentesilea e la tirò giù di sella, e mentre quella giaceva a terra morente, i soldati greci gridavano: "Getta in pasto ai cani quella virago affinchè sia punita per aver forzato la natura femminile" (Graves 1954, p. 634). Achille si innamorò del suo corpo luminoso, e si macchiò di necrofilia (p. 627). Avrebbe poi ucciso Tersite ("il più brutto"), che aveva schernito la sua passione smisurata. Heinrich von Kleist avrebbe poi capovolto gli esiti di quell'attrazione fatale sotto le mura di Ilio, esaltando, nella tensione romantica del suo secolo (la tragedia Pentesilea, in 24 scene, fu scritta nel 1880), i diritti della passione femminile. Il Romanticismo accentuò - com'è noto - l'aspetto tragico, il furore di vivere e morire. Pentesilea ama Achille, ma fraintendendo le sue intenzioni - una distorsione comunicativa legata all'asimmetria (che solo Proust seppe vedere come vantaggio] - lo uccìde e fa scempio del corpo dell'eroe: i baci si trasformano in morsi e il corpo viene voracemente divorato. Parola per parola (Wort fur Wort) ella fa ciò che gli amanti di ogni tempo, nel culmine della passione, dicono di voler fare: mangiarsi. L'assoluto passionale si esprime in un atto cannibalico: un trascendimento dell'umano. La regina amazzone ci pone così innanzi alla dismisura del pathos erotico. Il feroce scempio che consuma, a gara con i cani, sul corpo abbattuto di Achille, non è un oscuramento temporaneo della ragione, ma un suo stadio di cosciente delirio che la porta all'oltrepassamento. Eros e Thànatos del resto si coappartengono, e il primo, nei suoi spasimi, è già smisuratamente fuori dalla ragione. Attraverso il divoramento Pentesilea cerca un'impossibile identificazione totale. L'esaltazione della dismisura le impedisce di comprendere il significato del suo atto e infatti si stupisce - subito dopo - del suo gesto, tanto da negarlo. | << | < | > | >> |Pagina 52Privo dei divieti del rito, il desiderio si apre, e con esso la scelta illimitata, anche se proprio in questa illimitatezza scattano trappole di illusorietà e frustrazioni. L'ampiezza del desiderio, i suoi sconfini, dilatano artificialmente il campo di proiezione del possibile, che fissa mete sempre più lontane alle nostre possibilità. La caduta delle differenze giuridico-formali delle democrazie liberali abbatte ogni discriminazione tra chi può e chi non può, e ci consegna docilmente al mercato, che amplifica a dismisura gli oggetti di desiderio, offrendo insieme la possibilità di soddisfarli. Desiderare e realizzare i propri desideri diventa anzi il criterio su cui in generale si basa la valutazione del successo personale, il modello etico dominante. I sistemi democratici che volessero prendere sul serio il principio di uguaglianza si troverebbero a dover gestire le conseguenze di una perdita delle differenze, in cui ciascuno si costituisce come modello e rivale al contempo; campo perciò di infiniti risentimenti, di una "disposizione attiva e mimetica" che per Girard può assumere forme diverse.Del risentimento Girard fa una chiave d'interpretazione della modernità, descrivendone tre tipologie: l'individuo solipsista, l'anticonformista e il minimalista. Nel primo il risentimento è rivolto verso la società, accusata di non accogliere le legittime ambizioni individuali: il non-riconoscimento del mio ruolo, valore, status, ecc. Entra in scena lo sguardo: la vista, perché sempre il desiderio è connesso al vedere qualcosa. Il solipsista sceglie la solitudine, ma ciò che davvero gli preme è esser visto. Nell'anticonformista invece, il risentimento nasce dal vedere gli altri come rivali che ci umiliano e offendono. Trasformando l'altro in ostacolo, alimentiamo in lui il rivale e in noi il risentimento. Nel terzo caso - il mimetismo - il tentativo di negazione dell'altro approda all'autodistruzione, nella disperata anoressia, un disturbo tragicamente diffuso; una tendenza che ha contaminato l'estetica e la cultura della modernità. Nell'arte, come nella scrittura, pittura, ecc. il minimalismo si esprime nella ricerca del "sempre meno" (Tomelleri, in trad. it. Girard 1976, p. 16). | << | < | > | >> |Pagina 61Economia delle passioni gioioseCi sta int'all'aria nu presentimento Damasio ci accompagna ora per la strada dei piaceri con la testimonianza di vita di Spinoza, ebreo sefardita, educato per necessità di vita a tenere nascoste le idee a causa di quel clima di persecuzione che divampò nell'Europa delle guerre religiose. Tempi difficili, non meno dei nostri. Tempi in cui nascondere le idee era un'esigenza per evitare persecuzioni. Cos'è di Spinoza che spaventava a tal punto i rabbini della sinagoga olandese da emettere contro di lui una doppia scomunica di esclusione perenne dalla comunità ebraica di Amsterdam? Quale fu la sua vera colpa? (Damasio 2003). Volendo insomma seguire Spinoza nei suoi ragionamenti, potremmo procurarci, se solo lo volessimo, ripetuti momenti di benessere mentale nell'agire quotidiano, nel contatto con altri, in quello spazio sociale in cui tutto è possibile e imprevedibile. Un certo allenamento all'imprevisto-imprevedibile si affida per lo più a un esercizio dello sguardo aperto; alla tolleranza partecipe al gesto e alle parole altrui, virtù laica che può garantirci grandi risultati nel vivere comune. L'intuito è essenziale: uno strumento raffinato che ci consente di prevedere e pre-venire: un insight dello stupore; una conoscenza di livello superiore che l'esperienza affina. La soluzione di Spinoza, insomma, sta nel rovesciare le emozioni negative, nel momento stesso in cui si annunciano, trasformandole in esperienze positive; trasformare la rabbia, la paura, la tristezza, la gelosia nel loro contrario: un potere della mente sui processi emozionali, sui loro meccanismi, che in gran parte dipende dalla scoperta delle loro cause. Il buddismo tibetano ha affinato le tecniche di rovesciamento delle emozioni negative in forze positive della mente (si veda ora Dalai Lama, Goleman 2003). Spinoza ha qualcosa a che vedere con quella tecnosofia quando vuole sostituire agli stimoli naturali stimoli ragionati. In tal modo si qualifica - dice Damasio - come un immunologo della mente che vuol farci guadagnare il premio esclusivo di chi pratica quell'arte. Il premio è la libertà, intesa come sottrazione alla dipendenza dei bisogni emotivi che ci rendono schiavi. | << | < | > | >> |Pagina 75Capitolo terzo
Accessi
Calipso, la dismisura Prendere senza illusioni, lasciare senza rammarico. Marco Aurelio, Colloqui con se stesso, Vili, 33 Per sette anni Calipso, la nasconditrice (ma anche la nascosta), riuscì a tenere con sé Ulisse nella grotta protetta che dominava la baia di Ramla Hamra, nell'isola arsa di Gozo che Omero denomina Ogigia, ponendola in un luogo indefinito e immaginario del Mediterraneo, di difficile accesso e di incerta collocazione. Storici, geografi, scrittori, artisti di ogni arte e viaggiatori di ogni tempo si sarebbero poi appassionati a fissarne l'esatta ubicazione. La difficoltà di Ermes a raggiungere l'isola per comunicare le decisioni supreme degli dèi legittimò varie congetture. Strabone la pose decisamente nell'isola di Gozo, a nord di Malta e a sud del capo Passero, sull'estremità sud-orientale della Sicilia, ma Plinio la riconobbe in una delle isolette che sono di fronte al capo delle Colonne, all'estremità sud-ovest del golfo di Tarante. A Gozo la pose pure Fénelon, che riprese la storia di Calipso nel suo romanzo pedagogico Les aventures de Thélémaque. Quelle sorgenti che bagnavano i prati prima di perdersi nel mare, quei larghi canali che si sbizzarrivano nella campagna, quel giardino di oleandri dove l'Ulisse dormiente apprese la decisione di dover proseguire il suo viaggio, esistono ancora a saperli cercare, o solo immaginare per come furono, sull'isola di Gozo. Ma i viaggiatori, alla ricerca delle bellezze del mondo antico, non ne vennero a capo. Victor Bérard, ad esempio, seguendo le rotte dei marinai fenici fissò quel nonluogo tra il continente africano e la Spagna, in un'isoletta oggi chiamata Péréjil. L'isola apparteneva oramai al mito più che alla geografia omerica, e solo la poesia poteva ridarle vita. Quel nome un po' magico non poteva che folgorare Proust, il quale nella Recherche lasciò a briglia sciolta la fantasia, colorando l'isola con l'intensità del suo mare profondo. I geografi, gli archeologi - dice Proust - ci conducono nell'isola di Calipso per vie diverse, ma ciò che importa davvero è l'incontro con gli elementi mitici della "cristallizzazione amorosa" (Macchia 1997): il commercio umano col divino; l'accesso all'inaccessibile; il gusto di un rapporto asimmetrico cullato nell'intensità del desiderio; l'emozione di un prologo in cui occhi sorridenti di dèa, raggi di un altro universo, incrociano gli occhi di un umano. Mito e realtà che si confondono. Anche Vico fu colpito dalla storiola omerica, come già lo era stata l'intera tradizione umanistica (Petrarca, Poliziano), e aggiunse notizie sulla vera ubicazione dell'isola Ogigia, posta nel mare Fenicio, ritenendo che quantunque alato, difficilmente il dìo messaggero pervenne nell'isola di Calipso (Vico 1744,1,1, GG, 422). La ninfa, insomma, rimase completamente tagliata fuori dall'informazione, e quando le venne notificata la decisione suprema si convinse ad apparecchiare per l'eroe i legni più forti, aiutandolo a mettere in mare con le sue stesse mani quella zattera che lo avrebbe allontanato per sempre da sé. Dall'altura protetta di Gozo la semidea aveva potuto vigilare per sette anni l'intero specchio di mare della baia, difendendola con gli occhi da intrusi e nemici. Dal mare, elemento periglioso di mutamento, temeva il pericolo che invece le sarebbe venuto dal cielo. | << | < | > | >> |Pagina 103L'amore è pur sempre la migliore forma di riconoscimento infinito dell'altro nella sua irriducibile differenza. Calipso è la figura che più ci lascia intravedere questa logica superiore della rinuncia di sé: quel negare se stessa per Odisseo è possibile grazie alla conquista di una forte autonomia, forgiata in anni di solitudine in un'isola di nascondimento e di attesa. Pentesilea, e la stessa Penelope, non ne furono capaci, opponendo al mancato riconoscimento - vissuto come affronto e offesa - misconoscimento e disconoscimento.La possibilità di sacrificarsi per il bene dell'altro presuppone una matura autonomia dell'individuo: solo dopo aver riconosciuto la responsabilità verso l'essere autenticamente se stessi - che per i grandi mistici del Seicento si spingeva fino al cupio dissolvi, e si esprime oggi in forma di abnegazione-servizio nelle tante isole di sofferenza che i conflitti hanno aperto - si può davvero decidere di anteporre, alla propria, la realizzazione dell'altro. Dalle persone ai popoli, ai sistemi giuridici, a un'etica per il tempo globale: altre pagine, altri autori si sono misurati con queste dimensioni più grandi ma concentriche, che possono affermarsi solo se nell' oikos primario saremo cresciuti in un clima di fiducia, di riconoscimento del limite, ossia tra quegli eccessi di cultura che instaurano il rispetto delle differenze come regola del vivere. Attorno alle culture c'è forse un eccesso di attenzione e l'enfasi maggiore che viene posta sulle loro radici profonde porta a una crescente attenzione sul locale e i localismi, "gonfiati" di aspirazioni globali (Aime 2004, p.4). Non vogliamo entrare qui nel complesso problema dell'identità e del rapporto con le tradizioni, che merita ben altro spazio e considerazioni, ma concludere queste pagine segnalando che ancora una volta l'iniziativa di moderare gli eccessi è lasciata alla più debole delle scienze sociali, in grado tuttavia di attivare quella comunicazione di persuasione che nel lungo periodo crea l' habitus al controllo di ciò che lusinga e minaccia dall'esterno. Stiamo parlando dell'educazione, un laboratorio di ricerca e produzione di anticorpi contro l'egoismo smanioso, l'affermazione di un sé contro gli altri. Ricollocando il sé tra gli altri, l'educazione corregge se stessa e si affida all'autoeducazione; varca i limiti di un millenario monoteismo educativo che ha costruito il noi, anzi l'io in competizione antagonistica con tutti gli altri, e si afferma come capace di trarre dal patrimonio cognitivo del Sapiens le soluzioni per trasformare il conflitto in crescita dell'insieme. È questa l'arma intelligente da costruire.
L'investimento in educazione, che nella sua radice anglosassone è
inequivocabilmente istruzione (Santoni Rugiu 2005) resta un buon investimento.
Perciò, se hai due soldi...
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