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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Ingrid Salvatore 7 Identità, povertà e diritti umani di Amartya K. Sen 13 Per una politica estera dei diritti di Piero Fassino 33 Diritti umani e diversità culturale di Sebastiano Maffettone 47 Note 89 |
| << | < | > | >> |Pagina 7[...] L'identità collettiva è definita dall'appartenenza a qualcosa. Si può avere un'identità collettiva cioè solo se è condivisa con altri. Se siamo il solo tifoso della Nazionale italiana di baseball non abbiamo un'identità collettiva. Ma se siamo membri della tifoseria della Roma o della Juventus allora sì abbiamo un'identità collettiva, definita da qualcosa che è più grande di noi e ci comprende. Ma che rapporto c'è fra l'identità di un individuo e l'identità collettiva? E che rapporto c'è fra l'identità collettiva, l'essere noi parte di un sistema di valori, tradizioni e cultura, e nozioni tipicamente individualistiche, come è quella di diritti umani? È possibile sostenere diritti umani validi per ciascun individuo universalmente anche in presenza di identità collettive differenti? E questo in che modo si correla alle condizioni economico-sociali in cui individui e gruppi si trovano? Di questo si è parlato al convegno «I diritti umani fra identità e povertà» – da cui prendono le mosse gli interventi pubblicati in questo libro – organizzato dall'associazione Humanity e dalla rivista Filosofia e Questioni Pubbliche, che si è tenuto a Roma il 19 gennaio 2006. Al convegno sono intervenuti, tra gli altri, Amartya Sen, Piero Fassino e Sebastiano Maffettone, i cui saggi qui pubblicati costituiscono il nucleo centrale. Si tratta di un tema, o di un insieme di tematiche, al centro degli interessi di Filosofia e Questioni Pubbliche e coerente con il progetto essenziale di Humanity, l'associazione per i diritti umani, fondata da Piero Fassino e Sebastiano Maffettone. L'associazione Humanity, credo di poter dire, intende promuovere un accordo sempre più ampio sui diritti umani, e gli strumenti politici necessari per il raggiungimento di tale scopo, alla luce di due considerazioni. La prima è che la natura dei diritti umani, la loro difesa, la loro legittimazione, la loro implementazione, sono tutte questioni che sollevano problemi, la cui soluzione ha almeno anche natura teorica. Non è vero che per i diritti umani più che parlare bisogna fare. È vero il contrario. Che vale la pena parlarne e provare a chiarire fino in fondo di cosa si tratti, perché questo è il modo migliore che abbiamo per capire come applicarli, come difenderli, come garantirli. L'intreccio con la questione dell'identità mostra a sufficienza che la natura peculiare dei diritti umani e la via migliore per la loro difesa è una questione lungi dall'essere definita e il cui chiarimento può giocare un ruolo cruciale sul successo della loro diffusione. Per questo Humanity nasce come una associazione-ponte fra l'accademia e la politica, nel tentativo di imparare dai successi e dai fallimenti, tanto teorici quanto politici, a fare di più e meglio. | << | < | > | >> |Pagina 131. L'idea di diritti umani non solo è molto potente, ma tende anche ad avere una immediata risonanza ogniqualvolta le persone possono pensare ad essa liberamente. C'è qualcosa che attrae in profondità nell'idea che ogni persona in questo mondo, a prescindere dalla cittadinanza o dal luogo in cui si trovi, abbia alcuni diritti fondamentali che gli altri devono rispettare. Il richiamo morale dei diritti umani è stato utilizzato per diversi scopi, dall'opposizione alla detenzione arbitraria e alla tortura, all'impegno contro la povertà, la fame e la mancanza di assistenza sanitaria. Dalla Cina all'Italia, dal Sudafrica alla Gran Bretagna, dal Pakistan agli Stati Uniti non esiste paese al mondo in cui il dibattito politico contemporaneo non sia stato attraversato, una volta o l'altra, da discussioni riguardanti i diritti umani. In ogni caso, nonostante il suo eccezionale richiamo, l'idea dei diritti umani viene spesso considerata intellettualmente fragile – priva di fondamenta. Poiché i diritti umani vengono considerati precedenti, anziché successivi, ai diritti legali, si è ripetutamente sollevata la domanda: che cosa giustifica la rivendicazione di diritti umani? È più che semplice retorica – più che una mongolfiera piena d'aria calda. La dichiarazione francese dei «diritti dell'uomo» (1789) – contestuale alla Rivoluzione francese – con l'asserzione che tutti gli esseri umani «nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti», fu una potente affermazione dei diritti umani, ma pochi anni dopo fu presto seguita dalla veemente critica che le rivolse Jeremy Bentham nel pamphlet intitolato Anarchical Fallacies, scritto tra il 1791 e il 1792. «I diritti naturali – dichiarò Bentham – sono un semplice nonsense: diritti naturali e imprescrittibili (una frase coniata in America) sono un nonsense retorico, un ampolloso nonsense». Quella divisione rimane viva ancor oggi, e molti considerano l'idea dei diritti umani come «schiamazzi scritti», identificando così le rivendicazioni dei diritti umani naturali come nulla di diverso dal gridare con carta e penna. È certamente vero che l'uso frequente del linguaggio dei «diritti di tutti gli esseri umani», che si può ritrovare in molte discussioni e asserzioni, non è stato affiancato a sufficienza da uno scrutinio critico delle basi e della congruità dei concetti sottostanti. Ciò è accaduto, almeno in parte, perché chi invoca i diritti umani è più interessato – per usare una classica distinzione sottolineata da Marx – a cambiare il mondo, che a interpretarlo. La difficoltà riguarda a un certo livello i diritti umani in generale, ma si lega con forza maggiore ad alcune rivendicazioni che vengono considerate particolarmente vaghe, come quelle dei cosiddetti diritti economici e sociali. Questi diriti sono stati aggiunti di recente alla più antica lista di diritti che ci proviene dalle dichiarazioni settecentesche; essi vengono ogni tanto chiamati diritti di «seconda generazione», tra i quali è incluso il diritto umano all'alleviamento della povertà. Per quanto mi riguarda, ho provato a difendere un particolare approccio alla comprensione dei diritti umani, specialmente in un saggio del 2004 intitolato «Elements of a Theory of Human Rights». Chiarirò brevemente il senso principale di tale approccio, dopodiché cercherò di applicarlo alle specifiche questioni che mi è stato chiesto di affrontare in questa sede, relative all'identità e alla povertà. La mia tesi è che i diritti umani possono essere meglio inquadrati come articolazioni di un impegno nell'etica sociale, comparabile – benché profondamente differente – all'accettazione del ragionamento utilitarista. Come altri principi etici, senza dubbio anche i diritti umani possono essere messi in discussione, ma la pretesa è che essi sono in grado di sopravvivere a un esame aperto e informato. L'universalità che queste rivendicazioni hanno dipende dalla loro capacità di uscire indenni da una libera discussione. Come ha sostenuto John Rawls, l'oggettività di un'etica sociale o politica può essere considerata nei termini della sua capacità di essere sostenuta da «un impianto di base pubblico [che possa] rendere conto dell'accordo fra agenti ragionevoli nel giudicare». Questo è un buon punto di partenza per i diritti umani, ma il mio disaccordo con Rawls riguarda la sua insistenza nell'applicare il suo test dialettico esclusivamente all'interno di ogni società o nazione (ciò che egli chiama un «popolo») presa separatamente dalle altre, e non globalmente. La mia pretesa è più ambiziosa, perché lega i diritti umani alla loro capacità di sopravvivere a una discussione pubblica e aperta, caratterizzata da un'adeguata disponibilità di informazioni e di opportunità di dibattito, in qualunque parte del mondo. A rigore, il mio approccio è quindi più vicino alle linee di ragionamento proposte da Mary Wollstonecraft in due opere pubblicate nel XVIII secolo, A Vindication of the Rights of Men e A Vindication of the Rights of Women. Prima di proseguire, devo chiarire un punto. La retorica dei diritti umani a volte viene applicata a legislazioni particolari ispirate all'idea di diritti umani. Evidentemente, non è molto difficile notare l'ovvio status giuridico di questi titoli già legalmente validi. Indipendentemente da come questi titoli sono chiamati («leggi sui diritti umani» o in un qualche altro modo), essi stanno spalla a spalla con altre legislazioni ufficiali. Fin qui, non c'è nulla di particolarmente complicato. La domanda, semmai, è se così si esaurisce la questione dei diritti umani stessi; ovvero: essi diventano reali solo quando trovano espressione legislativa? Io sostengo un approccio ai diritti umani non legalmente, ma eticamente fondato. La relazione tra legge e diritti umani richiede un'analisi più circostanziata. Distinguerò fra tre differenti tipi di nessi, in particolare fra diritti umani (a) post-legali, (b) proto-legali, (c) ideal-legali. Sosterrò che, benché questi nessi possano essere contingentemente importanti (ci possono aiutare ad approfondire una comprensione etica dei diritti umani e delle loro implicazioni), essi non riescono – né individualmente né nel loro insieme – a rendere giustizia della natura e dell'uso dei diritti umani. Ciò che sosterrò è che abbiamo bisogno di considerare i diritti umani all'interno di un'arena molto più vasta, di cui la motivazione legale, la legislazione reale e il vincolo giuridico formano solo una parte. | << | < | > | >> |Pagina 285. Vengo dunque al difficile argomento del rapporto tra identità e diritti umani. Devo però fare attenzione a non dilungarmi troppo, perché sto per pubblicare con Norton negli Stati Uniti, Penguin nel Regno Unito, e Laterza in Italia, un libro su un argomento correlato: Identity and Violence: the Illusion of Destiny. Gli avvenimenti violenti e le atrocità degli ultimi anni ci hanno introdotto a un periodo di terribile confusione e di spaventosi conflitti nel mondo. La politica del confronto globale viene spesso considerata come un corollario delle divisioni religiose o culturali. Anzi, il mondo viene sempre più considerato, anche se solo implicitamente, come una federazione di religioni e di civiltà, ignorando di conseguenza tutti gli altri modi in cui le persone percepiscono se stesse. Alla base di questa linea di pensiero è la bizzarra presunzione che gli individui possano essere classificati univocamente in base a un qualche sistema di classificazione singolare e onnicomprensivo. Una classificazione della popolazione mondiale per civiltà o per religioni porta con sé un approccio all'identità umana che possiamo definire «solitarista», ovvero un approccio che considera gli esseri umani come appartenenti a un unico particolare gruppo (in questo caso definito in base alla civiltà o alla religione, a differenza di altre divisioni un tempo più comuni, che si basavano sulla nazionalità o la classe sociale).Un approccio solitarista non solo nega agli individui il diritto di scegliersi la propria identità, ma può anche essere un ottimo modo di non capire praticamente nessuno al mondo. Nelle nostre vite normali, noi ci percepiamo come membri di molti gruppi, e apparteniamo a tutti quanti contemporaneamente. Il medesimo individuo può essere, senza che in ciò vi sia contraddizione, un cittadino italiano, di origini malesi, con antenati cinesi, un cristiano, un liberale, una donna, un vegetariano, un mezzo-fondista, uno storico, un insegnante, un romanziere, un femminista, un eterosessuale, un sostenitore dei diritti di gay e lesbiche, un patito del teatro, un ambientalista, un appassionato di tennis, un musicista jazz, e uno che crede fermamente che nello spazio profondo vivano esseri intelligenti con cui è assolutamente urgente comunicare. Ognuna di queste collettività, cui questo individuo appartiene simultaneamente, gli conferisce una particolare identità. Nessuna di esse può essere considerata la sua unica identità, o l'unica categoria di cui fa parte. Data la nostra inevitabile identità plurale, dobbiamo decidere di volta in volta qual è in un determinato contesto l'importanza relativa che diamo alle nostre differenti associazioni e affiliazioni. Centrali nella condotta della vita umana, quindi, sono le responsabilità di scelta e di riflessione; esse possono essere considerate come dei diritti ma anche come dei doveri. Al contrario, la violenza trova spazio quando coltiviamo un senso di inevitabilità a proposito di una presunta unica – e spesso belligerante – identità che ci caratterizzerebbe, e che a quanto pare avanza nei nostri confronti molte pretese (a volte particolarmente spiacevoli). L'imposizione di una presunta identità singolare è spesso una componente determinante dell'arte tipicamente marziale di fomentare un confronto fazioso. A un hutu che viene istigato a uccidere i tutsi si chiede di considerare se stesso solo come un hutu, e non anche come un ruandese, un africano, o un essere umano, identità condivise anche dai tutsi. I terroristi islamici prosperano negando le molte affiliazioni proprie di un individuo musulmano, in favore della sola identità islamica. Sfortunatamente, molti tentativi per fermare questa violenza, benché intrapresi in buona fede, sono nello stesso tempo ostacolati dalla percezione che non ci è possibile scegliere le nostre identità, e ciò può seriamente danneggiare la nostra capacità di sconfiggere la violenza. Quando le speranze di buone relazioni tra gli esseri umani vengono considerate – e lo sono sempre di più – primariamente in termini di «amicizia tra le civiltà», oppure di «dialogo tra gruppi religiosi», o ancora di «relazioni amichevoli tra comunità diverse» (ignorando i tantissimi modi tra loro differenti con cui le persone entrano in relazione le une con le altre), allora vuol dire che una preoccupante miniaturizzazione degli esseri umani inficia i programmi per la pace. Quando le molteplici divisioni presenti nel mondo vengono unificate in un presunto sistema di classificazione dominante – in termini di religione, comunità, cultura, nazione, civiltà, trattando di volta in volta ognuno di questi fattori come l'unico determinante nel particolare approccio al problema della guerra e della pace delineato qui sopra – la nostra condivisa umanità viene brutalmente sfidata. Un mondo suddiviso secondo questo schema univoco è molto più propenso a frazionarsi rispetto all'universo delle molteplici e differenti categorie che formano il mondo in cui viviamo. Non solo va contro il vecchio adagio che «gli esseri umani sono tutti uguali» (un adagio che ai giorni nostri viene spesso ridicolizzato – non senza ragione – per essere un po' troppo ingenuo), ma va contro anche la meno discussa e molto più ragionevole presa di coscienza che siamo differenti diversamente. La speranza di poter vivere in armonia nel mondo contemporaneo poggia in grande misura su un più chiaro riconoscimento della pluralità delle identità umane, e sulla comprensione del fatto che si intersecano le une con le altre e che dunque si pongono in antitesi a una netta separazione lungo una singola e invalicabile linea, segno di una impenetrabile divisione.
L'identità richiede il riconoscimento della diversità delle affiliazioni e
della storia umane, ed esige la libertà di scegliere come uno voglia condurre la
propria vita, secondo le proprie decisioni, senza essere rinchiuso in una
piccola casella da altri che vogliono semplificare il mondo, e che ci fanno fare
molte cose che avremmo buone ragioni di non voler fare – dall'essere uno
sciovinista occidentale all'essere un terrorista islamico. Questa, tra altre
cose, è una questione fondamentale del diritto umano, e negare il nostro diritto
alla nostra identità non solo è una negazione dell'importanza della libertà
umana, ma è anche un modo per andare verso un mondo di contrapposizioni
singolariste che ci stanno trascinando sempre più in una condizione di violenza
e ferocia endemiche.
L'etica sociale ha un ruolo importante nell'arrestare questo declino e
nell'opporsi alle basi intellettuali del terrorismo e della violenza, inclusa la
violenza esercitata in nome della lotta al terrorismo. L'idea dei diritti umani
può aiutare ad acquisire coscienza del diritto delle persone di scegliere le
proprie priorità come esse stesse preferiscono, e non come preferiscono gli
istigatori al terrorismo o gli strateghi militari. Forse questa è una voce
ulteriore che si aggiunge a quelle ordinariamente annoverate fra i diritti
umani, ma la sua importanza, nel mondo spaventoso e caotico in cui viviamo, è
sempre maggiore. Il diritto alla scelta delle nostre affiliazioni e identità è
davvero uno dei più importanti diritti umani.
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