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| << | < | > | >> |Pagina 7Ciweek ciweek... Un rumore sottile ma insinuante continua a stridermi nelle orecchie. Ciweek ciweek... Non cessa. È molto vicino, sembra provenire da sotto di me. Per un momento penso di essere io stesso a emetterlo. Chissà, mi dico, ormai sono vecchiotto, saranno le mie articolazioni che iniziano a scricchiolare. Ciweek ciweek... È un pensiero stupido. Non tanto perché non sia vero che non sono più un giovanotto, quanto perché le articolazioni non possono scricchiolare, visto che sono fermo e seduto. Anche se le porte e le pareti del corridoio mi scorrono ai lati come quando si è in movimento. Il ciweek ciweek continua. A intermittenza, però continua. Mi dà fastidio perché sa di roba vecchia, di ruderi con porte dai cardini arrugginiti. Mi dà fastidio perché è fuori posto. Qui è tutto nuovo, tirato a lucido. Lucide le porte e le loro belle targhette di plastica con su un numero o la sigla DOTT. seguita da nomi che non faccio a tempo a leggere. Smaltate di fresco le pareti, color pastello il soffitto, luminosa ma morbida la luce delle lampade eleganti e liscio come una carezza il linoleum che riveste il pavimento su cui sto avanzando come su un nastro trasportatore. Ciweek ciweek è un suono abusivo, indesiderato, un clandestino che si è infiltrato in questo luogo ovattato dal quale ogni rumore molesto dovrebbe essere bandito. Da dove cazzo viene? mi domando sempre più stizzito, perché il cigolio che mi segue ostinato mi costringe a pensare. E io non ho voglia di pensare né al luogo in cui mi stanno portando né al perché. Pensare è una malattia cronica, un'ossessione dell'anima. Mi ero fermamente deciso a prendere una vacanza dal pensare, quando stamattina presto sono entrato qui. A lasciarlo fuori, insieme alla giornata uggiosa di pioggerella che mi ha accompagnato fino all'ingresso della clinica. E ora... ciweek ciweek. Il cigolio mi artiglia il cervello. «Ma cos'è questo rumore?» Stavolta non è un pensiero, sono parole fatte di voce. Devo torcere il collo per voltarmi verso il portantino che, alle mie spalle, sta spingendo la sedia a rotelle su cui sono seduto. «E che vuole che sia, dottò?» mi risponde lui con tono annoiato. «Sarà un giunto della rota. Se vede che se so' scordati de mettece l'ojo.» E a mezza palpebra mi lancia uno sguardo con su scritto un "Anvedi sto rompicojoni!" aggiuntivo. «Visto? Avevo ragione a non volerci salire» borbotto, giusto per non dargli la soddisfazione dell'ultima parola. E all'improvviso, senza che io l'abbia consapevolmente evocata, una voce infantile arriva nella mia mente a coprire il rumore della ruota. Anzi, ho l'impressione che il rumore cessi un attimo prima per farle posto. È una voce fresca, con un timbro pacato, solo leggermente amaro. Strana in un ragazzino. La sento nitidamente, quasi non provenisse da un ricordo. Come se le parole che pronuncia non fossero solo l'eco di parole che ho ascoltato in un altro luogo, in un altro tempo. «Thank you, it ís a beautiful bicycle» dice Ali, e io rivedo un riflesso della gioia che aveva scintillato nei suoi occhi neri, fendendo per un attimo la patina di sottile malinconia che in genere gli velava lo sguardo. Ali contemplava la sua bicicletta nuova fiammante e si capiva che moriva dalla voglia di provarla, ma non voleva rovinare con la fretta la piccola cerimonia della consegna che gli infermieri avevano improvvisato per lui. Era stato Fahrid, il più anziano di loro, a costruire la bicicletta. Adesso, davanti al bambino e al gruppetto dei colleghi, la spingeva avanti e indietro sorridendo orgoglioso. Non era come quelle massicce e pesanti che Ali aveva sempre visto circolare sulle strade sterrate del suo villaggio, dove uomini intabarrati si affannavano sui pedali tentando di scansare buche, passanti e bestie – capre, asini, galline – che affollavano i vicoli stretti tra le abitazioni di fango secco... D'inverno il loro fiato si trasformava in nuvolette di fumo, rendendoli simili agli animali mitologici delle antiche leggende che gli era capitato di ascoltare dalla voce di qualche anziano. No, non era come quelle, era molto più bella ed era sua. Lui non era mai salito su una bicicletta, non ne aveva mai avuta una. «Thank you, thank you, it is beautiful» ripete a Fahrid allargando con lo sguardo i suoi ringraziamenti agli altri infermieri. Si erano tutti affezionati ad Ali. Non soltanto perché era uno dei bambini che da più tempo vivevano nell'ospedale, ma anche per i suoi modi sempre gentili, per la sua intelligenza attenta, pronta. La stessa che ora lo portava a parlare inglese perché il suo "grazie" arrivasse anche agli infermieri non afgani. L'inglese Ali lo aveva imparato in ospedale, insieme a qualche frase in italiano. Tra il personale c'erano molti italiani, e a lui piaceva stupirli parlando la loro lingua. Il suo desiderio di avere una bicicletta, Fahrid lo aveva intercettato un giorno, per caso, perché Ali non era un bambino abituato a chiedere. Era bastato uno spezzone di frase che aveva colto passando in corsia. «... Una bicicletta, vorrei una bicicletta» stava dicendo Ali a un altro piccolo ricoverato, forse mentre giocavano a scambiarsi sogni. E in quel momento a Fahrid era venuta l'idea. Oltre che un infermiere, in fondo, era anche un buon meccanico. Se solo la guerra ci desse una pausa, aveva pensato mentre già immaginava il progetto per costruirne una adatta ad Ali, che non poteva pedalare perché le sue gambe erano morte. Uccise dallo scoppio di una mina. Non era stato semplice: le pause della guerra erano brevi, anzi, in Afghanistan la guerra non smetteva mai, a una guerra se ne sovrapponeva sempre un'altra ancora più micidiale, e l'ospedale si riempiva di grida e di sangue che bisognava lavar via dai pavimenti. Quello era l'unico ospedale in tutto il Nord del paese, e i rivoli di dolore che non si perdevano tra le rocce e la terra asciutta convergevano tutti lì, come affluenti in un lago. Ma Fahrid c'era riuscito. Aveva trovato i pezzi sottraendoli alla carcassa di qualche vecchia bicicletta di fabbricazione cinese: i perni, la corona, la catena... Per assemblarla aveva lavorato di notte, in casa sua, alla luce tremolante della lampada a petrolio. E alla fine eccola pronta: l'aveva persino verniciata di un bel rosso vivo, la bicicletta per Ali. Con i pedali ai due lati della sedia a rotelle. Pedali veri che il ragazzino avrebbe potuto azionare con le braccia. Non cigolavano, le ruote della bicicletta di Ali. Cerco di distaccarmi da quel ricordo afgano che mi ha preso così alla sprovvista. Lo faccio con un po' di fatica e una sensazione quasi di fastidio. Non mi va che le immagini, le emozioni, i suoni e i silenzi chiusi nei depositi sotterranei della mia memoria si mettano a scorrazzare nel presente come se ne fossero i padroni. Mi volto di nuovo verso il barelliere dietro di me per spiarne l'espressione, spinto dall'assurdo sospetto che in qualche modo misterioso sia riuscito a sbirciare nel mio film interiore e a rubarne dei fotogrammi. Non mi piace, questo portantino, mi spinge come fossi la spesa di una massaia nel carrello del supermercato. Tuttavia mi rassicura constatare che la sua faccia è annoiata e indifferente come prima. Nessun segno di colpevolezza. | << | < | > | >> |Pagina 27Con un singulto strozzato di crepuscolo, Baghdad passava dalla notte del giorno alla notte della notte. Nelle ore diurne il suo cielo era buio per il fumo dei palazzi in fiamme e del petrolio bruciato nei cento canali scavati alla periferia nel vano tentativo di celare la città ai sensori dei missili, di nasconderla, come nella nebbia di sabbia portata dal vento del deserto, nelle dense e oleose volute che si sprigionavano dal combustibile incendiato. Il buio della notte, invece, era un'oscurità ancestrale. Perita ogni luce artificiale con la distruzione delle centrali elettriche, Baghdad era rischiarata qua e là soltanto dal chiarore rossastro e intermittente dei tanti incendi che la costellavano – primitivi falò di una moderna preistoria. Ma quando il sole opaco e sbiadito dietro la cortina di fumo spesso tramontava, per me Baghdad era altrove, al di là delle mura alte sormontate da rotoli di filo spinato che cintavano il giardino della residenza diplomatica italiana, evacuata dal personale dell'ambasciata poco prima dello scoppio della guerra e divenuta ora la nostra abitazione e il nostro rifugio. Baghdad rimaneva fuori, con i suoi orrori, con le sue macerie, con i suoi cadaveri gonfi o carbonizzati abbandonati nelle strade, fuori con la sua disperazione. Rimaneva lontana per il tempo della notte, nonostante le mura non riuscissero a fermare il rumore secco degli spari incessanti e quello più sordo di qualche sporadica esplosione. Tra il frusciare leggero delle palme in giardino, smosse a tratti dal soffio di una ventata morbida, non mi vergognavo di godere il privilegio di una pausa di estraneità alla sua impietosa agonia. Arrivava alle orecchie anche l'invito del muezzin che, da un invisibile minareto, esortava alla preghiera della sera. Allora bastava chiudere gli occhi e ascoltare quella voce distante per ritrovarsi, anche se per poco, nella magia esotica della Baghdad delle favole. Per immaginarsi sotto un cielo dove a volare sono i tappeti, non i missili, e convincersi di riuscire a distinguere tra gli odori acri della distruzione quello dolce dei datteri maturi e quello forte e soave di misteriose essenze profumate. Perlomeno, a me questo riusciva. Forse perché mi aiutavo con un buon bicchiere di Chianti. La residenza dell'ambasciata era stata sicuramente abbandonata in fretta. Lo dimostravano i letti sfatti, un libro con tanto di orecchia alla pagina sul comodino, ma soprattutto la dispensa ancora stracolma di pacchi di pasta, barattoli di conserva di pomodoro e, appunto, bottiglie di ottimo vino. Un tesoro da mille e una notte in una città dove, eccetto la morte, mancava ormai tutto. Scioglievo nel sogno e nel vino i grumi delle immagini terribili che durante il giorno, nella realtà oltre il muro di cinta, si erano accumulate nelle mie pupille e, ancora più profondamente, nel mio animo. Quelle immagini ti si appiccicavano addosso, ti entravano nei pori della pelle, nel tessuto dei vestiti, nelle mucose del naso e nei polmoni, come l'aria satura di olio bruciato che respiravamo. Io, il medico umanitario Gino, l'infermiera volontaria Kate, il fotografo freelance Alberto e il tuttofare Carlo tentavamo di scrollarcelo di dosso con le risate, quando la sera cenavamo tutti assieme in una sala della residenza. Avevamo tutto, anche la luce, dono di un generatore e di una generosa riserva di carburante. Quell'abbondanza sembrava incredibile e ridicola, ci ubriacava più del vino, e allora ridevamo. Ridevamo per ogni minima stupidaggine, come bambini. E come bambini ci sforzavamo di ridere anche quando non ne avevamo voglia. Il riso come formula magica in grado di esorcizzare perfino l'orrore. Ma poi il riso si spegneva, dopo un ultimo fremito simile allo sfarfallio di luce delle lampadine quando il generatore esauriva la benzina. Era il momento in cui ognuno restava solo con il proprio silenzio e rispettava il silenzio dell'altro. Chi andava a dormire, chi saliva sul tetto piatto della costruzione a guardare ancora l'orrore velato dal buio, chi come me si portava il bicchiere in giardino e fissava lo schermo del muro di cinta, cercandovi figure diverse da quelle che incombevano dietro, in attesa del richiamo del sonno. Quando finalmente le palpebre si facevano pesanti, mi alzavo e raggiungevo la stanza al pianoterra. Camminavo a passi lenti, come se la sonnolenza che mi aveva raggiunto fosse fatta di sabbia fine e io la tenessi fra le mani a scodella, con la paura che potesse sfuggirmi tra le dita disperdendosi in una sottile scia di polvere. Il letto si trovava accanto a una grande finestra con i vetri crocifissi da larghe strisce di nastro adesivo marrone, per salvarli dallo spostamento d'aria di eventuali esplosioni vicine. Prima che vi arrivassimo noi, una bomba forse di mortaio era caduta nel giardino e ora, al posto della voliera che aveva colpito, nel terreno si apriva un cratere circondato da tralci contorti di rete di ferro.| << | < | > | >> |Pagina 91Vorrei raccontare altre storie a Filippo per farlo rimanere qui. La sua presenza fa stare a cuccia il cane nero. Mi rassicura, tanto che non provo più imbarazzo per come sono vestito, anzi per come sono svestito. Ma lui si alza dal divanetto.«Ora bisogna che vada» mi dice. «Ci vediamo tra un po'...» Mi strizza l'occhio e aggiunge: «... In sala operatoria». Sala operatoria. All'udire quelle due parole boccheggio come un'orata. Gorgoglio qualcosa per salutarlo mentre se ne va. Accidenti, mi è passata la voglia di leggere. Prendo il libro dal letto dove lo avevo lasciato e lo poso sul comodino. Mi dispiace, signor Màrquez, dovrà avere la pazienza di aspettarmi, perché adesso non sono in vena di entrare tra le sue pagine. Tanto mi sa che qui dovrò restarci per un bel po', perciò avrò tutto il tempo per leggere. Mi distendo sul letto. Ho voglia di vuoto. Di un vuoto totale, pneumatico, dove non possano riecheggiare suoni e parole, nemmeno quelli del pensiero. Un vuoto che non lasci ossigeno al respiro delle sensazioni e delle emozioni, che soffochi anche l'ansimare del cane. Un vuoto che risucchi come in un buco nero la mia stessa percezione di essere. Ho sempre percorso la mia vita correndo come un dannato. Una corsa che non voglio fermare per non darmi mai il tempo di voltarmi indietro. Come se un altro me stesso mi inseguisse per bloccarmi in sfondi fissi, in paesaggi dell'animo che invece, se continuo a correre, mi scivolano rapidi accanto per scomparire subito alle mie spalle senza riuscire a catturarmi. Nel vuoto non esistono paesaggi. E lì che a volte – e questa è una di quelle – fantastico di trovare riposo. Per crearlo mi metto le mani dietro la nuca, riduco al minimo la frequenza del respiro e, gli occhi al soffitto, freno il battito delle palpebre in attesa che la stanchezza dello sguardo appanni la sua immagine già piatta e neutra fino a diluirne la materialità. Cerco l'assenza dall'essere e dall'essere stato. Il soffitto si fa sempre più inconsistente; come una navicella perduta nello spazio e fuori dal tempo la stanza è sul punto di perdere la forza di gravità, sento che sto per fondermi nel nulla, raggiungendo finalmente uno stato di totale assenza... quand'ecco che, galleggiando nel vuoto, compare uno stupidissimo cartellino. L'ho scritto io. Non posso non riconoscere la mia grafia un po' sbilenca. C'è scritto Torno subito. Come su quello del tabaccaio vicino a casa mia. Quello che appende alla vetrina d'ingresso della sua bottega ogni volta che va a scopare con la vedova del secondo piano del palazzo di fronte. E io devo restare lì come uno stronzo, in preda ai prodromi di una crisi di astinenza da nicotina, ad aspettare che quella specie di maniaco sessuale (sì, perché il cartellino Torno subito lo appende spessissimo) abbia finito di sfogare le sue voglie e ricompaia, con la faccia ancora paonazza e il sorriso trasognato da ebete felice, dicendomi: «Scusi, sono andato a farmi un caffè. È molto che aspetta?». Ogni volta vorrei dirgli: "Altro che caffè, brutto porco! La vedova, sei andato a farti. Certo che è molto che aspetto, testa di cazzo. Per uno come me che si fuma trenta sigarette al giorno e ha finito il pacchetto, anche cinque minuti senza poterne aprire un altro sono un'eternità, e tu mica vendi articoli da bricolage, vendi sigarette, coglione, roba per tossici, gente che non può aspettare. Dammele immediatamente o ti spacco la testa!".
Porca puttana, quanto mi fa incazzare quel tabaccaio mandrillo col suo
fottuto cartellino! E adesso mi vado a immaginare il
Torno subito,
per di più scritto
da me, proprio nel bel mezzo di uno splendido delirio
di fuga totale dal mondo? Merda, ma così il film perde
tutta la sua carica di drammaticità, il pathos scade nel
ridicolo! Non posso nemmeno prendermela con il tabaccaio, ma soltanto con me
stesso e col mio invadente
sarcasmo pavloviano, che non mi lascia vivere in pace
neanche i momenti di epica tragedia senza rompermi le
palle col suo umorismo stonato da avanspettacolo. Fanculo! In un istante il
soffitto torna a essere un soffitto,
la stanza una stanza, e io un bischero steso sul letto con
indosso una specie di camicia di forza da bebè. Tanto
vale alzarsi. Però lentamente, perché il cane nero inguattato sotto il letto si
dev'essere addormentato. Non
bisogna svegliarlo, altrimenti ricomincerà ad alitarmi
addosso il suo fiato pesante, pieno di paura. Giro piano
la maniglia d'ottone della porta-finestra e la apro senza
far rumore, quel tanto che basta per uscire sul balcone.
In una mano stringo il pacchetto di sigarette e l'accendino. Il cielo è ancora
grigio ma non piove più. Scopa la
tua vedova quanto ti pare, tabaccaio del cazzo, tanto di
sigarette me ne sono fatta una bella scorta prima di venire qui. Me ne infilo
una tra le labbra e la accendo. Il
fumo mi entra nei polmoni regalandomi una dolce sensazione di calore. Solo
interno, però, perché una zaffata
di freddo mi addenta quasi subito le chiappe lasciate
esposte alle intemperie dal mio ridottissimo baby-doll
ospedaliero. In effetti non è proprio un abbigliamento
adatto a stare all'aperto. Tanto più che, ora che mi
hanno depilato, non ho nemmeno più il mio vello per
proteggermi dal vento. Meglio succhiarsi svelto svelto
la sigaretta fino al filtro e poi rientrare prima che mi si
congelino anche le palle!
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