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| << | < | > | >> |Pagina 7Aveva la testa disabitata. Non un pensiero, non un'immagine, non l'eco della voce di uno spirito. Vuota, come una zucca secca alla quale fosse stata scavata via la polpa per farne un recipiente. Una zucca, quante volte aveva bevuto latte da una zucca svuotata. Così, giusto per riempire con qualcosa il vuoto nella testa, provò a ricordare. Ma il latte della memoria non aveva nessun sapore, né, tra le dita della mente, riusciva a percepire la consistenza liscia della ciotola di zucca. Così la lasciò scivolare, perché non poteva afferrarla. Rinunciò al ricordo. Da tempo, pensò, non era più padrone dei propri ricordi. Non che li avesse persi, solo che si erano sparpagliati, e non obbedivano ai suoi richiami; una mandria dispersa in una radura senza confini. A volte, da ragazzo, si divertiva a guardare la propria immagine riflessa sulla superficie immobile dell'acqua di una delle larghe pozze lasciate indietro dal grande fiume, rientrato nel suo letto dopo la stagione delle piogge. Faceva buffe smorfie, scoprendo i denti o gonfiando le guance, fino a quando, stufo del gioco, non colpiva l'acqua con il suo bastone ferendone l'uniformità e frantumandone il riflesso in mille piccole schegge, i cui colori venivano subito assorbiti dalle nuvole torbide del fango smosso. Ecco, i suoi ricordi erano così: schegge liquide, immagini scomposte di acqua e di fango. O almeno, lo erano quelli del prima. Del prima che fosse qui dove era adesso, in questo paese. Ci stava ormai da quasi cinque anni ed era come se uno spirito dispettoso si fosse divertito a spezzare in due il racconto del suo esistere. Una parte, quella di ieri, confusa tra l'acqua e il fango della sua terra; l'altra, quella dell'oggi, nitida, incastrata nell'asfalto e nei muri degli alti palazzi della città dove viveva. Era la prima parte quella che gli sfuggiva. Ogni giorno che passava si faceva sempre più incerta e lontana, labile come un sogno interrotto. Mentre la seconda era invasiva e prepotente, una presenza quasi ossessiva. Spesso aveva la sensazione di appartenere soltanto a questa, quasi che il suo passato avesse avuto inizio solo dal primo dei cinque anni trascorsi da quando era arrivato qui. Certo, ogni tanto, senza preavviso, qualche relitto della sua prima vita riemergeva in superficie dalla pozza fangosa, richiamato da un odore o da un suono. Galleggiava per un po' permettendogli di osservarlo e di ascoltare un brandello di storia, poi, così come era emerso, tornava a sprofondare. Nello stanzino in cui si trovava in questo momento non c'erano odori, a parte il suo, di cui era impregnato il lenzuolo stropicciato della branda dov'era coricato. Non c'erano suoni, tranne il ronzio incessante del tubo del neon, che era evidentemente sul punto di fulminarsi e proiettava la sua luce malata dalla porta socchiusa alla parete spoglia contro cui stava la branda. Né odori, né suoni, né ricordi. Svanita la ciotola di zucca, la testa vuota poggiata su un cuscino di gommapiuma con la federa sporca. Si strofinò la nuca rasata passandovi la mano e sentì sul palmo il pizzicore dei capelli irsuti che stavano rispuntando. Girò gli occhi sulla parete a fianco e vide, sullo strato di smalto grigio e scrostato che la ricopriva, la sua ombra, resa incerta dalla luce intermittente del neon in agonia. Si accovacciò sul letto con il busto rivolto al muro, e l'ombra crebbe di volume. Aprì le braccia e le incurvò ad arco, con le dita delle mani chiuse a punta e tese verso l'alto. Sulla parete gli apparve così la sagoma di un bue dalle grandi corna possenti. La figura fatta di ombra riempì per un lungo momento il vuoto della sua mente. Si fermò a fissarla. Il tremolio impresso dal neon produceva sui suoi contorni un effetto simile a quello dell'aria rovente nelle giornate torride d'estate. L'animale pareva avanzare lento e imponente verso di lui, attraverso le rifrangenze dense e ondulate delle vampate di caldo. Gli sembrava quasi di poterne sentire il fiato. Ma quello che giunse a sferzargli il collo nudo non era il calore del respiro bovino, ma il gelo tagliente di una corrente d'aria, soffiata dalla porta socchiusa. Abbassò le braccia per alzare il collo del maglione di lana, e il bue scomparve dalla parete. Si alzò per andare a chiudere la porta. Negli ultimi anni la callosità sotto le piante dei piedi si era ridotta, tanto che avvertì subito quanto era freddo e ruvido il pavimento di cemento. Si girò verso la branda, afferrò la coperta e se la appoggiò sulle spalle. Prima di chiudere, dette un'occhiata all'ampio garage sul quale si affacciava il suo stanzino. I musi di latta delle automobili allineate nei box luccicavano debolmente alla luce del neon. "Una mandria senza vita" pensò. Improvvisamente il cane si mise ad abbaiare roco, slanciandosi goffamente contro la saracinesca abbassata del garage. Lui sussultò, colto alla sprovvista dal latrare furioso. "Al solito" pensò. "Qualcuno sta passando davanti al garage per i fatti suoi e questa stupida bestia si sente in dovere di dimostrare il suo valore di cane da guardia." Gli abbai rimbalzavano tra pareti e soffitto dell'ampio locale del parcheggio, con il risultato di amplificare il rumore. Quante volte era stato svegliato in piena notte dall'abbaiare di Fofo. Sì, perché lo stupido cane aveva anche uno stupido nome, Fofo. «Fofo basta, fila a cuccia!» Ma Fofo non voleva saperne di smetterla, anzi si lanciava con le zampe anteriori contro la saracinesca come se volesse sfondarla, così che all'abbaiare si aggiungeva il clangore metallico provocato dalle zampate. Avanzò, deciso a dare una lezione alla bestiaccia. Non aveva mai sopportato il cane con cui era costretto a dividere l'alloggio. Non che avesse qualcosa contro i cani in generale, anzi li apprezzava. Ricordava quelli che facevano la guardia al bestiame. Il loro abbaiare lo confortava e lo rassicurava, era la musica della notte. Ricordava anche la voce di suo nonno, che seduto vicino alla brace ardente gli raccontava la storia di quando l'uomo non conosceva il fuoco. | << | < | > | >> |Pagina 80«Allora viene o no viene?» Guardandolo dal basso in alto, Madut mise di nuovo a fuoco la figura rotondetta di Hussein. Il bengalese si stava spazientendo perché lui non aveva ancora accennato ad alzarsi dallo spartitraffico per seguirlo. «O viene o io ti lascia lì come stronzo.» Madut si sentiva un po' stordito. "Eppure ho bevuto solo un sorso di birra" pensò mentre si rimetteva in piedi goffamente. «Ma come dal papa?» riuscì a domandare a Hussein che lo precedeva di qualche passo. «Messa di papa, messa di mezzanotte, tanti turisti, buono business» gli rispose questi agitando una specie di valigetta che teneva per il manico. "E quella da dove è spuntata?" si stupì Madut vedendola. "Sono sicuro che quando ci siamo incontrati non aveva nessuna valigetta. Forse i magazzini segreti di Hussein sono più di uno" concluse divertito. Seguì Hussein tenendosi un po' arretrato rispetto a lui. Non era tanto certo di volerlo davvero accompagnare fino alla basilica del Vaticano. "Così scantono quando voglio" pensò. C'erano molti vicoli e stradette che si intersecavano con la via principale e non gli sarebbe stato difficile imboccarne uno e mollare il bengalese. Mentre si allontanavano dalla chiesa dei filippini i suoni e le voci della festa scemarono. A parte il rombo delle rare auto che transitavano in quella notte di vigilia, l'unico rumore che sentiva era lo scalpicciare dei propri passi sul selciato. Hussein calzava un paio di scarpe da ginnastica, e le suole di gomma erano silenziose."Questo non è nemmeno lo stesso papa che avrei dovuto incontrare io" si diceva Madut, alla ricerca di un buon motivo per svicolare. Ma sembrava che l'eco dei suoi passi li precedesse, segnando con il suo ritmo un percorso al quale era difficile sottrarsi, come una danza rituale i cui movimenti vanno in crescendo col battito dei tamburi. Madut se ne lasciava trascinare. "Dopo tutto," rifletté "avrei potuto anche scegliere il papa, l'altro, quello di prima, come mio totem invece dei calzini bianchi. In fondo è per il papa che sono arrivato a Roma." Lanciò un'occhiata al piccolo bengalese. "Chissà come ci è arrivato, lui, fin qui" si chiese, provando un filo di tenerezza per quell'ometto un po' buffo che in quel momento gli sembrava del tutto indifeso. Madut non aveva mai chiesto a Hussein come fosse approdato in Italia, ma gli era capitato spesso di ascoltare frammenti di storie di altri come lui. Altri ometti arrivati come relitti di naufragi, portati dal mare sul bagnasciuga. Ed erano storie di mare. Mare cattivo, mare nemico. Pelli bruciate dal sole, dal freddo, dal sale, dalla benzina dei serbatoi dei motori fuoribordo. Anime bruciate dalla paura, dalla disperazione, dalla sete e dallo sfinimento. Erano storie di deserti di sabbia e di sassi, di piedi piagati, di corpi ammassati su camion, di occhi accecati dalla polvere, di affetti abbandonati alla morte, di violenze subite e a volte perpetrate, di infinite umiliazioni che spesso si ripresentavano, in diverse forme ma con la medesima crudeltà, quando la meta agognata sembrava raggiunta e, in quanto inaspettate, ferivano ancora più a fondo. Frammenti che lo avevano colpito quando ai primi tempi faceva la coda per mangiare alla mensa della Caritas, a contatto stretto con i corpi di coloro che di quelle storie erano portatori. Spezzoni di frasi, ma soprattutto occhi, sguardi da cui la cicatrice della paura non sarebbe mai più scomparsa. Se ne era sentito contagiato. Li temeva. Temeva che le immagini spaventose racchiuse in quegli occhi potessero ravvivare, per un sortilegio maligno, quelle sepolte nei suoi. Questo era uno dei motivi per cui aveva sempre cercato di non frequentare altri immigrati, anche e soprattutto quelli arrivati come lui dall'Africa. Per Madut non c'erano state traversate del deserto in balia della violenza della natura e degli uomini, né il mare ostile e buio. Lui era arrivato in aereo. "Proprio come uno di quei turisti americani che vengono a fare il bucato in lavanderia." | << | < | > | >> |Pagina 112«Quando mi fermai non avevo idea di dove mi trovassi.» Madut si rivolse al frate che gli aveva offerto la bottiglietta d'acqua e gliela restituì. Da dietro le lenti tonde il religioso lo stava osservando con perplessità. Madut non se ne avvide, e continuò a parlargli come se gli avesse raccontato quel pezzo della propria storia, che invece aveva rivissuto soltanto dentro di sé. «Non avevo mai pensato di scappare» proseguì. «Non volevo tradire la fiducia di padre Carlo, non so cosa mi prese. Quando mi resi conto che ero solo, mi spaventai. Passando, la gente mi guardava con sospetto perché stavo seduto a terra con il fiatone. Pensai di tornare, pensai di cercare padre Carlo, ma mi vergognavo di quello che avevo fatto. Non avrei trovato il coraggio di guardarlo negli occhi, e non avrei saputo spiegargli cosa mi era accaduto. Così non sono mai più tornato indietro, mai più» concluse. Il tocco solenne e potente delle campane di San Pietro coprì la risposta del frate. Come un'onda sollevata dalle vibrazioni acustiche, l'intensità del flusso che scorreva verso la basilica aumentò. Il frate con gli occhiali scomparve nella marea della folla in movimento. Madut se ne lasciò trasportare. Evocare padre Carlo ne aveva fatto sparire lo spettro. Ora non vedeva più il suo volto moltiplicarsi su quello degli altri, né temeva più l'eventualità di incontrarlo realmente. "Probabilmente non è nemmeno qui, sarà in Sudan, alla missione, e forse non si ricorderà neanche di me." Il pensiero per un verso lo rassicurò, stemperando l'angoscia della quale era stato preda; per l'altro gli infuse un sottile senso di malinconia, che lo accompagnò sino a quando la corrente umana non lo spinse fino all'ingresso della chiesa, stracolma di gente. Eppure sembrava vuota, rispetto ai vasti spazi che sovrastavano la massa dei fedeli e dei curiosi. Colonne altissime dalle forme eleganti si ergevano più a perdersi che a sostenere la volta. Le loro dorature riflettevano le luci delle mille candele accese e delle potenti lampade, ma i riflessi non giungevano a scalfire la penombra nella quale era avvolta. Come le colonne, anche lo sguardo di Madut si perse in quell'altezza che pareva poter contenere un cielo. I fumi invadenti dell'incenso che bruciava negli aspersori e nei bracieri erano le nubi basse di quel cielo chiuso, che all'improvviso si riempì della musica e del canto di un coro. Le voci e le note vi si rifrangevano arricchendosi di nuove eco, per poi ricadere verso il basso, sature di risonanze, scroscianti come un acquazzone estivo. Madut riconobbe la melodia della canzone Tu scendi dalle stelle o Re del cielo, tante volte l'aveva cantata alla missione, nelle notti di Natale. "Se ricordo bene," pensò "fu proprio sentendomi cantare questa canzone che padre Carlo si mise in testa che avevo una bella voce, e si fece venire l'idea di portarmi a Roma dal papa." Di riflesso Madut si unì al coro, e sentendo la propria voce vibrare tra le altre, chiuse gli occhi per lasciarla libera di raggiungerle. In realtà le sovrastò. La sua aveva un timbro caldo e profondo. Molti occhi si girarono verso di lui con sguardi di ammirazione e stupore, ma Madut aveva le palpebre chiuse e non se ne accorse. Le aprì soltanto quando le ultime eco del coro si spensero tra le arcate. «Kari fratelli e zorelle...» Dopo l'armonia pervasiva della musica e del canto quella voce stridula e gutturale al medesimo tempo gli graffiò l'udito, come lo starnazzare di una faraona presa al laccio. «In kvesta zakra notte di Natale foglio rifolcere a foi tutti un penzierho...» La voce continuava a parlare, amplificata da altoparlanti nascosti, e pareva provenire da ovunque. Madut si concentrò per individuare il punto preciso dal quale giungeva. Scorse, al di là della distesa di nuche della folla dei fedeli, un uomo anziano, con un alto copricapo riccamente decorato, dal quale sfuggiva sulla fronte un ciuffo di capelli bianchi. "È lui" pensò, osservando la figura in lontananza, che appariva ancora più piccola a confronto dell'altare imponente e sfarzoso che si ergeva alle sue spalle. "È il papa, sto vedendo il papa finalmente." Si mise a cercare dentro di sé l'emozione che era sicuro avrebbe dovuto provare a quella vista. Prese a frugarsi nell'animo come si era frugato nelle tasche quella mattina in cui, arrivato alla lavanderia, non riusciva a trovare le chiavi per aprire. E non le aveva trovate, perché le aveva dimenticate al garage ed era dovuto tornare a prenderle. Ora, per trovare l'emozione, tornò ad ascoltare la voce degli altoparlanti, «Nostrho zignore Gesù Kristho ke zi è fatto uomo per noi. Poferho tra i poferhi...» "Via, via, antatefene via, coza cazzo folete?" Nelle orecchie di Madut riemerse dalla memoria la voce della barbona che viveva tra i cartoni nella strada che percorreva tutti i giorni per andare alla lavanderia. "Non è possibile" pensò incredulo. "Ha proprio lo stesso modo di parlare che ha lei!" Si figurò il papa che indossava la vecchia tuta da ginnastica sporca della barbona, e invece di recitare l'omelia sbraitava dall'altare insultando la folla dei devoti. Tentò di cacciare dalla mente quell'immagine irriguardosa, ma non ci riuscì. Allora provò a trattenere almeno il riso che gli stava provocando. I colpi di tosse, con i quali cercava di dissimulare le risate che minacciavano di erompere come un vulcano, non furono sufficienti a metterlo al riparo dalle occhiatacce che si stavano riversando su di lui. Pensò bene di allontanarsi e di guadagnare l'uscita della basilica il prima possibile. Fuori, l'aria fredda della notte gli venne incontro, trasformando l'ilarità, invadente quanto il profumo dell'incenso nella chiesa, in un senso di pacata allegria. A passo lento, per non disperderlo, Madut scese la scalinata avviandosi verso la piazza, dove la massa si era disgregata in diversi gruppi, più o meno folti, che stazionavano o vagavano per quell'ampio spazio. "Come mandrie di mucche tranquille al pascolo nella radura" pensò Madut. | << | < | > | >> |Pagina 274«Puoi fermarti a dormire qui, se vuoi» gli aveva detto lei subito dopo avergli svelato il proprio nome. Madut si era accorto che nonostante la donna avesse pronunciato l'invito con tono indifferente, quasi brusco, dalla sua voce era scomparsa ogni traccia di diffidenza e di ostilità. Era troppo stanco e angosciato per rifiutarlo. Era rientrato nella baracca senza dire una parola e, sempre in silenzio, si era sdraiato su una delle stuoie lacere che coprivano il pavimento di terra battuta. Aveva giusto avuto il tempo di intravedere la sagoma di lei che si coricava sulla rete arrugginita, prima di cadere in un sonno pesante e privo di sogni. Era rimasto quella notte e poi non se n'era più andato. La casa di Nya Duony era diventata la sua casa. Lei non lo aveva invitato a stabilirsi lì, ma nemmeno aveva mai accennato a cacciarlo, così dopo un po' di tempo la loro convivenza era divenuta un fatto scontato, qualcosa che era avvenuto e non si poteva più cancellare. Nya Duony distillava alcol dal cocco. Era con quell'attività che si guadagnava quanto bastava per sopravvivere, dopo che suo marito era stato ucciso in una rissa, una delle tante. Aveva due figli, un maschio e una femmina, quest'ultima nata nel campo. E il campo si era preso anche loro: uno era morto di dissenteria, l'altra, la più piccola, per il tifo, poco tempo prima. Queste ultime cose Madut le aveva apprese da lei per brevi accenni. Schegge di frasi, sparse a casaccio lungo il periodo in cui avevano condiviso un tetto. Frammenti che lui aveva dovuto ricomporre, assemblare e incastrare l'uno nell'altro, come i cocci di una giara rotta, per avere un quadro approssimativo di ciò che era stata la vita di lei. Nya Duony non parlava molto. Tuttavia Madut non aveva avuto bisogno di parole per comprendere che in qualche modo doveva ripagarle l'alloggio che stava occupando. Nei primi tempi era bastata la sua presenza. Il fatto che nella baracca ci fosse un uomo rappresentava di per sé un buon deterrente, anche se non una garanzia, contro l'eventuale incursione notturna di qualche ubriaco, intenzionato a soddisfare la propria sete di alcol senza pagarne il pur misero prezzo. Madut aveva capito che era quello uno dei motivi per i quali Nya Duony non lo aveva cacciato già la notte successiva, quando era stato svegliato di soprassalto da qualcuno che era entrato nella baracca ed era incespicato su di lui, steso sulla stuoia, rifilandogli un involontario calcio nelle costole. Lì per lì si era ritratto terrorizzato, ma subito dopo si era avventato come una furia contro la figura barcollante, che si stava dirigendo a braccia tese verso l'angolo dov'era la giara dell'alcol. La colluttazione era stata breve e fin troppo facile. Nell'attimo in cui lo aveva stretto nella morsa delle braccia l'avversario si era rivelato uno scheletro, rivestito di pelle e stracci. Dopo qualche lento e impacciato tentativo di divincolarsi si era afflosciato come un otre in pelle di capra che si sgonfia, emettendo dei rantoli soffocati. Lo aveva letteralmente buttato fuori, lanciandolo in strada dall'ingresso, e anche questo non aveva richiesto un grosso sforzo perché il tipo non pesava niente. Poi si era voltato, per vedere dove fosse Nya Duony.
Era seduta sulla rete arrugginita. Madut si era accorto che stringeva in
pugno l'accetta di ferro con cui la
notte precedente si era difesa da lui. Evidentemente la
teneva sempre a portata di mano. Lei gli aveva rivolto
uno sguardo di approvazione, più che di gratitudine.
Aveva deposto a terra l'accetta e si era stesa sul giaciglio,
raggomitolandosi nelle proprie vesti e voltandogli le
spalle. Anche lui era tornato a coricarsi sulla stuoia,
anche se per il resto della notte non era più riuscito a
chiudere occhio.
Nemmeno questa notte Madut riusciva a dormire.
Immobile, steso sul suo letto nel retro dell'autorimessa,
si sforzava di non aprire le palpebre, ma il fiume dei
ricordi aveva ormai rotto l'argine e l'acqua che ne straripava si infiltrava fin
sotto di esse, inondandogli gli occhi di immagini del suo passato.
Presto aveva iniziato ad aiutare Nya Duony nella distillazione e a caricarsi sulle spalle le taniche piene di alcol, per trasportarle di notte ai margini del campo, dove venivano caricate sui pick-up coperti dei contrabbandieri arabi, che poi lo avrebbero rivenduto clandestinamente a caro prezzo a Karthoum. Nya Duony si fidava di lui, non gli domandava niente né gli diceva molto di sé. Esprimeva la sua fiducia con lo sguardo e lasciando che Madut la sostituisse sempre più spesso nelle mansioni che prima era costretta a svolgere lei. Così era stato Madut a trattare i prezzi con i mediatori, brutti ceffi che arrivavano dalla città; ed era stato sempre Madut a concordare la percentuale che pretendevano le guardie del sultano per chiudere un occhio su quel traffico blasfemo.
Piano piano si era ritrovato a occupare, di fatto, il
ruolo di marito di Nya Duony: lui pensava al lavoro, lei
a cucinare quello che riuscivano a procurarsi. Gli affari
non andavano male, tanto che erano anche riusciti a
permettersi di riparare il tetto della baracca, sostituendo la tela stracciata e
la lamiera penzolante con delle tende quasi nuove che Madut aveva strappato a
buon prezzo a un trafficante del mercato nero. Recavano
impresso il simbolo delle Nazioni Unite.
"Ma Nya Duony non era mia moglie."
Adesso che ripensava a lei dopo tanto tempo, Madut
si domandò chi fosse stata per lui quella donna, un po'
stupito per non essersi mai posto quella domanda quando le viveva a fianco, né
dopo che l'aveva lasciata al suo
destino. "Nya Duony è la donna che forse mi ha salvato la vita. Chissà se sarei
sopravvissuto a Mayo se quella notte non mi avesse accolto" si chiese,
avvertendo un nuovo moto d'affetto. Un palpito del cuore più forte
degli altri e anche, stranamente, più percepibile e netto
di quelli che lei gli aveva suscitato quando era una presenza e non soltanto un
ricordo.
Fin dalla prima sera aveva provato nei confronti di
Nya Duony un profondo sentimento di riconoscenza.
Quel sentimento era cresciuto con il passare dei giorni,
fino a mettere radici che si erano diramate nei più reconditi anfratti del suo
animo. Le voleva bene, certo. Ma anche se lui non se ne rendeva conto, l'amava
di un amore filiale. Nya Duony gli aveva salvato la vita, Nya
Duony gli aveva dato la vita. Non importava se era più
giovane di lui, chi dà la vita è madre. Nella baracca di
Nya Duony Madut era cresciuto di nuovo; dal bambino
terrorizzato e indifeso che era al suo arrivo si era trasformato in un adulto
capace di badare a se stesso e agli altri.
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