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| << | < | > | >> |Pagina 11 [ inizio libro ]« Chiamatemi Ismaele... chiamatemi Ismaele... ». Mormorai varie volte la frase, mentre aspettavo all'aeroporto di Amburgo, e sentii che una strana forza dava sempre maggior peso ai pochi fogli del biglietto, un peso che aumentava con l'avvicinarsi dell'ora della partenza.Avevo superato il primo controllo e passeggiavo nella sala d'imbarco aggrappato al bagaglio a mano. Dentro c'erano poche cose: una macchina fotografica, un taccuino e un libro di Bruce Chatwin, "In Patagonia". Ho sempre detestato chi fa righe o scrive annotazioni sui libri, ma quello era pieno di sottolineature e di segni esclamativi aumentati nel corso delle tre letture. E pensavo di leggerlo una quarta volta durante il volo per Santiago del Cile. | << | < | > | >> |Pagina 81Mio padre era una brava persona. Tra di noi parlavamo un dialetto danese del Kattegat. Imparai a leggerlo e a scriverlo col primo libro che mi capitò fra le mani: il giornale di bordo del "Fiona", il veliero che l'aveva portato fin qui dalla Scandinavia. In seguito le autorità marittime cilene ci obbligarono a navigare sotto la bandiera nazionale, e per tenere il giornale di bordo del "Paso del Ona" dovetti imparare lo spagnolo.Il "Paso del Ona" era un cutter dalla chiglia bassa comprato da mio padre dopo che una tempesta ebbe fatto a pezzi il "Fiona" contro le scogliere di Punta Diego. Sono nato sul "Paso del Ona", e finora l'ho sempre sentito come la cosa più vicina, per me, all'idea di una patria. Ma quella barca ormai non esiste più. Alla morte di mio padre feci il mio dovere: rispettando i suoi costumi e i suoi miti legai il corpo al timone e lo inabissai nelle acque più profonde del Golfo di Penas. Forse in fondo al mare si è riunito a sua 'moglie'. Chissà... Rimasi senza altra compagnia che una vecchia, a cui facevo visita sulla costa occidentale dell'Isola Van der Meule, all'entrata del Canale di Messier. La donna non sapeva lo spagnolo, e nemmeno il danese, non sapeva nessuna lingua. Si limitava a cariticchiare in ona quando dimenticava la mia presenza, e appena si accorgeva che le ero davanti, taceva. Passavamo così intere giornate. Anche lei non aveva un nome. | << | < | > | >> |Pagina 83 [ barca-patria ]Il "Paso del Ona" era un cutter dalla chiglia bassa comprato da mio padre dopo che una tempesta ebbe fatto a pezzi il "Fiona" contro le scogliere di Punta Diego. Sono nato sul "Paso del Ona", e finora l'ho sempre sentito come la cosa più vicina, per me, all'idea di una patria. Ma quella barca ormai non esiste più. Alla morte di mio padre feci il mio dovere: rispettando i suoi costumi e i suoi miti legai il corpo al timone e lo inabissai nelle acque più profonde del Golfo di Penas. Forse in fondo al mare si è riunito a sua 'moglie'. Chissà...| << | < | > | >> |Pagina 86 [ porto, mare ]Con Pedro Chico ci capimmo fin dal primo momento, mettemmo a punto la barca e salpammo verso sud.Nell'Isola Serrano trovammo la capanna quasi come l'avevo lasciata quarant'anni prima. L'isola è disabitata. Il clima estremamente ostile e rigido spaventa, e a volte penso che queste migliaia di isole, isolotti e scogli siano il luogo rimasto più vicino al momento della creazione del mondo. Mi parve il posto migliore per gettare l'ancora nel tempo che mi resta. Il mio porto. E così con Pedro Chico navigammo per anni interi senza incontrare nessuno, con la vita dettata dal saggio umore del mare, paghi di quello che ci offriva. Ignoro come intenda lei il mare, ma io, e credo anche Pedro Chico, lo vedo come un corpo infinito e potente, che nonostante la sua capacità distruttiva sopporta generosamente la debole e arrogante avventura umana. Il mare è un ristagno di pace violenta: all'improvviso avvertiamo accanto a noi la presenza di una minaccia. Cominciammo a notare che i delfini si assentavano in epoche anormali. Poi le balene sciocche smisero di saltare davanti alle scogliere dell'Isola Van der Meule. Il Golfo di Penas, che ogni primavera vedeva gli accoppiamenti delle balene pilota, si mostrava immobile come una pentola spenta. Eravamo al corrente del disastro ecologico provocato dai giapponesi e dai loro peones del regime militare cileno a nord del Reloncaví. Sapevamo che la deforestazione massiccia delle cordigliere della costa aveva distrutto, forse per sempre, lo spettacolo dei salmoni che risalivano i fiumi per deporre le uova. Il disboscamento della selva originaria, di alberi antichi come l'uomo americano e di semplici arbusti che ancora non facevano ombra, aveva fatto di quelle regioni, che erano sempre state verdi, miserevoli paesaggi in via di desertificazione, e con il taglio si erano sterminate anche le migliaia di specie di insetti e di animali minori che rendevano possibile la vita dei fiumi. Ma tutto questo ci sembrava troppo a nord, più di mille questo miglia ci separavano da quella catastrofe. Che diavolo succede nel nostro mare?, ci chiedevamo, e una mattina d'estate, nel 1984, avemmo la risposta. Quello che vedemmo ci gelò il sangue nelle vene. Sa cos'è il "Caleuche"? La nave fantasma. L'"Olandese Volante" con un altro nome. Nemmeno il "Caleuche" ci avrebbe impressionato tanto come quello che scorgemmo davanti al Golfo di Trinidad, a sud defl'Isola Mornington. Vedemmo una nave officina di più di cento metri di lunghezza e con vari ponti, ferma, ma con le macchine a tutta forza. Ci avvicinammo fino a riconoscere la bandiera giapponese che sventolava a poppa. A un quarto di miglio ricevemmo uno sparo di avvertimento e l'ordine di allontanarci. Ma riuscimmo a vedere cosa stava facendo la nave. Con un tubo di un paio di metri di diametro stava risucchiando il mare. Aspiravano ogni cosa, provocando una corrente che avvertimmo anche noi sotto la chiglia. Dopo il passaggio dell'aspiratore le onde diventavano una brodaglia scura di acque morte. Tiravano su tutto, senza riguardo per specie proibite o protette. Con il respiro quasi paralizzato dall'orrore vedemmo che varie cucciolate di delfini venivano aspirate e sparivano. E la cosa più orribile di tutte fu accorgersi che, da uno scolo che spuntava a poppa, ributtavano in acqua i resti indesiderati della carneficina. Lavoravano in fretta. Queste navi officina sono una delle più grandi mostruosità inventate dall'uomo. Non inseguono i banchi di pesci. Il loro compito non e pescare. Cercano grasso e olio animale per l'industria dei paesi ricchi, e per raggiungere i loro scopi non esitano ad assassinare gli oceani. Durante quello stesso anno, navigando in mare aperto nelle vicinanze del Falso Capo Horn, vedemmo altre navi simili. Battevano bandiera nordamerina, giapponese, russa, spagnola, e facevano tutte esattamente la stessa cosa. Passammo un brutto inverno, quell'anno. Non so se ero più affranto o infuriato, arrivai addirittura a pensare di riempire di esplosivo il "Finisterre" per lanciarmi a tutta velocità contro la prima nave aspiratrice che avessi scorto. Passammo un pessimo inverno. Davanti allo sguardo strano di Pedro Chico giravo la manopola della radio a onde corte in cerca di un consiglio. Non sa quanto amiamo la radio noi marinai. E come se qualche volta la voce di Dio si ricordasse di noi. Così, con le speranze sul punto di colare a picco, trovai finalmente un notiziario incoraggiante. Radio Nederland parlava di un'azione di Greenpeace nel Mediterraneo. Impedivano l'uso della barra filippina, un'altra sfacciata maniera di assassinare il fondo marino impiegata dai pescatori di corallo. Ricordo che balzai in piedi e abbracciai Pedro Chico. Non siamo soli, Pedro! Non siamo gli unici a voler salvare il mare! E allora ebbi una delle sorprese più grandi della mia vita: Pedro Chico, che è un uomo di pochissime parole, mi si rivolse con una serietà sconosciuta. 'Padrone, voglio confidarle un segreto. Romperò un giuramento. Lei sa che sono alakaluf, e che per noi giurare sulle pietre del focolare è sacro. Padro- ne, io so dove si nascondono le balene Calderón.' E mi rese partecipe del segreto. Per questo, non appena vedemmo il "Nishin Maru" davanti al Golfo di Corcovado, raggiungemmo l'isola Grande di Chiloé per metterci in contatto con voi di Greenpeace. Peccato che siate cosi lontani. Ma abbiamo vinto la battaglia contro i giapponesi a altro aiuto che quello del mare. Amore e odio. Vita e morte. Segreto e rivelazione. Tutto allo stes- so tempo, senza età. E' questo il mare...» | << | < | > | >> |Pagina 89 [ mare, balene ]E allora ebbi una delle sorprese più grandi della mia vita: Pedro Chico, che è un uomo di pochissime parole, mi si rivolse con una serietà sconosciuta.'Padrone. voglio confidarle un segreto. Romperò un giuramento. Lei sa che sono alakaluf, e che per noi giurare sulle pietre del focolare è sacro. Padrone, io so dove si nascondono le balene Calderón.' E mi rese partecipe del segreto. Per questo, non appena vedemmo il "Nishin Maru" favanti al Golfo di Corcovado, raggiungemmo l'Isola Grande di Chiloé per metterci in contatto con voi di Greenpeace. Peccato che siate coì lontani. Ma abbiamo vinto la battaglia contro i giapponesi senza altro aiuto che quello del mare. Amore e odio. Vita e morte. Segreto e rivelazione. Tutto allo stesso tempo, senza età. È questo il mare... » | << | < | > | >> |Pagina 108 [ Fiordo Elefantes, Darwin ]Don Checho toccò appena il timone per avvicinare il "Pájaro Loco" alla riva occidentale, ripida e verde. Navigavamo davanti alla penisola di Sisquelan e poche miglia più a sud avremmo incontrato l'insuperabile barriera gelata dei "ventisqueros" della laguna di San Rafael.L'aria ci annunciava la presenza delle nevi eterne, dei seicentomila ettari di ghiacciai che iniziano all'estremo sud del Fiordo Elefantes, dove fino ad appena un secolo fa si riunivano i chono, gli alakaluf, gli ona e i chilote per macellare qualche balena che si era arenata, per scambiare pelli, per cacciare foche ed elefanti marini, per saldare vecchi conti con la vita e con la morte, e perché gli dèi del mare mettessero incinte le vergini e riempissero le teste dei giovanotti con promesse di felicità e di piaceri. Un inglese passò da questi luoghi e guardò senza capire nulla. Scrisse: «Tristi solitudini dove sembra regnare sovrana la morte più che la vita». Non capì nulla e quindi mentì, da buon inglese. Si chiamava Charles Darwin. | << | < | > | >> |Pagina 122 [ balene, mari d'inchiostro ]« Questo deve deciderlo lei ».Pedro Chico mi fissava. Solo allora mi accorsi che il gigante aveva gli occhi di un azzurro intenso, e che mentre tornava a posare lo sguardo sul mare coperto di spoglie, un'espressione di infinito dolore si appropriava del suo volto. Rimisi a posto la macchina fotografica. « Pedro, lei come si spiega il fatto che le balene l'abbiano aiutata? E che prima non si siano difese? » Pedro Chico mi rispose senza staccare gli occhi dal mare. « Dal mio padrone avrà saputo che sono alakaluf. Sono nato in mare e so che ci sono cose che non si possono spiegare. Accadono e basta. La mia gente, i pochi che restano, dicono che le balene non sanno difendersi e che sono gli unici animali capaci di compassione. Quando calai in acqua la scialuppa e remai verso la baleniera, sapevo che l'equipaggio mi avrebbe attaccato e che le balene vedendomi indifeso, aggredito da un animale più grosso, non avrebbero esitato a venirmi in aiuto. E cosi è stato. Hanno avuto compassione di me. » « Cosa ne sarà delle balene che sono rimaste? » « Se ne andranno. La Calderón che ci ha scortato è un maschio esploratore. Cercheranno altre insenature, altri fiordi, verso sud, sempre più a sud, finché non finiranno il mondo », concluse Pedro Chico muovendo con dolcezza il timone. « Be'. Ora ha visto. Può scrivere quello che vuole », disse il capitano Nilssen e aggiunse: « Non dimentichi di menzionare il Finisterre. Le barche che hanno conosciuto il sapore dell'avventura si innamorano dei mari d'inchiostro e navigano bene sulla carta ». | << | < | > | >> |Pagina 127 [ fine libro ]Venti ore più tardi, in Europa.Sarita dormiva placidamente, al sicuro da qualsiasi minaccia, e io pensavo all'incontro coi miei figli. Immaginavo l'espressione con cui il maggiore avrebbe accolto la bellissima conchiglia che mi avevano regalato Nilssen e Pedro Chico. Era una conchiglia di loco. Un mollusco gigante che si trova solo nei mari australi. La tolsi dalla borsa e mi accomodai sul sedile appoggiandomela all'orecchio. Sì. Non c'erano dubbi. Quella era l'eco violenta del mio mare. Il vocione aspro e secco del mio mare. Il tono eternamente tragico del mio mare. Forse il pensiero dei miei figli mi portò a far caso al ragazzino seduto accanto a me al di là del corridoio. Doveva avere circa tredici anni e leggeva concentratissimo, con la fronte corrugata dal fragore dell'avventura. Mi chinai come un intruso sfacciato per vedere la copertina del libro.
Il ragazzo leggeva Moby Dick.
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