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| << | < | > | >> |Indice2 luglio 33 Zucche e albicocche 39 Misiones 5O Charquito de agua turbia 63 Senza Dio né legge 80 A me toccò la bandiera 87 Recinto elettrico 91 Femmine (Un divertissement) 96 La sua bussola (o il giorno della morte di Pinochet) 98 Il furto 104 In Bosnia 109 Il mare alle terme 119 Autunno 123 L'uomo della valle 145 Adorata nemica mia 156 Il testimone 161 Sopra il gommista 177 La consolazione 184 Mink 190 La cavalla 199 Epilogo |
| << | < | > | >> |Pagina 9I suoi quarant'anni erano grigi come lui, come i suoi baffetti radi, il suo completo di stoffa a buon mercato, il colletto rammendato della camicia, come il colorito che assumeva la sua pelle al calar della sera, grigi come il mondo e l'esistenza di Pedro Ángel Reyes, completamente privi dí luminosità.
Quel mattino del 2 luglio sarebbe stato l'apatico inizio di
una domenica qualunque, in cui il letto avrebbe finalmente
acquisito un'altra sfumatura andando oltre la sua funzione
principale: uno spazio dove tornare dopo la succulenta colazione preparata da
Carmen Garza, togliendo alle tiranne sei
del mattino la puntualità dei giorni feriali. Si sarebbe rigirato
un po' tra le lenzuola dopo aver gustato le squisite
enchiladas
con pollo e crema di formaggio, un'abbondante tazza di caffè appena macinato, i
panini dolci a forma di conchiglia e quei
dolcetti ricoperti di marmellata e zuccherini, i
garibaldis,
e approfittando della bella stagione anche il dolce sapore del
mango di Manila. Magari avrebbe persino convinto sua moglie a tornare a letto
con lui per godersi un po' di piacere mattutino, sempre che fosse riuscito a
digerire tutto quel ben di Dio, — devo mettermi in forze, che cazzo! Altrimenti
come faccio? — prima di affrontare l'ormai noto dilemma di come
riuscire a farla divertire nei giorni festivi, dato che i soldi
sono così pochi, lei è così esigente e io così noioso. Le discussioni domenicali
tra Carmen Garza e Pedro Ángel Reyes erano prevedibili come il lunedì che
seguiva, tangibile e ordinato. La noia in agguato, implacabile, manifesta,
s'infilava come una folata d'aria malsana nel salotto, pieno di mobili di legno
di pino e di velluti.
Quel giorno però era il 2 luglio, una domenica diversa per tutto il territorio messicano, e Pedro Ángel Reyes aveva – finalmente – un compito straordinario da portare a termine. Le sue abitudini avrebbero preso una svolta: sarebbe uscito presto, si sarebbe presentato al seggio, lo stesso in cui aveva votato nel '97, proprio lì, a quattro isolati da casa sua, nel comune di Huixquilucan, per ricoprire il nobile incarico di rappresentante del suo partito. Per la prima volta in vita sua si sarebbe occupato di qualcosa di diverso dalle inutili scartoffie e dai timbri dell'Archivio civico, avrebbe seguito il trionfo dei suoi candidati, i candidati del popolo, della nazione. L'aveva raccontato a Carmen Garza, gliel'aveva raccontato tante volte di quando il capo era andato a parlare con lui, si era presentato nell'ufficio che condivideva con gli altri impiegati dell'Archivio e aveva chiesto ad alta voce di Reyes; non l'aveva mandato a chiamare con l'interfono, come facevano tutti i capoccia, ma era andato a cercarlo personalmente e l'aveva invitato a pranzo. Allora erano usciti insieme e si erano fatti un paio di tacos nel chioschetto all'angolo, lui e il capo. Carmen Garza non gli aveva creduto: perché quello dovrebbe perdere tempo con un buono a nulla come te? aveva domandato con lo stesso tono odioso con cui ostentava il suo cognome, così messicano, così diffuso dall'oligarchia del Nord sino agli indios kikapús, quelli che erano riusciti a sfuggire alla persecuzione degli yankee sui Grandi laghi, dove tutta questa storia ebbe inizio. Pedro Ángel Reyes si era astenuto dal riportarle tutta la conversazione con il capo, aveva una promessa da mantenere, lui. Com'era difficile, però, tenere la bocca chiusa! Se avesse parlato magari quella vecchia stronza non l'avrebbe più disprezzato tanto. Comunque le aveva raccontato che sarebbe stato il rappresentante del partito il giorno delle elezioni, era stato il suo capo a chiederglielo, cui, a sua volta, l'aveva chiesto il suo superiore. Perciò lei gli preparò una bella colazione, quella mattina presto, perché lui potesse andare tranquillo a compiere il suo dovere di cittadino. Del voto di sua moglie non aveva mai saputo niente. È segreto, era tutto ciò che Carmen Garza rispondeva alla sua avida domanda. Erano le prime elezioni da quando vivevano insieme. E da quando t'interessa la politica? Carmen Garza gli aveva lanciato quell'occhiata di disprezzo cui ormai era abituato. Ti conosco da tre anni ed è la prima volta che te ne sento parlare. E per affondare il dito nella piaga aveva aggiunto un commento inappropriato: non è un po' tardi per salire sul carro? Anche se l'abitudine e l'oculatezza di Pedro Ángel Reyes gli imponevano di farsi la doccia ogni tre giorni – e sabato l'aveva già fatta – quella mattina del 2 luglio fece un'eccezione: non solo lo richiedeva la lunga giornata elettorale, ma anche i suoi impegni serali. Il capo l'aveva invitato alla sede del partito per festeggiare la vittoria e lì ci sarebbero stati anche il capo del capo, il capo di quest'ultimo, il segretario generale, tutti i pezzi grossi del Comune e sul tardi sarebbe passato persino il presidente municipale, di ritorno dalla sede centrale del Distretto federale. Questo almeno era ciò che sperava Pedro Ángel Reyes, perché così, tra un brindisi e l'altro, finalmente sarebbe riuscito ad avvicinare quella bionda, quella che lavorava all'ufficio della Direzione territoriale. Come non approfittare della confusione per attaccar bottone? Solo qualche parola, chissà se lei ci stava. In fondo lui ormai non era più uno qualunque, era stato invitato alla festa, faceva parte del gruppo dei vincitori; il suo capo l'avrebbe coinvolto, quel lavoretto non era stato inutile, e inoltre aveva passato tutto il giorno a fare lo scrutinio dei voti. No, gli occhi di quella biondina civettuola non avrebbero mostrato disprezzo, anzi, l'avrebbero guardato come per dire: se sei qui, è perché ormai sei uno dei nostri. Cosa si sarebbe messa quella sera? Pedro Ángel Reyes conosceva a memoria tutti i suoi vestiti: quello azzurro con la minigonna, il completino rosa, la gonna marrone con la giacca a quadretti. Li alternava durante la settimana, così di venerdì nessuno si ricordava cosa portava il lunedì. Insomma, era sempre in ordine, con le sue gambe non troppo lunghe ma ben tornite e il sedere sodo e sporgente. Non come Carmen Garza, perennemente spettinata e con la ricrescita grigia perché non andava regolarmente dal parrucchiere. Pedro Ángel Reyes detestava quella frangetta biancastra appiccicata alla fronte che svelava la menzogna della tintura bionda. Insomma, la tipa della Direzione territoriale era bionda vera e aveva almeno dieci anni meno di lei, e le sue tette erano belle sode, non imbrogliava con il reggiseno. Ormai lui aveva imparato a distinguere: quelle tette non erano come quelle di Carmen Garza, che ormai avevano perso la loro elasticità e sembravano due palloncini sgonfi. Ovvio che nei momenti di bisogno ne aveva approfittato, perché negarlo? Sua moglie custodiva due tesori: la colazione e il letto, nient'altro. Ma siccome oggi la vita di Pedro Ángel Reyes sarebbe finalmente cambiata, lui non avrebbe certo rinunciato alla biondina per quei due motivi. Perché mai? Quale donna non sarebbe stata capace di preparargli una ricca colazione e di scoparselo per bene? È il minimo che ci si possa aspettare da loro, adesso che fanno le ribelli e vanno in giro tutte smaniose. Che cosa avrebbe detto suo padre se fosse stato ancora vivo? Quel povero vecchio, con una moglie che ha badato a lui tutti i giorni della sua vita, una compagna che abbassava la testa di fronte a qualsiasi cosa, che annuiva, diceva sempre sì, anche se lui non tornava a casa la sera, anche se si ubriacava, lei era sempre lì ad aspettarlo, in silenzio, con le sue trecce ben pettinate, le tortillas calde nella padella e lo stufato sempre pronto sul fornello, perennemente chiusa in casa a prendersi cura del suo uomo e a coccolarlo. "E il minimo che devo al mio signore" diceva. Perché a lui non era toccato vivere in quei tempi? Se fosse nato prima, Carmen Garza non avrebbe perso tempo con certe stupidaggini e nemmeno per scherzo avrebbe osato parlargli con tanta malignità, anche se tecnicamente lui non era proprio suo marito. Il suo completo grigio sarebbe stato sempre stirato e magari si sarebbe persino potuto cambiare tutti i giorni la camicia; e inoltre se le sue scarpe fossero state sempre belle lucide, non avrebbe speso tanti soldi dai lustrascarpe. E le lenzuola? Era chiedere troppo che le lisciasse per bene come faceva sua madre? Mai una grinza, mai una piega: entrare nel letto era come immergersi nell'acqua cristallina. La cosa peggiore però era che lei lo mortificasse, che lo ritenesse un incapace, che lo trattasse come fosse invisibile in mezzo agli altri, come un coglione. E ancor peggio, non gli si concedeva più. Chissà se qualche volta l'aveva fatto, la sua santa madre, che Dio l'abbia in gloria. La casa in cui viveva da piccolo, a Ciudad Victoria, aveva le pareti molto sottili, e la stanza dove dormiva con i suoi fratelli era separata da quella dei suoi genitori solo da un telo. Sin da bambino, Pedro Ángel Reyes aveva sofferto d'insonnia, o forse aveva imparato a non addormentarsi subito proprio per attendere quei rumori, quelli che fanno ribollire il sangue. Tuttavia era sempre suo padre a farli. Se deve rendere giustizia ai suoi ricordi, sua madre era silenziosa persino in quei momenti. | << | < | > | >> |Pagina 33Tutto si riassumeva in una questione di zucche e albicocche. Come se la vita fosse un orto. Però questa riflessione la fece con il senno di poi. Ogni mattina, Leticia apriva gli occhi, guardava il giardino dalla finestra, si concentrava sul verde delle foglie d'arancio e sentiva una sferzata d'energia, come se qualcuno le puntasse contro la canna per innaffiare e il getto d'acqua gelida le colpisse ogni parte del corpo. Non ha mai faticato ad alzarsi dal letto, non ha mai provato quel vago malessere mattutino, e ciò conferma che siamo quelli che siamo, che siamo qui senza alternativa. In cucina, accanto alla caffettiera, Leticia teneva i suoi appunti: ogni sera prima di andare a letto segnava ciò che doveva fare il giorno successivo. Più attività annotava, più proficua si annunciava la giornata. Leticia era una donna produttiva, enormemente efficiente. Frenetica, potremmo definirla, quasi esuberante nel suo perpetuo movimento. Non si tratteneva in bagno più dello stretto necessario: una doccia rapida e tonificante, un tocco di rosso sulle labbra. Poi prendeva la sua valigetta piena di fogli – cui si sarebbe dedicata nelle ore successive – e sentendo ancora pulsare l'energia proveniente dalla terra umida e scura ai piedi dell'albero di arancio, usciva e sfidava la città, ignorando la triste umanità decaduta. Ogni viso le sembrava gradevole. Rientrava tardi, stravolta, ma aveva fatto il suo dovere. E mentre assaporava l'ultimo caffè della giornata, ripensava a qualche commento delle sue amiche. A volte le davano dell'antiquata, e si erano ormai stancate di ripeterle che il mondo moderno, per quanto a molti possa sembrare ostile, ha anche i suoi lati positivi, come per esempio il vantaggio di non dover più correre su e giù per la città perché molte cose si possono fare con Internet. Leticia sapeva usare bene il computer, e nelle ore libere adorava navigare in rete e impadronirsi delle vite altrui, di notizie sconosciute, di sorprese regalate. Però era fermamente convinta che una bolletta si debba pagare a uno sportello, che una lettera vada imbucata nella cassetta, che la spesa si faccia al supermercato, che le scarpe le aggiusta il calzolaio, che un versamento si faccia in banca. I manoscritti – lei di mestiere faceva la correttrice di bozze – si consegnano di persona. E si parla guardandosi negli occhi, non al vento né tantomeno attraverso quello spazio senza volto né certezze. I dizionari migliori sono in casa editrice, e perciò è là che Leticia si recava per lavorare. Non stava a casa sua, dove ogni scusa era buona per distrarsi. Insomma, secondo Leticia le sue amiche erano un po' pigre, ma la sua critica era benevola, senza polemiche. Aveva sentito storie di gente eccentrica che s'isola nel suo mondo, di persone che si chiudono in casa e non escono mai, e persino di una donna un po' matta che un giorno si era trasferita in cima a un grattacielo e non era più scesa. Il mondo è lì fuori per mangiarcelo, affermava Leticia, non per sfuggirgli. Nella sua villetta, tastando la superficie della terra dove crescevano le sue piante, sentiva qualcosa che faceva fatica a spiegare: il peso. Quel peso necessario, quella legge di gravità che le impediva di prendere il volo. Così si svolgeva la sua vita, sino a quando, un giorno, i responsabili di un'impresa bussarono alla sua porta. La informavano che tutti i proprietari delle case del suo isolato avevano accettato di vendere - per una bella somma – e che lì avrebbero costruito un condominio. Se non avesse venduto anche lei, sarebbe rimasta sola e isolata in mezzo ai casermoni di cemento, a ripensare a una vita che ormai non aveva più. Anche se avrebbe voluto protestare e pestare i piedi, Leticia capì che ormai il dado era tratto e perciò, stravolta dal dispiacere ma determinata come sempre, andò alla ricerca di una nuova casa. Ben presto si rese conto che un'altra villetta non era per lei: o erano troppo grandi o richiedevano troppe misure di sicurezza o costavano troppo. E inoltre le più belle erano lontano dal centro, in quartieri molto isolati. Perciò si adattò all'idea di cambiare il suo stile di vita e prendere un appartamento. Trovò un condominio che le piaceva molto, in un quartiere residenziale con alberi frondosi e ampi marciapiedi, dove gli anziani andavano a spasso con le loro badanti e le giovani mamme con i loro passeggini. A convincerla del tutto fu l'altezza dell'edificio: solo sei piani (l'idea di una costruzione molto alta l'angosciava; il pensiero di guardare il mondo da troppo in alto le dava le vertigini). L'ultimo piano era in vendita: l'attico. Era isolato in cima, senza altri appartamenti sullo stesso piano, senza rumori e circondato da grandi terrazze. Nessuno avrebbe camminato sul suo soffitto, nessuno l'avrebbe disturbata con lo stupido suono della televisione, nessuno l'avrebbe vista dal balcone vicino. Quell'indipendenza era favolosa. Pur continuando a rimpiangere la sua vecchia casa, Leticia pensò che, nonostante l'infelicità che l'attendeva, quel posto avrebbe almeno reso la sua esistenza più sopportabile. Perciò comprò l'appartamento e traslocò. Durante i primi giorni cercò di attenersi alla sua solita routine. Usciva appena un poco più tardi del solito perché indugiava a rimirare i nuovi alberi – non più nella terra piena, ma in vaso – che aveva piantato nelle due grandi terrazze. Dato che l'impianto d'irrigazione lavorava al suo posto, lei non si tratteneva per annaffiarli ma solo per ammirarli. Erano così belli! Tre grossi vasi ospitavano tre aranci. Era proprio così necessario avere un giardino? Ed ecco che subito si rimproverava da sola: come stai diventando pigra, Leticia! e usciva per cominciare la sua frenetica giornata. Una settimana dopo essersi trasferita nel nuovo appartamento, si rese conto che ormai non solo usciva più tardi la mattina ma rientrava anche prima la sera. Mentre svolgeva una delle tante commissioni, le veniva in mente la luce dorata che a una cert'ora inondava il salone e così s'affrettava per non perderla. E il panorama, il panorama della cordigliera era incomparabile: rosse, violette, azzurre, le vette cambiavano continuamente colore. Come fare a non guardarle? Una mattina, mentre beveva il caffè nella sua nuova cucina, pensò che doveva decidersi a sistemare una stanza che aveva lasciato vuota perché ancora non sapeva cosa farne. Con la tazza in mano, andò verso il locale in questione e si fermò a osservarlo dal vano della porta. Uno studio, pensò, è perfetto per farci uno studio. E subito si disse: e cosa me ne faccio di uno studio se lavoro fuori? Potrei forse metterci il computer? Ci penserò nel fine settimana, adesso non ho tempo, e andò via, di fretta come sempre. La mattina seguente, però, invece di uscire decise di sistemare quella stanza. E fu tale l'impegno che dedicò per renderla accogliente che solo dopo molte ore guardò l'orologio e si accorse che ormai non valeva più la pena di uscire. Così quella sera aggiunse alla sua lista gli impegni "non rispettati" del giorno prima. Quando però la mattina successiva, mentre beveva la seconda tazza di caffè, rilesse le sue annotazioni, capì che non sarebbe mai riuscita a fare tutte quelle cose, e quindi prese il telefono e sistemò così diverse di quelle faccende. Il secondo fine settimana che trascorse nel suo attico stava così bene che invece di andare a fare la spesa chiamò il supermercato per farsela mandare a casa. Dentro di sé dovette riconoscere che le sue amiche avevano ragione a parlare di certe comodità e le parve che di tanto in tanto valeva la pena approfittarne. E quando fu lunedì, andò piano piano nella stanza che aveva trasformato in studio e si disse, timidamente: e se provassi a lavorare qui solo per oggi? | << | < | > | >> |Pagina 63"Sono la mamma di Paulina, incinta a tredici anni per stupro." Ostinati e timorosi insieme, gli occhi di Laura Gutiérrez rimasero fissi sulla fotografia a pagina 20A del giornale "Reforma", in quel piovoso pomeriggio di agosto. Le donne di Guanajuato rifiutano la legge antiaborto era il titolo che campeggiava. Un lampo illuminò l'orizzonte lontano dipingendolo di tanti colori e un alone rosso, granata, magenta e azzurrognolo aleggiò qualche istante nel cielo. Con l'antica abitudine ai giochi che faceva fin dall'infanzia, e non senza una certa diffidenza, Laura Gutiérrez contò i secondi che separavano la luce dal rombo del tuono; e solo quando questo si annunciò teatralmente con un solenne boato poté riconoscere la propria inquietudine. E il temporale, si disse, se la natura intera si mette in agitazione, perché mai non dovrei farlo io? Il suo volto, di solito quieto sotto lo strato di trucco, tradiva un pallore cadaverico accompagnato dal tremolio delle labbra, la fronte appena aggrottata, la bocca contratta. Osservò la fotografia. La madre della piccola Paulina sorreggeva con dignitosa sicurezza il suo cartello, le parole scritte alla bell'e meglio, gli occhi impavidi che guardavano davanti a sé, al di là dei dolori e delle umiliazioni. Occhi sicuri e lontani, a mandorla sugli zigomi sporgenti, la chioma nera raccolta in un'acconciatura che non si vedeva nella foto ma che Laura immaginò essere una treccia. Priva di espressione quella madre, la cui ragazzina di tredici anni nella città di Mexicali era stata violentata in casa due volte da un uomo fatto di eroina, ed era rimasta incinta. La giovane aveva sporto denuncia al dipartimento di Giustizia, perché il Codice penale del suo stato, la Bassa California, autorizza l'aborto quando la gravidanza è conseguenza di uno stupro. Aveva ottenuto l'autorizzazione, ma poi erano intervenuti altri fattori: un gruppo di donne aveva tentato di convincerla a non abortire mostrandole video molto espliciti, il parroco le aveva ricordato che l'aborto avrebbe comportato la scomunica, e il direttore dell'ospedale l'aveva convinta che avrebbe rischiato la vita e la sterilità permanente. Alla fine Paulina e la madre, spaventate, avevano deciso di rinunciare ai loro diritti e lei – quattro mesi prima – aveva avuto il suo bambino, un maschietto che ha chiamato Isaac. Oggi la madre di Paulina è andata a Guanajuato per portare la propria testimonianza al Congresso di quello stato, e manifestare il rifiuto della riforma del Codice penale locale secondo cui l'aborto anche in caso di stupro diventerebbe un reato. Un fulgore violetto interrompe il monotono oscurarsi del cielo. Laura Gutiérrez allontana il giornale spaventata, forse così facendo riuscirà a evitare la contaminazione, l'inchiostro del "Reforma" potrebbe estendersi, divorare piano piano la sua casa tenuta in ordine con anni di tenacia e annerirla tutta, privandola di quella luminosità per cui lei si è battuta giorno dopo giorno, inchiostro nero che si aggrappa alle candide lenzuola del letto per insozzarle e allontanare ogni notte sempre di più il corpo stanco del marito, quel corpo disperatamente estraneo al suo, sì, l'inchiostro del "Reforma" le ruba quell'apparente equilibrio invadendo le stanze di casa sua come un'immensa mano strangolatrice che s'intrufola di soppiatto negli armadi e sotto i comodini dei due figli maschi per artigliare infine il collo della sua principessina, la figlia adolescente, la sua Sara Alicia. La pioggia continua a infuriare ma non importa, il silenzio della casa è soffocante. Dopo aver nascosto in fretta il giornale in mezzo alle tante riviste impilate sull'elegante tavolino francese intarsiato che troneggia al centro della sua camera da letto, scende le scale agilmente, dalla soglia avverte con un urlo la giovane colf che starà via per un po', sale sul Cherokee e parte; volare verso il mondo, sentire il suo saluto, i rumori e i mormorii, sebbene le nuvole insistano con quei loro riflessi rossastri e lividi. Andare avanti. Non pensa a dove andare. Si dirige meccanicamente verso avenida Palmas e dopo avere svoltato a destra, parcheggia di fronte al Sanborns. Una volta entrata nei grandi magazzini si rende conto che non conosce il motivo che l'ha portata fin lì, nessun bisogno impellente, non importa, da tempo ha smesso di comprare solo quello che le serve, e si ferma davanti all'edicola con le riviste straniere. Allunga automaticamente una mano e sceglie "Vogue", scivola fra le sue pagine senza convinzione, le magnifiche modelle sfilano quasi inosservate, così come gli spolverini animalier della prossima stagione. Laura Gutiérrez non sopporta la parola aborto, le suona sorella di altre parole che non tollera, come femminismo; le fermentano nello stomaco dandole acidità. Tentativi del tempo per abituare la donna alla morte; a tante morti diverse, quella della vita, di un sistema, di una particolare tradizione. Certe persone del suo sesso erano in grado di sfuggire a tale epidemia, non ne avevano bisogno, un po' come lei che si sentiva in salvo da qualsiasi terribile malattia. Lo diceva il giornale, a proposito di quelle riunioni che si stavano svolgendo a Guanajuato. Il giornalista usava termini eufemistici, le chiamava organizzazioni di donne, ma perché la lingua ufficiale non le chiama mai con il loro nome? Attiviste, terroriste. Si annunciavano nuove mobilitazioni verso El Bajío, le donne di tutto il Messico erano chiamate a partecipare. Questi eventi preoccupavano Laura Gutiérrez, la offendevano, la ferivano. Lei aveva sempre creduto che i problemi dovesse risolverseli da sola, senza stampa, senza stato, senza organizzazioni. Perché quello che loro facevano era proprio indebolire il potere per offendere la Chiesa, per delegittimare leggi già abbastanza deboli di per sé alterando l'ordine stabilito, attaccando la dignità del suo sesso, inventandosi diritti inesistenti. Tutte queste azioni erano rivolte contro di lei personalmente, contro Laura Gutiérrez. All'inizio aveva sottovalutato l'importanza di quei movimenti e li guardava con una sorta di disprezzo, ma con l'andare del tempo era arrivata a odiare quelle donne urlanti e linguacciute. La prendevano in giro in un modo ambiguo e incomprensibile, l'additavano, obsoleta Laura, il tuo mondo non esiste più, così parevano dirle. Come se il suo Dio avesse perduto ogni certezza, come se volessero rubarle le sue idee romantiche del bene e del male, quel poco che di ferreo, inamovibile le era rimasto, l'unica certezza che attraversava i fantasmi del dubbio. Quasi la sua impassibile pietà non servisse più a niente, e il suo inevitabile destino fosse nutrirsi di vane illusioni avvolte da un indiscutibile compiacimento. Pertanto, fra tutti i concetti alla moda degli ultimi anni, destava i suoi sospetti soprattutto quello dei diritti umani, perché con una sola modifica, una modifica insignificante, si trasformava nell'inquietante diritto sul proprio corpo. Se il primo concetto si fosse limitato – come doveva essere – all'idea dei diritti umanitari dell'uomo, lei naturalmente lo avrebbe approvato, non era mica un'insensibile, era contro il delitto, la tortura, la repressione. Tanto per dire, proprio oggi a pranzo suo figlio maggiore Alberto discuteva con il padre il caso dell'autorizzazione a procedere contro quel dittatore laggiù in Cile. Il giornale dava anche altre notizie su di lui, e suo figlio approvava che finalmente si facesse giustizia in quel paese lontano. E lei, ascoltandolo, era d'accordo. Sì, certo che era per la giustizia, non poteva fare altrimenti! Ma Guanajuato era tutta un'altra storia. Stavano chiamando le donne a una mobilitazione nazionale e se non fossero state ascoltate avrebbero indetto uno sciopero della fame. Soltanto uno di quei gruppi femministi, sottolineava una legislatrice, raccoglie circa duecento organizzazioni non governative, per cui sarà difficile bloccarli. Mentre sulle pagine patinate di "Vogue" continuavano a scorrere capi d'abbigliamento animalier, Laura Gutiérrez riesaminò rapidamente il modo vertiginoso con cui il mondo era cambiato: anche nella sua biografia le cose erano ben diverse nel passato. Negli anni quieti della sua giovinezza non esistevano ancora le femministe, e se c'erano, nel suo ambiente nessuno se n'era accorto, erano del tutto marginali. Ma quando si era spostato il baricentro? O per dirla in altri termini, quando aveva vinto la marginalità? Nel corso degli anni nessuno si era reso conto che quelle femministe stavano diffondendo la loro dottrina, neanche lei si era accorta del pericolo. Si sentiva tradita, l'avevano colta di sorpresa, aveva sottovalutato la loro crescita, aveva aperto gli occhi quando ormai era divenuto un fatto concreto. Ma sarebbe cambiato qualcosa se se ne fosse accorta in tempo? La sua vita sarebbe stata diversa? Avrebbe potuto mettersi al passo con i tempi, per esempio? E allora il suo Dio che risposte le avrebbe dato? Ricorda il giorno del suo matrimonio: con quanta naturalezza aveva risposto alle imperative richieste dell'Epistola di Melchor Ocampo di cui tutti oggi si fanno beffe. Ricorda anche l'infinito piacere derivante dalla consapevolezza che a partire da quel momento sarebbe appartenuta a qualcuno, constatare che sarebbe stata protetta e mantenuta per sempre, era la legge a stabilirlo. Amata? Nessun codice può fare una promessa così soggettiva, e lei lo sa. Quello che non sa è come sia potuto succedere, che cosa sia successo lungo il cammino per essere arrivata a perdere quell'amore; le altre donne non le importavano, era nella natura maschile, dopotutto non era il sesso a determinare la dipendenza di un uomo dalla moglie. Lei era la madre dei suoi figli, la legittima consorte, la cointestataria del patrimonio: lei era la moglie e tale condizione giuridica le confermava il suo ruolo, anche se le mancavano quelle espressioni di affetto che credeva di meritarsi. Inquieta, si avvicinò alla cassa e comprò tre riviste, compresa "Vogue". Avrebbe commentato con Sara Alicia la nuova moda dell'animalier, lei si sarebbe divertita; aggiunse un paio di orecchini d'argento con ossidiana, non erano eleganti ma le tiravano su il morale, li avrebbe indossati quella sera a cena, con la nuova camicetta nera che si era comprata durante l'ultimo shopping in calle Masarik. Non si faceva troppe illusioni, probabilmente non sarebbe riuscita a trattenere su di sé lo sguardo del marito, ma almeno ci avrebbe provato. Tirò fuori il cellulare mentre la cassiera stampava la ricevuta della carta di credito e chiamò a casa. Aveva bisogno di sentire la voce di Sara Alicia, sapere che era lì vicino, che stava bene. Sua figlia è rientrata in casa ed è uscita subito, le dice la colf, no, non ha lasciato detto dove andava, ma torna per l'ora di cena. Laura Gutiérrez si era pentita di averle comprato la macchina, di avere firmato davanti alla Delegación perché la figlia potesse guidare a diciassette anni, come ha fatto a non capire che le aveva regalato due enormi ali per volare lontano da lei? La mia bambina, la mia bambina.
Tornò a casa, il temporale ormai si stava calmando ma lei era sola.
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