|
|
| << | < | > | >> |Pagina 11Come ogni signora aristocratica che si rispetti, Suor María Trinidad poteva contare in seno alla famiglia su una cugina caduta in disgrazia, la cui esistenza scialba e modesta avrebbe potuto governare e tenere sotto controllo in caso di necessità. Così, quando fece il suo ingresso nel convento di Santa Catalina e prese possesso dei vasti appartamenti, fece sistemare, come laica, anche Verónica de las Mercedes insieme alle domestiche; e il giorno del parto le mise fra le braccia il neonato come fosse stato partorito dal suo corpo arido; negletto e di dubbia fertilità, un corpo ermetico, senza ricordi e senza tracce di piaceri o concepimenti. Si limitò a conunicarlo alle madri superiori nel tono sicuro di chi sa di essere una persona insigne e stimata, e mise a tacere la loro irritata sorpresa raccontando la triste storia della cugina: costei si era innamorata di un commerciante forestiero (cileno, nel suo caso, la prina idea che le era venuta in mente forse per la vicinanza di quella terra), si era unita a lui nel sacro vincolo del matrimonio, aveva concepito un figlio e subito dopo era stata abbandonata. Da tale diserzione era sorta la necessità di entrare in convento, cosa che suor María Trinidad, nella sua comprensiva protezione, aveva reso possibile offrendole un ambiente caldo all'interno del proprio seguito, una vera e propria corte che si era portata dietro in quel convento dove tutti erano lieti per quella sua fervida e pia vocazione. Martínez, José Joaquín Martínez, così si chiamava il padre, era il primo nome che le era venuto in mente quando glielo avevano chiesto, senza sospettare che in quel momento stava dando origine a una lunga dinastia. Il piccolo José Joaquín - gli avevano dato il nome del padre anche se questi era sparito - crebbe e si formò nel candore vellutato del convento di Santa Catalina nella città di Arequipa, gattonando in mezzo a lunghe vesti grevi e maleodoranti, imparando a leggere il latino prima dello spagnolo e mangiando biscotti e frutti di mare a qualunque ora perché nessuno lo controllava. Alla prematura morte di Suor María Trinidad, il giovane José Joaquín a soli sedici anni di età abbandonò il convento e la presunta madre Veronica de las Mercedes per andare, a quanto disse, alla ricerca del padre; il che significava tenere strette le briglie del cavallo e puntare diritto verso sud, sempre diritto, a sud del sud, con le bisacce piene della cospicua eredità che gli aveva lasciato colei che credeva essere sua zia. Il Cile fu un caso, una parola pronunciata nella fretta, ma era il luogo dove José Joaquín aveva deciso di stabilirsi. Non trovò il padre, ma un bellissimo appezzamento di terra a sud della capitale che acquistò e fece proprio con lucenti monete d'oro. | << | < | > | >> |Pagina 13"Vorrei non avere il cuore, mi fa tanto male". Piccole donne, capitolo 18. MEG.Se la gente del Pueblo aveva nutrito dubbi sulle intenzioni di Ada scoprendo che avrebbe attraversato l'oceano per accompagnare il feretro della vecchia Pancha che non vedeva da più di vent'anni, anche per Nieves era difficile considerarla un'idea sensata. Quella mattina, come la prua di una nave impazzita, la rosea aurora si schiantò sulle sue palpebre all'insinuarsi delle prime pulsazioni di quel giorno di settembre. Insonnolita si aggrappò all'ultima carezza del lenzuolo; è ancora presto, ancora un'ora di sonno. Dio che stanchezza, ancora un sonnellino... finché un sussulto le attraversò la mente: Ada! Alleluia, alleluia, l'aeroporto, il campanello che suona puntuale tra un'ora, Lola, la sua jeep enorme, e i preparativi, cugina prima lima limón, quando vieni Ada andremo al campo, campo, santo, pianto. Aggirandosi per casa in silenzio per non svegliarne gli occupanti - movimenti perfezionati nel corso di precedenti reincarnazioni - uscì di corsa dalla doccia per precipitarsi nella minuscola cucina, ancora buia, mettere l'acqua sul fuoco e tagliare un paio di fette di pane del giorno prima; l'ennesima colazione, una delle mille colazioni preparate nel corso degli anni, ma oggi prende soltanto una tazza dallo scaffale e mette sulla piastra soltanto due fette di pane, non di più, oggi non si occuperà della famiglia, oggi lei è di partenza, oggi Ada torna al paese, oggi lei e Lola andranno a prenderla a Pudahuel e tutte e tre insieme imboccheranno la Norte Sur, lasciandosi alle spalle Santiago del Cile, e quando la città inizierà a diradarsi e si vedranno i primi, autentici paesaggi campestri, Lola riterrà che è tempo di mettere un CD e all'altezza di Paine ordinerà un caffè e un uovo sodo a San Fernando, quasi che il viaggio fosse ancora lungo come quando erano piccole. | << | < | > | >> |Pagina 45[...] Il fatto è che alla zia Casilda non importava l'apparenza, e tanto meno la sua. Come il pigiama era la divisa degli zii, così l'abito color caffè era la sua. Per essere precisi non era un abito: né vestito, né vestaglia, né scamiciato, era un coso color marrone, di lana d'inverno, di cotone d'estate, lungo fino a metà polpaccio, aperto sul davanti e con un cordoncino legato in vita, dove l'avrà scovato? Chi aveva potuto disegnare un vestito così malfatto? Quando faceva freddo, indossava sopra un lungo gilè di maglia fatto a mano, dello stesso colore. La figura torreggiante della zia Casilda, sempre all'aria aperta, perennemente in piedi, alta e massiccia, robusta, che lavorava senza sosta, sempre con il bastone nella mano destra. (Le forze che non si usano si perdono, figliole, svegliatevi!) Si conciava da far pena, è il commento di Lola, era uno sgorbio. Ha sempre avuto i capelli cortissimi, una linea squadrata all'altezza della nuca, un taglio mascolino, senza pretese (come me, sottolinea Ada). Anche le sue scarpe erano da uomo, sempre con il tacco basso, con le stringhe e una ruvida, robusta suola di gomma. Che comode dovevano essere, tanto comode quanto brutte. Strano che non avessero mai notato in lei una minima traccia di civetteria. Non udirono mai dalle labbra della zia Casilda un vezzeggiativo, così tipico nelle donne della loro terra, per cui immaginarono che avesse uno schema mentale tutto suo. (Era proprio un maschiaccio, commenta Ada tanti anni dopo, e se fosse stata lesbica? Ah, Ada, non rovinarmi i ricordi, fu l'immediata reazione di Nieves, anche tu eri un maschiaccio, e anche un po' fuori di testa, e guardati adesso.) Si lavava i capelli una volta alla settimana - quand'è che le donne hanno cominciato a lavarseli tutti i giorni? - e sollecitava le nipoti a farlo insieme a lei, mettendo in atto una sorta di cerimoniale. Strappavano un ramo dalla quillaia del giardino e facevano bollire la corteccia ricca di saponina dentro ai pentoloni di terracotta, e poi rovesciavano quell'acqua in vecchie bacinelle di ceramica (Lola ne tiene una in bagno, è riuscita a salvarla dallo sfacelo), erano bianche con dei fiorellini rosa e celesti dipinti a mano sui bordi, e le portavano all'aperto. Arrivava Cristal, la domestica più fedele, e iniziava lo spettacolo, ciascuna testa che si chinava di scatto verso le bacinelle piene d'acqua, sembravano tanti burattini. La zia Casilda profumava di pulito.Se qualche volta quella donna disse di amare l'umanità, si riferiva all'Umanità con la U maiuscola, non a quella quotidiana, reale, con cui abbiamo inevitabilmente a che fare. Non c'è dubbio: odiava gli esseri umani in carne e ossa, tutti tranne quelli del Pueblo. Il mondo esterno non esisteva per lei, non ne aveva bisogno né come stimolo né come specchio, nemmeno per riflettersi in esso. Insomma, non era una persona socievole. Non si sentì mai sola? Chissà se avrà avuto la tentazione di mettersi alla prova oltre il recinto dei suoi pioppi guardiani? Dove avrà trovato la tenacia per mantenersi così, per essere autosufficiente, per placare le mille ansietà che derivano dal partecipare al mondo in modo attivo? Non aveva l'aria di considerarsi una che aveva perso il treno. Le cugine sono convinte che la zia si rifiutasse di guardare da vicino i propri sentimenti creandovi intorno un mantello protettivo, come se sollevare certi veli potesse accecarla. Era stata la sua scelta. Forse il suo problema stava proprio nel non sopportare di vedersi insieme agli altri, qualcosa dentro di lei la inquietava, suscitava il suo sospetto se volevano farle interpretare la commedia della socievolezza (sì, Nieves, devi riconoscerlo, la vita sociale è soltanto questo, una commedia infinita, lunga, bugiarda ed estenuante). Forse aveva paura di mollare le redini, quelle redini che impugnava saldamente entro i confini della segheria. Forse non approvava il comportamento di quella donna su cui rischiava di perdere il controllo: se stessa. Forse era stata la sua intelligenza a dirglielo, quando era ancora in tempo per decidere della propria vita, quando era ancora malleabile, perché con il passare degli anni si sarà resa conto che ormai era troppo tardi, e aveva iniziato a marcire, a marcire. | << | < | > | >> |Pagina 76Mentre le cugine, e anche gli adulti, temevano seriamente per la vita di Ada immaginando che l'incidente nel bosco avrebbe condizionato per sempre la sua sessualità e i rapporti affettivi, lei si dibatteva tra le diverse direzioni della crescita: l'aspetto della vocazione letteraria era quello che le suscitava maggiori inquietudini. Ada sosteneva che lo studio e il piacere della letteratura non dovevano necessariamente trascinare una persona alla creazione letteraria. La sana distanza che frapponeva tra l'invenzione letteraria e le parole che avrebbe potuto scrivere suscitava in lei un piacere che temeva di perdere se si fosse lanciata nell'avventura creativa. Ma soprattutto Ada non voleva parlare del suo terrore per la scrittura: essendo una grande lettrice puntava sempre a un livello che temeva impossibile da raggiungere. La spaventava l'idea di lasciar intravedere l'ordito letterario, i rappezzi bugiardi di trame che non quadravano, incroci inverosimili che non avrebbero toccato il cuore di un lettore, giri di vite troppo forzati.(Dialogo tra Nieves e Lola: Lola: Quello che mi piace di Piccole donne è che non invecchiano mai. Nieves: È un romanzo, Lola. Lola: Appunto, è proprio questo che mi piace, non voglio sentirmi raccontare la verità. La grande differenza tra lei e Lola stava nel fatto che per Lola i romanzi servivano soltanto a evadere, mentre Ada li lasciava entrare a pieno diritto nella propria esistenza.) Quando Oliverio insisteva nel dire che doveva fare la scrittrice, lei rispondeva che non tutti erano obbligati a scrivere romanzi, c'erano anche persone che li recensivano, per esempio, o li pubblicavano oppure li leggevano soltanto. La letteratura ti pone dall'altra parte della vita, gli spiegava, o forse mi sbaglio e ti colloca proprio nel cuore della vita, comunque in nessun caso ti confina nella normalità, nelle anguste strettoie del quotidiano. Per cui sono in salvo. In effetti, ancora oggi Ada è convinta che la sua vita sarebbe davvero prosaica se non fosse la grande lettrice che è. (Chi viene a trovarti, stanotte, Ada? La Catherine di Cime tempestose. E che cosa dice di bello Catherine? Ha un modo così diverso di essere donna, Oliverio, perché non si è parlato di lei più a fondo nella storia della letteratura? Pensa a Jane Eyre per esempio: sai, l'ha scritto sua sorella, ma pur essendo un romanzo fantastico, Jane piano piano rivela di possedere tutti i requisiti che ci si aspetta da una donna decorosa. Proprio così! Invece Catherine non è decorosa, ecco perché mi piace tanto!) Se avessi tanti soldi, diceva Ada a quel tempo, metterei su una casa editrice, una casa editrice bellissima, un piccolo gioiello, come quella di Leonard e Virginia Woolf a Bloomsbury, qualcosa del genere. Quando si trattò di scegliere la facoltà universitaria, non ebbe dubbi e scelse Lettere. Ma quando era ancora adolescente aveva dovuto obbedire all'imperativo della scrittura, come accade di solito a qualsiasi giovane che ami le lettere, un desiderio perentorio, categorico e intimidatorio, e suo malgrado si era messa a scrivere un romanzo. Lo viveva come un esercizio quasi segreto, non faceva mai vedere niente a nessuno, tale era il pudore che provava nello scrivere. Durante l'inverno, tra gli studi e la vita sempre frenetica della città, vi lavorava meno, quasi volesse radunare desideri e idee per portarseli al Pueblo, cosa che faceva puntualmente. E fu al Pueblo che il suo lavoro iniziò a prosperare, fu lì che mise il punto finale al romanzo. Tutti avevano partecipato all'evento (non era poi così segreto) e facevano a gara per riuscire a leggerlo. Aspettate, aspettate qualche giorno, non me la sento ancora di farvelo leggere, lasciatelo maturare un pochino. Aveva sedici anni a quel tempo. | << | < | > | >> |Pagina 133Lola sa poco o niente dei limiti. Per lei la vita è sempre stata illimitata, un pozzo senza fondo, si dimentica della mortalità umana con stupefacente senso dell'opportunismo e non ha mai consentito alla morte di sottolineare la propria presenza. Certo, lo sa che è per strada, è inevitabile, ma il non sapere quando arriverà pare esortarla a un delizioso oblio. Nessuna idea di chiusura nel suo cervello, nessuna idea di fine, immortale Lola, povera Lola, benedetta Lola. Possibile che non abbia imparato niente dallo zio Antonio? Non ha mai ascoltato le sue prolusioni sulla futilità della vita e la minaccia incombente della morte, anche se nel suo caso ci aveva messo settant'anni ad arrivare? Nieves aggiungerebbe: svegliati, Lola, il limite è lì dietro l'angolo, tutte le nostre azioni hanno i minuti contati, forse ci sono cose che ti sono successe per l'ultima volta e tu non lo sai, quante volte vedrai ancora sorgere il sole sul mare, eh? Ne hai un'idea? Quante volte ricorderai ancora l'ultima estate al Pueblo? Quanti uomini potrai ancora abbracciare?Il giorno in cui il suo amante l'aveva definita una donna molto fortunata, Lola si era alzata dal letto nell'albergo in cui si trovavano e si era precipitata sotto la doccia, negandosi ai piaceri del dopo amore. "Una donna fortunata! Già, come se non fossi stata io a costruirmi la mia vita. Vi ho investito tutta me stessa, centimetro a centimetro, minuto a minuto, grammo a grammo. Come osi parlare di fortuna?" Il giorno in cui Lola lasciò la Escuela de Arte per iscriversi a Economia e Commercio aveva capito che ogni cosa bella che le sarebbe accaduta nella vita sarebbe stata figlia dei suoi sforzi, niente fortuna, niente affidato al caso. Le dispiacque abbandonare quegli studi, il carboncino e i pennelli ormai erano entrati a far parte della sua natura. Ma il fallimento della segheria le aveva dato l'opportunità di capire che cosa significasse dedicare la vita e la professionalità a un mestiere schivo come l'arte. In cuor suo teneva nettamente separati due concetti che per molti potevano essere sinonimi: mestiere e vocazione. Il mestiere (professione) era circoscritto, l'arte (vocazione) era totalizzante. Nel primo caso si poteva essere bravi pur rimanendo nell'anonimato, bastava il riconoscimento dei propri simili, non c'era bisogno di mollare tutti gli ormeggi. Potevi lavorare otto ore al giorno e riuscire benissimo, come l'architetto che disegna un bell'edificio e ne decide le forme e i volumi, operando con estrema precisione. L'arte invece si fonde con la vita in un modo estremo, cancellando qualsiasi frontiera. Ha esigenze feroci: o la grandezza o il nulla. Lola aveva letto un sacco di libri sulla storia dell'arte e tutte le ombre che si proiettavano sul suo lavoro erano maschili. Tutti i grandi pittori erano uomini, il che voleva dire dedizione totale al proprio mestiere. Le mani femminili: sempre un'eccezione. Lola si esaminava senza pietà e diceva: bisogna essere davvero in gamba perché valga la pena di fare una scelta del genere, e io non lo sono. A un certo punto aveva dovuto mettere sul piatto della bilancia due idee contrastanti: l'efficienza contrapposta alla passione. Il fallimento della segheria l'aveva costretta a considerare la questione in questi termini ed era stata l'efficienza a vincere. Ma in fondo in fondo, nascosta in un angolino del suo cervello, Lola sa che la vera ragione non era stata la paura della miseria, bensì la paura di non essere abbastanza brava. Avrebbe continuato a giocare con l'infinito piacere che le veniva dalle forme, dal colore, dallo spazio e lo avrebbe aggiunto al proprio modo di vedere il mondo, ma non sarebbe stato mai più la spina dorsale della sua vita. Gli anni di studio furono duri. Durissimi, sottolinea Lola. Il paese afflitto dalla dittatura più cupa di tutti i tempi, l'università divenuta una scuola privata, la famiglia disgregata, la casa del Pueblo scomparsa, le torride estati a Santiago, l'inverno a lavorare dopo le lezioni, la sera arrivare a casa sfinita e dover fare le pulizie e cucinare quando non doveva stare alzata fino a tardi per studiare. Quel suo spirito festaiolo messo in secondo piano per sempre, nessuno le avrebbe restituito gli anni della giovinezza, anche se a quel tempo il coprifuoco non invogliava a festeggiare (mi domando se sia esistito nella storia un altro paese che abbia accumulato tanti anni di coprifuoco come il Cile, vorrei proprio saperlo, dice oggi; è convinta che nessun governo abbia avuto il coraggio di tenere per tanto tempo il suo popolo in uno stato di emergenza permanente, con l'eterno divieto di camminare per strada di notte, e quello stress di chiudersi in casa con puntualità quando fuori la vita sembrava normale). Mi hanno costretta ad abbandonare la frivolezza, dichiara risentita, e poi si chiede in segreto: se la segheria non fosse fallita, chi sarei io oggi? E si risponde controvoglia, con una fitta di dolore: per crescere ho dovuto subire uno per uno tutti i traumi dell'irreprensibilità. | << | < | > | >> |Pagina 188Mia cara Ada,stammi bene a sentire: nella vita di tutte noi esistono cose alle quali dobbiamo rinunciare, perché sono folli o sconvolgenti, ma si tratta soltanto di alcune, ed è importante saperle riconoscere. Io sono nata in un bel palazzo nella città di Lima, in una culla che se non era d'oro poteva benissimo essere d'argento. Enorme, signorile la casa che ci aveva accolte, piena di cortiletti segreti e di stanze nascoste che mi hanno insegnato i labirinti della vita. Signori e padroni di tali possedimenti erano i miei nonni, per cui sono cresciuta in mezzo ai cugini come fossero i miei fratelli. Per me si preannunciava un futuro brillante - be', brillante considerando il fatto che sono una donna - e quando avevo otto o nove anni il mio matrimonio era già stato combinato. La fortuna della nostra famiglia s'intrecciava alla mia bellezza personale, che cosa potevano desiderare di più i futuri padroni della mia esistenza? Quando ho compiuto undici anni, guardavo già da lontano, durante le passeggiate domenicali o alla messa, l'uomo che un giorno sarebbe diventato mio marito. Non mi facevo illusioni sulla sua persona, nessun lavoro di fantasia, nessuna possibilità di giocare: il destino al suo fianco era già stato scritto, completamente al di fuori della mia portata, e tanto doveva bastarmi. Se a quel tempo noi donne avevamo poche possibilità di gestire il nostro quotidiano, almeno potevamo contare su un dono di cui eravamo grandi esperte: la simulazione. Nel mio caso era d'importanza vitale, perché mi era accaduto qualcosa che forse non ti è nuovo: fin dalla più tenera età mi ero innamorata del mio cugino di primo grado. (Tuo fratello, avrebbe detto in seguito mio padre, alludendo al fatto che eravamo cresciuti insieme.) Lo sapevo bene, sì che lo sapevo: quella passione irripetibile, quella deliziosa follia che pur rimanendo sterile mi avrebbe accompagnata per sempre, e io mi sarei consegnata docilmente al matrimonio con la persona che la mia famiglia aveva scelto per me, come andava fatto. Amare il mio futuro sposo? Ma che idee, non si trattava di questo, non facevo neanche lo sforzo di amarlo. Proibizioni a parte, mio cugino era e sarebbe stato in eterno la mia unica gioia. Forse sono stata un po' più orgogliosa delle donne del mio ambiente: mi capitava di parlare ed esprimere opinioni quando non mi venivano richieste, ho detto a mio padre che volevo imparare a leggere e a scrivere, riuscivo a mantenere la mente vuota durante le interminabili sessioni di preghiera e i miei ricami si tramutavano, di nascosto dalla mia sorvegliante, in lettere d'amore infuocate. Per mio cugino, certo. E te lo dico per farti capire come mai sia caduta fra le sue braccia così in fretta, totalmente folle di lui, come mai il delirio della passione si sia impadronito di me a quel modo. Stavano per fissare la data del matrimonio quando la mia gravidanza fu scoperta. Il resto lo conosci, il convento di Arequipa, la cugina caduta in disgrazia di cui ho approfittato, il bambino venuto al mondo in un florido mese di settembre e io che me lo tenevo vicino, al riparo nelle bellissime stanze del convento di Santa Catalina. L'incesto, Ada, costa caro. Non era colpa mia se l'ardore che mi circolava nelle vene proveniva dal mio stesso sangue. Ma il mio è stato un vero incesto. Non lo dimenticare. Un incesto reale, non inventato e neanche drammatizzato. Se sei rimasta ad ascoltarmi sino in fondo, forse sei ancora in tempo. Ti saluta con affetto e complicità Suor Maria Trinidad
P.S. Lascio alla tua immaginazione la quantità di incontri lussuriosi che
sono intercorsi fra me e mio cugino nella città di Arequipa, protetti dalle mura
del convento.
|