Copertina
Autore Michele Serra
Titolo Il ragazzo mucca
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1997, I Narratori , Isbn 978-88-07-01526-7
LettoreRenato di Stefano, 1997
Classe narrativa italiana
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Pagina 9 [ inizio libro ]

"Bentornato Antonio", disse il Grande Otorongo.

Stavo seduto nell'erba secca, con le spalle appoggiate al nume di pietra e lo sguardo rivolto al vallone. Nonostante fosse la fine di marzo faceva ancora molto freddo, e l'aria turbinante del crinale si infilava ovunque. Tirai fino al collo lo zip della giacca a vento. Adagiai la nuca tra le mani intrecciate e presi a seguire con gli occhi le nuvole filanti. Due poiane in caccia remigavano controvento, sospese nel celeste in attesa di tuffarsi sopra qualche sorcio incauto.

"Sei molto pallido", riprese Otorongo.

"Sono stato male. Parecchio male."

"E sei tornato per guarire?"

"Sì. Almeno in teoria. Ho bisogno di restarmene tranquillo per qualche giorno. E mi stavo proprio chiedendo, mentre salivo da te, se ne sono ancora capace." Ficcai una mano in tasca e spensi il cellulare. Un piccolo gentile bip salutò, per parte mia, il mondo intero. Durante l'ultima vacanza che avevo trascorso a Valmasca ero salito spesso dalle parti del Grande Otorongo per fare qualche telefonata di lavoro: il segnale, giù a valle nella casa dei miei genitori, non arriva. Per captarlo bisogna salire più in alto, verso il cielo bene irradiato di voci, che collega gli uomini agli uomini. Quel poco di esposizione pubblica che poteva raggiungermi fin lassù in cima, adesso era esclusa.

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Pagina 15

"Colpa? E' una parola indegna di te. Hai appena detto che non sei un analista. E per quanto ne sappia, nemmeno un prete. Lascia stare la colpa. E' il dispiacere, quello che conta. L'assenza, oppure come nel mio caso la perdita, di quel piacere fondamentale che sta nel riconoscimento delle cose. Non riesco più a provare, come mi capitava da giovane, gratitudine per ciò che mi circonda. Riconoscimento e riconoscenza sono due parole che si assomigliano molto. Confinano al punto di confondersi. E' vera gratitudine quella che si prova, reciprocamente, quando si riesce a riconoscersi davvero. Certo la signora di questa mattina sapeva bene chi ero, e ne pareva, anzi, molto compiaciuta. Ma che potrò mai farmene, del suo compiacimento, dal momento che ignoro se derivi dalla mia dimestichezza con il futuro di Dio o dalla mia competenza sul gel? Secondo me, guarda: è proprio per questo che rifiuto di ricordare il suo nome. E' perché lei, come tutti, conosce il mio solo come pubblica parodia di ciò che sono."

"E chi saresti, davvero?"

"Uno, magari, che non ha passione alcuna né per Dio né per il gel. E ne ha il pieno diritto, che diamine."

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Pagina 90

"Ma la vuoi piantare - quasi gridò il dio - con questa maledetta politica? E' da una buona mezzora che te ne servi per parlare d'altro. Stai male? Sei infelice? Perché diavolo continui a spalmare il tuo vomito sopra i mali del mondo, per diluirlo meglio? Parlami di te piuttosto, della tua vanità frustrata da un romanzo abortito, di tua moglie che non sei più capace di amare, di tua figlia che ti vede vagolare come un'ameba, del tuo lavoro che non ti piace più. Che ti importa di Josephus, che accidenti c'entra? Il tuo fallimento diventa forse più scusabile perché sei capace di servirmelo come un elzeviro sull'incomunicabilità tra gli uomini, nella società di massa, beninteso? Guarda, Antonio, che io non sono un tuo lettore. Sono pur sempre il tuo dio, che diamine! E a me non puoi raccontare frottole."

L'aggressività di Otorongo mi aveva sferzato. Mi alzai in piedi, rivolgendomi a lui con il dito puntato, che oscillava scandendo le mie parole. Teatrale.

"Sentimi bene. Io ho "bisogno" degli altri. E il mio metro e ottantasei di ossa, nervi, muscoli e cartilagini, proprio adesso che sono riuscito a trafugarlo dal sarcofago della mia immagine pubblica, ricomincia ad appartenermi così intensamente che avrei voglia, per dirtela così come mi viene, di scopare con tutti e cinque miliardi quanti sono gli uomini. Mi sento incline all'orgia cosmica, generale, infinita, vorrei toccare le persone una per una e vorrei che mi toccassero..."

"Disgustoso, veramente."

"... Vorrei essere premuto, trasportato dagli uomini su un grande lungomare percorso da una folla smisurata, e sentirmi fare "squich" come un peluche al quale finalmente qualcuno si è ricordato di schiacciare la pancia. Vorrei che qualcuno mi ficcasse le mani dentro le viscere intorpidite e me le massaggiasse centimetro per centimetro. Vorrei sdraiarmi qui per terra, con la testa che ti sfiora e i piedi giù in pianura, come un enorme uomo-pianeta, e farmi ricoprire e abitare da miriadi di uomini-formica. Vorrei disciogliermi, confondermi sangue con sangue, essere adoperato e adoperare in grande numero quegli altri che mi assomigliano, verificare fisicamente la promessa che sono nate davvero le masse, enorme e molteplice presenza di volti e di corpi percepibili, vicini, singole forme di un plurale smisurato, possibilità di un piacere inimmaginabile, di una conoscenza moltiplicata per tante volte quante sono le occasioni di comprimersi tutti insieme in un caffè, in una piazza, in una festa..."

"Non ti senti bene. Non c'è dubbio, non stai per niente bene... "

"... Quando ero ragazzo trovai ridicola quella scena di Zabriskie Point nella quale centinaia di ragazzi facevano l'amore, sparsi a coppie, nel mezzo del deserto. L'utopia non è dannosa perché irrealizzabile - pensai - ma perché controproducente: è così impudica che ci fa vergognare dei nostri desideri, ce li mostra sproporzionati, imbarazzanti come un'erezione tra sconosciuti. Così quella scena d'amore di massa mi sembrò puerile, stentorea, utile al massimo a suscitare negli spettatori un sano bisogno di privacy. Adesso, se ci ripenso, capisco che non i ragazzi in amore, ma il deserto è la vera occasione cui quel film allude. Il vuoto, l'assenza totale di impegni e di ingombri, il tempo fermo della solitudine, la cessazione della vita sociale così come la intendiamo, il rigetto delle deformi maschere professionali, questa è la sola condizione che davvero può svelarci a noi stessi e rifarci padroni del nostro corpo. Per poi restituirci interi tra le braccia degli altri."

"Discorsi da vecchio hippy. Patetici: e in bocca a uno come te, poi, molto forzati. Non ti riconosco più, giovane Lanteri. Ti preferivo, allora, quando mi rompevi l'anima con il materialismo scientifico."

"Ma come fai a non capire? Io ho corrisposto con gli altri secondo questa comoda e funzionale maniera, che scrivevo sui giornali e loro credevano di conoscermi. Mi ammiravano, e io li immaginavo con il giornale in mano che immaginavano me. Ma intanto non solo non siamo mai arrivati a conoscerci davvero, ma ho pagato il prezzo di quella promiscuità illusoria perdendo mano a mano le tracce di chi mi viveva attorno in carne e ossa. Uscivano fotografie della mia faccia, e interviste fatte radunando in mezza pagina briciole defl'interminabde scia di parole che mi sono lasciato dietro come una lumaca. La grande fatica compiuta per tracciare quella scia, e fare in modo che fosse ben visibile ai passanti, mi ha convinto per anni che mi rappresentasse davvero: non è possibile che un così laborioso sforzo di comunicazione non riesca a raffigurarmi. E si moltiplicavano le parole, e il numero delle volte che il mio nome usciva sui giornali, 'scrive Lanteri', 'dice Lanteri', 'Lanteri polemizza'. L'approssimazione rumorosa, stupidamente assertiva di quello che ho scritto e che gli altri scrivono di me, a un tratto non mi è parsa più sostenibile. Non era più una via per incontrarci, ma per perderci. E che quell'imbroglio, quella simulazione d'intesa tra me e la gente, fosse poi socialmente gratificante, e mi portasse quattrini e fama, non può impedirmi di chiamarlo imbroglio. Puoi sostenere la finzione con una certa disinvoltura, finché il tuo doppio spendibile in società non comincia a diventare invadente, a parlare per te anche quando vorresti tacere. Un'opinione su tutto. Un pensierino aspro per ogni nemico, una battuta di stimolo per ogni amico. E mentre si allontana la speranza giovanile di poter davvero fare due chiacchiere con il mondo, senti svanire anche quella vicinanza che pareva più scontata, quella con le poche persone che ti vogliono bene. Inaspettatamente ti accorgi che non le conosci più, e non ti riconoscono, esattamente come il vasto semicerchio di pubblico che ti sta scrutando mentre ti spremi fino all'ultimo le cervella pur di intrattenerlo almeno un minuto in più, un articolo in più, un dibattito in più..."

"Ecco - proseguii quasi d'un fiato, incerto se il filo del mio ragionamento fosse integro, ma appagato dall'irruenza dello sfogo - in che senso il mio problema di mezzo pazzo è uguale a quello della società presente: in questo sterminato casino non c'è più un vicino, non c'è più un lontano, né possibilità di solitudine né di vera condivisione. Tutto è attrezzato per farti restare nel mezzo, e il massimo che ti è concesso è lottare per ottenere, tra i tanti gradi di mediocrità a disposizione, quello più alto, forse il peggiore perché meglio ti illude di non essere invischiato. Ecco che cosa sono io: il meglio del peggio, cioè la più mediocre di tutte le cose."

Mi rimisi a sedere sul mio sasso e accesi una sigaretta, aspettando che la rupe mi rispondesse qualcosa. Speravo che avesse rinunciato alla falsa pista del mio senso di colpa almeno lui che il giorno prima aveva chiarito di non tenere in gran conto la psicanalisi. Speravo che avesse capito quanto poco mi importava, a quel punto, dei miei conti con me stesso, e quanto della disperata impotenza che mi aveva colto scoprendomi impreparato al mistero degli altri, della loro esistenza singola o consorziata in società, entrambe per me inafferrabili - e pure quanto avrei desiderato afferrarle... Passò quasi un minuto prima che Otorongo riprendesse a parlare.

"Quello che mi racconti, non ti offendere, mi pare abbastanza banale. Ma immagino sia, per chi ne è coinvolto, un genere di banalità piuttosto avvincente. Di solito, a quasi quarant'anni, tra il desiderio di scopare il mondo e quello di mantenersi vergini si trova una decente via di mezzo. E non la si chiama mediocrità, ma senso del limite. Ti trovo, invece, così sconciamente sconvolto che quasi sei riuscito a turbarmi, e più che di consigliarti ho voglia di vedere come va a finire, questa tua storia. Spero soltanto che, strada facendo, tu possa modificarne i presupposti. Cioè a uscire da questa tua patetica voglia di "good vibrations", di trasparenza, verità e tante altre belle cose. Da un certo punto di vista questi sono stati di grazia, comuni a tutti negli anni dell'adolescenza, che affinano la sensibilità e allargano le prospettive. Ma per un uomo fatto sono una dannazione. Che sarà di te, Antonio, se non riuscirai a ritornare tra gli adulti, che si accontentano saggiamente, nei rapporti con gli altri, di quel poco o tanto che riescono a sgraffignare? E dimmi: che cosa riesci a desiderare in concreto, qui e adesso, a parte l'orgia cosmica, che per tua e altrui fortuna non è tra le prospettive praticabili, o il romitaggio a vita qui davanti al mio sacro mento?"

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Pagina 114

Mio padre accolse la scomparsa di Siro chiuso nel suo silenzio, come era il suo modo. Continuò a passare tutte le estati nella casa di Valmasca, che pure aveva scelto grande e ospitale anche per poter ricevere il fratello e i suoi. Continuò a perdersi dietro i suoi funghi, catalogando e ricatalogando le specie, inseguendo il suo ordine minimo e tangibile così come il fratello aveva inseguito l'ordine massimo e impraticabile del comunismo.

Solo dopo la fine di Siro, e crescendo in età e in esperienza, cominciai a valutare ciò che legava i due fratelli, così diversi, apparentemente così estranei l'uno all'altro: un sogno d'ordine, infine. Mio padre, nella pignola confutazione del lavoro dell'abate Bresadola, del Fries e del Parsoon, la cui catalogazione dei funghi gli pareva approssimativa e oramai decrepita, era stato altrettanto tenace e determinato di Siro, che voleva mandare all'aria un buon millennio di divisione del lavoro. L'uno chino a terra, con il coltellino svizzero e lo spazzolino rigido per ripulire ben bene le sue sterminate legioni di creaturine della terra, l'altro rivolto al cielo, ai suoi aquiloni e all'idea di uguaglianza che passava invisibile sopra le teste degli uomini.

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Pagina 128

... Ma per questioni allora comuni a molti altri miei coetanei, inerenti la formazione della personalità e quel genere di disinvolte pratiche spirituali e psicologiche che rendono imprevedibile l'adolescenza, avevo deciso di partecipare alle sorti dell'esercito opposto, quello operaio, come un assediato che simpatizza per gli assedianti. Leggevamo (o sentivamo dire da chi lo aveva letto) che le rivoluzioni erano sempre state fatte dai traditori di classe. Traditore di classe ci pareva una definizione molto gratificante. L'oppresso che si rivolta obbedisce a un bisogno elementare, ma l'oppressore che diserta, sfidando insieme l'incomprensione dei suoi e la diffidenza dei nuovi alleati, è colui che davvero realizza l'ideale romantico di una rischiosa solitudine. Avevamo difatti, noi giovani traditori di classe, il melanconico cipiglio degli incompresi.

Camminavo nel mio quartiere con quel fare misterioso e quasi losco che è tipico dei maschi di quell'età (anche i non traditori di classe) lungo le belle strade scavate nei secoli, come il corso di un fiume, dalla sapienza e dall'agio dei ceti professionali. Tra gli alti e massicci palazzi umbertini, davanti agli scuri androni che a Milano nascondono giardini fioriti come oasi in pieno deserto di pietra e asfalto, traversando i macchinosi crocicchi dove mulinelli di auto, tram e pedoni festeggiavano rumorosamente la certezza delle loro destinazioni, andavo incontro ogni giorno ai miei compagni di scuola e ai miei amici ugualmente giovani e sospettabili.

Si stava il meno possibile nelle case di famiglia, che erano per tutti noi luoghi dai quali divincolarsi, bozzoli da lacerare per spiccare il volo. Si passava il tempo nelle strade nei bar, nei cinema d'essai, nelle salette da ping-pong, nelle automobili dei pochi tra i ragazzi più grandi che ne avevano una in dotazione, in mesti scantinati in subaffitto dove non mancavano mai sigarette, bottiglie, muffa e chitarre con almeno una corda rotta, sempre cercando riparo dal livido gelo della città.

Ci sentivamo, a giorni alterni, pericolosi o in pericolo.

A un tratto, generalmente di sabato, venivano i vigili a fermare il traffico. Veniva la polizia a presidiare la via, con le camionette militari. Il rombo meccanico della città (quello stesso respiro sferragliante, dapprima profondo e quasi viscerale, poi mano a mano più chiaro e prossimo, che nelle grandi città ricomincia ogni mattina verso le sei e mezza, e si percepisce nel dormiveglia come se salisse da sotto il letto, segnale del risveglio collettivo) si interrompeva, in una breve apnea.

Il silenzio, dopo pochi minuti, veniva coperto da un altro rumore, forte, sempre più forte, di passi e di voci. Arrivava il corteo, le bandiere rosse entravano in centro.

Gli operai portavano le insegne delle loro fabbriche, come gonfaloni di una municipalità dapprima subita, poi conquistata e fatta propria. Nomi di oscuri lembi periferici, o di vecchie famiglie padronali, adesso erano i nomi dell'identità operaia, e trionfavano sugli enormi striscioni vermigli sostenuti da una fila di uomini in tuta: Marelli, Olivetti, Pirelli, Siemens, Innocenti, Ferro Tubi, Bicocca. Più di tutti mi piaceva Ferro Tubi, esplicita sintesi del metallico operare di coloro che - avevo imparato sui libri comunisti - facevano davvero, con le loro mani, le cose materiali più essenziali e grandiose, e per questo avrebbero avuto il diritto, un giorno o l'altro, di comandare il mondo, piegandolo al loro ordine così come si flette l'acciaio.

Quando sentivo dire "metalmeccanici" immaginavo immensi capannoni di ferro, vapore e fuoco dove migliaia di uomini avevano imparato, temprando la materia, a temprarsi essi stessi, rendendosi forti della loro stessa schiavitù. Circolava, allora, un'idea puramente razziale degli operai siderurgici, eroica schiatta di uomini soggiogati dalla faraonica civiltà dell'industria pesante, caricati di una tale soma di fatica e di rischio da sviluppare la forza del bue e la saggezza dell'asino. Animali sacri, che immaginavo ben saldi in piedi sui tralicci sospesi mentre gridavano "sciopero!" alla moltitudine dei compagni, che aspettavano in basso l'ordine della rivolta con le facce fuligginose illuminate dalla vampa della colata incandescente.

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Pagina 134

Quello che oggi mi manca più di ogni altra cosa - il tempo vuoto, l'assenza di meta - è stata l'incompresa ricchezza della mia, della nostra adolescenza bighellona e inquieta. Vivevamo senza coscienza, o addirittura come un indesiderato limbo, lo spalancarsi tutto attorno di enormi varchi di sontuoso farniente. Le autorità dell'epoca facevano diligenti inventari di spranghe, libelli rivoltosi e altre armi improprie, una ridicola contabilità di dettagli che valeva nulla rispetto al gigantesco giacimento di tempo libero dal quale i rivoltosi potevano attingere per alimentare le loro ossessioni rivoluzionarie. Sotto l'operosa crosta della città, e a sua evidente insaputa, c'erano (e forse ci sono ancora) le più sterminate riserve d'ozio della storia umana. La gioventù, per la prima volta nella storia preservata dalle guerre e dal bisogno, non era più solo una precaria età della vita, ma una permanente e diffusa condizione sociale. Tra le inesperte ma già forti mani di migliaia di giovanissimi uomini e donne, questa imprevista disponibilità di sé si trasformava in dinamite. Era tutto tempo per pensare, tutto tempo per parlare. E i pensieri e le parole germinavano tra le case di Milano, e di ogni altra città dell'Occidente, come una incontrollata giungla. Avevamo davanti, a milioni, in tutto il mondo, solo anni di scuola, con la non grave responsabilità di un lungo apprendistato culturale. Molti dei nostri padri, alla stessa età, erano già in guerra o in campo di prigionia, scaraventati dentro alla vita quando ancora non avevano avuto il tempo di chiedersi nulla. Quanto ai padri dei poveri, quasi nessuno di loro aveva potuto tirare la corda dell'infanzia fino alla giovinezza. A quindici anni già lavoravano, e lavorando si erano sposati e avevano fatto questi figli da far diplomare, da far studiare, da far crescere più protetti e fortunati.

Ne avevano fatto degli studenti, nostri compagni di scuola, di chiacchiere e di ragionamento. Ne avevano fatto, rispetto agli umani fino allora conosciuti, degli inediti mostri: i giovani, la pensierosa tribù senza urgenza, senza scadenze, che passa la vita a pensare a se stessa fino allo sfinimento, fino al vizio.

Concentrati a drappelli piccoli e grandi nei caffè, nelle vie, nelle aule con il crocifisso - e la foto del presidente, nelle assemblee affumicate, nei cortei affannati, divenimmo a migliaia, prima ancora di essere qualcuno, filosofi, poeti, rivoluzionari, suonatori, attori, lotofagi, amanti, adulteri, alcolizzati. Ciò che era stato, fino allora, solo il raro privilegio di pochi genii folgorati dal talento, nella seconda metà del Novecento divenne la condizione immeritata - ma travolgente di un'intera generazione. Quindicenni, sedicenni, diciasettenni, indisturbati dal bruto richiamo del bisogno, presero a confabulare tra loro di giorno e di notte, ad almanaccare sul loro destino e sulle forme più opportune da dare al mondo.

(Bisogna che le autorità pensino in fretta, per garantirsi un futuro più disciplinato, a come tenere impegnati a tempo pieno i cuccioli. Successivamente all'epoca che qui sto ricordando, sono stati compiuti in questa direzione importanti passi: un considerevole catalogo di accessori per la gioventù vestiti alla moda, prestigiosi passatempi, droghe, orologi, luoghi di ritrovo, occhiali da sole, apposite automobilette - serve a tenere impegnate le mani e mansueti i cervelli delle giovani moltitudini parcheggiate ai margini del mondo. Sono soluzioni precarie. Espedienti. Non all'altezza, come intrattenimento della truppa e tantomeno come selezione di massa, di una bella guerra. La mia generazione fu insieme più sguarnita e fortunata di quelle che adesso, sul declinare del secolo, hanno la possibilità di sentirsi giovani non in forza dei loro cattivi pensieri, ma dei loro mediocri passatempi: avevamo, in tutti i sensi, meno di adesso, e dunque provvedemmo a fabbricarci da soli la nostra sfuggente giovinezza.)

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Pagina 178

Parlando, avevo sollevato lo sguardo dal piede, sul quale continuavo a tenere protettivamente le mani, e fissavo la macchina e la strada davanti a noi. La ragazza adesso stava in piedi con le mani in tasca, e mi ascoltava.

"Secondo lei, per esempio: se non avessi avuto i piedi valghi, sarei diventato comunista? Non può essere, faccio soltanto un'ipotesi, che un certo radicalismo ideologico corrisponda al desiderio istintivo di contrapporre a un equilibrio incerto certezze che funzionino da tutore di una personalità claudicante? Guardi gli stitici: ne ho conosciuti parecchi che, per contrappasso, erano persone espansive, bene aperte ai rapporti umani. Nel mio periodo stitico - le parlo di quando avevo vent'anni - odiavo l'insensibilità di chi evacua ogni giorno, alla stessa ora. Gente sconsideratamente allegra, sa. Poco problematica..."

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Pagina 187

Mariella mi guardava in silenzio, cercava di seguire.

"Io mi sento sfatto perché è sfatto il corteo di persone che incrocio e mi incrocia, il pubblico, i lettori, la società... E invece ci sono ombre e segni nelle stanze, parentesi formate dalle bocche, scintillii degli occhi, movimenti di capigliature, timbri di voci, fotografie, che vanno a toccare direttamente le nostre membra. L'anchilosi dei sentimenti è la stessa del corpo, se non avvertiamo più questo tocco quotidiano, queste dita che ci premono. Non digerisco più da mesi, non sento più le mani degli altri sul mio stomaco... Ho nostalgia del gesto pratico, rudimentale, che mia male faceva quando da bambino avevo male alla pancia, e mi appoggiava una mano calda sulla pelle del ventre. Mano a mano che mi sono alzato sopra i miei simili, arrampicandomi sopra le astrazione che elevavano le parole dalla mia ristretta esperienza alla comprensione di ciò che chiamiamo il sociale, ho sentito freddo, e solitudine. Da quel freddo mi sono difeso, via via, beandomi del legittimo prestigio, e del complesso di superiorità, che l'intelligenza e la destrezza mi consentivano, in cima al mio trespolo. Infine, quasi assiderato, sono caduto all'indietro e mi sono ritrovato qui, alla ricerca della consistenza altrui e dunque della mia, del corpo a corpo. E sono grato all'esofagite per avermi costretto a questa ricaduta, a questi lividi che finalmente posso individuare. La neve, il sole, i campi, la casa, l'amore di mia moglie, la vecchiaia dei miei genitori, il genio implume di mia figlia, i funghi, la sacra rupe, e adesso lei, Mariella, che è parte inevitabile di questa rivelazione cosi semplice: che le persone esistono davvero, una per una..."

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Pagina 216

Anita pose a terra la scatola. La apri. Dentro c'era un sacchetto di velluto nero, chiuso con un laccio di cuoio, incredibilmente piccolo rispetto a quanto avevo immaginato. Le ceneri di un gigante non occupano più spazio dei numerini di una tombola.

La bimba lasciò la mano della madre e si avvicinò ad Anita, e anche Marta le si fece addosso. Piangeva già, platealmente addolorata, e vidi che tra le mani grassocce, orlate di un inverosimile smalto carrninio, teneva un rosario.

Parlò Maria: "Posso aprire io il regalo?".

"Tira questa corda", rispose Anita. Maria provò ad allentare il laccio, non ci riusciva, mia cugina la aiutò. Erano chine, la donna e la bimba, sulla scatola aperta, con Marta subito dietro che si soffiava forte il naso sprigionando un forte profumo dal fazzoletto. Noialtri, tutti quanti, fermi in piedi intorno alle tre celebranti.

Di colpo Anita si alzò, con il sacchetto tra le mani, mentre la bimba, rialzatasi in piedi, la osservava e già mutava in nuova curiosità la delusione per non aver saputo aprire il sacchetto lei sola.

La figlia di Siro Lanteri si avvicinò per quanto possibile al ciglio del crinale, spostandosi un poco dalla protezione della rupe per potersi esporre meglio al vento, e con un gesto secco rovesciò il sacchetto, tenendolo per il fondo e scuotendolo all'aria. Subito si liberò da quel polmoncino floscio una densa nuvoletta biancastra, come un ultimo fiato, una estrema parola che si disegnava contro il cielo e immediatamente sfumava nel nulla, cancellata da una raffica. Non avrei mai creduto che il vento potesse imprimere un così forte andamento ascensionale, aereo, a quella pur leggerissima ombra d'uomo: ma così fu, e se anche qualche particola di cenere cadde a terra anziché librarsi, non ce ne potemmo accorrere.

"Vaya con Dios", udii mormorare. Era stata Marta, che improvvisamente aveva smesso di piangere e si era stretta il rosario al petto, a confondersi tra le perle, e guardava fissa nella direzione che la cenere pareva aver preso. Poi attaccò a bisbigliare l'Ave Maria.

Anita la vedevo di spalle, immobile, ancora con il sacchetto vuoto tenuto in alto nella mano destra. Cercai mio padre con lo sguardo, lo vidi che piangeva tranquillo, se posso dire in pace, cingendo il fianco di mia madre. Per il contrasto con la moglie e per la prospettiva - era qualche metro sopra di me, quasi sulla sommità del crinale - mi sembrò altissimo, e considerai che gli era capitato di occupare, salutando il fratello, la sua stessa posizione svettante.

Io non piangevo. Stavo a fianco di Amos Cardelli, ed entrambi cercavamo di spingere lo sguardo fino al nessun luogo dove finalmente Siro era veramente "desaparecido".

Pensai che era triste non avere preghiere da recitare. Per farmene una ragione, cercavo di ripetermi che Siro non avrebbe voluto preghiere. E me ne ero quasi convinto quando udii distintamente, in mezzo al concerto di soffi e sibili del vento, la voce profonda del Grande Otorongo:

Aaaa eeee iiii oooo uuuu... aaaa eeee iiii oooo uuuu...

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