Copertina
Autore Michele Serra
Titolo Gli sdraiati
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2013, Narratori , pag. 108, cop.fle., dim. 14x22x1,2 cm , Isbn 978-88-07-01834-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2013
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

1.



Ma dove cazzo sei?

Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai. Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione: e non so quale sia, dei due "non rispondo", il più offensivo.

Per non dire della mia ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare. Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la scatola delle mie paure. Vedo motorini schiantati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell'ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale. Leggo con avidità masochista le cronache esiziali del tuo branco, quelli schiacciati nella calca dei rave party, quelli fulminati dagli intrugli chimici, quelli sgozzati in una rissa notturna in qualche anonimo parcheggio di discoteca, quelli pestati a morte da gendarmi indegni della loro divisa.

Una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti, caricatura schizofrenica dell'autorità.

(Autorità: attorno a questa parola organizzo, da quando sei nato, convegni tanto pomposi quanto inconcludenti. Ciascuno dei relatori ha la mia faccia, è un'assemblea dei miei cocci intellettuali che cercano la perduta unità, ciascuno rinfacciando agli altri la loro insipienza. Titolo ideale di questa farraginosa convention dovrebbe essere: "Quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo".)


L'unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all'ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un'alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo.

Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all'insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l'orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D'estate il disastro è più lindo, meno suggestivo rispetto al trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l'anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L'orbita della Terra attorno al Sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.

In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l'eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell'assecondare l'entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il "fatto" e il "non fatto". Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.


Più di un posacenere, in giro per la casa, rigurgita di cicche. Spero non solo tue. Dalla piccola catasta è tracimata qualche unità ribelle, rotolata sul tavolo o caduta per terra. Scaglie di cenere ornano specialmente il divano, tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato. Tranne che in cucina, dove domina il puzzo di rancido, la casa è impregnata del tanfo di sigaretta spenta, e perfino a me, che fumo, pare impossibile classificare quella cappa mortifera come il residuo di un piacere. Il tabagista più irrecuperabile dovrebbe venire qui un paio di volte alla settimana, respirare con quello che gli resta dei polmoni quest'aria combusta e melmosa. Si redimerebbe.


Quasi radiosa, in questo quadro bisunto e tendente allo scuro, è l'aureola candida che sta sotto la macchina del caffè. Θ fatta di zucchero. Deve sembrarti lezioso centrare con il cucchiaino la circonferenza della tazzina, e dunque spargi virilmente il tuo zucchero con il gesto largo e brusco del seminatore. Levando poi la tazzina, rimane al centro un piccolo cerchio intonso, e intorno un anello di zucchero. Mi ci sono affezionato, quasi come le formiche che a volte, in disciplinata fila, vengono a pascolare sul tuo astro involontario.


In bagno, asciugamani zuppi giacciono sul pavimento. Appendere un asciugamano all'appendiasciugamani è un'attività che deve risultarti incomprensibile, come tutte quelle azioni che comportano la chiusura del cerchio. Come richiudere un cassetto, o l'anta di un armadio, dopo averli aperti. Come raccogliere da terra, e piegare, i tuoi vestiti buttati ovunque, quelle felpe che paiono indossate da un corpo fatto di soli gomiti, bozzute anche nelle parti che non hanno ragione di esserlo, e per giunta farcite della maglietta che sfili in un solo colpo insieme a qualunque indumento sovrastante. La parte superiore del tuo vestiario è tutt'una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi.

Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, e in virtù del peso modesto e dell'ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa.


Qualche apparecchio elettronico lasciato acceso, sempre. Sulle pareti della casa buia, bagliori soffusi di spie, led, video ronzanti, come le braci morenti del camino nelle case di campagna. Spesso la televisione di camera tua replica anche in tua assenza uno di quei cartoon satirici americani (Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo. Oppure è il computer che sta scaricando musica, e sobbolle abbandonato sul letto (ho cercato di farti credere, inutilmente, che è pericolosissimo, che può bruciare la casa. Di questi miserabili espedienti è fatta la mia autorità).

Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso.

Tu sei il consumista perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 20

4.



Dormi. Nel tuo assetto classico, sul divano, in mutande, davanti alla tivù accesa. La spengo. Nella stanza finalmente silenziosa galleggia la luce mite di un pomeriggio autunnale. Il tuo profilo, ormai al valico dell'età adulta, mi sembra esitante, come se il bambino che sei stato lo reclamasse ancora per sé. Lo stravacco scomposto del tuo corpo perde evidenza rispetto al tuo viso intatto, ai suoi tratti puliti. Il respiro è leggero, la fronte sgombera, le palpebre lisce e integre come un libro mai aperto. Ho la nitida sensazione che questo – esattamente questo – sia l'ultimo istante della tua infanzia. Scomparirà per poi riapparire sempre più raramente, nel corso degli anni, quel bagliore infantile che perfino nei vecchi ogni tanto rivela le tracce dell'inizio. Ma in questo momento il tuo volto addormentato ha una tale purezza di lineamenti da sembrare mai più eguagliabile, e dunque definitiva: contiene il suo addio agli anni (pochi) dell'innocenza.


Penso a come è stato facile amarti da piccolo. A quanto è difficile continuare a farlo ora che le nostre stature sono appaiate, la tua voce somiglia alla mia e dunque reclama gli stessi toni e volumi, gli ingombri dei corpi sono gli stessi.

L'amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito. Non richiede capacità che non siano istintive. Anche un idiota o un cinico ne è capace. La cagna primipara è del tutto inesperta, ma apre coi denti il sacchetto della placenta, lecca il naso dei cuccioli per aiutarli a respirare, lascia che scivolino sul suo ventre e si abbandona al succhio forsennato di sei, otto ladri di vita. Θ anni dopo, è quando tuo figlio (l'angelo inetto che ti faceva sentire dio perché lo nutrivi e lo proteggevi: e ti piaceva crederti potente e buono) si trasforma in un tuo simile, in un uomo, in una donna, insomma in uno come te, è allora che amarlo richiede le virtù che contano. La pazienza, la forza d'animo, l'autorevolezza, la severità, la generosità, l'esemplarità... troppe, troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere.

"Chi nel frattempo cerca di continuare a vivere", ecco una onesta definizione media dei genitori: dico quelli della mia generazione, ma più compiutamente, e con molti patemi in meno rispetto a noi, anche quelli che ci hanno preceduto. Con il forte sospetto – quasi una certezza – che le generazioni precedenti, quanto all'arte di non farsi sopraffare dai figli, fossero molto più attrezzate della nostra.


Quando ero piccolo io, i bambini non erano ammessi alla tavola dei genitori fino a che non si sapessero comportare. I genitori volevano mangiare e parlare in pace. I bambini a tavola danno fastidio, interrompono, reclamano attenzione. Non so dire se fosse giusto o sbagliato escluderli dalla mensa dei grandi. Certo era funzionale: e secondo la mia esperienza lo era anche per noi, per i bambini.

A casa dei miei nonni, al mare, nelle interminabili sere d'estate, mio fratello e io cenavamo prima, in cucina o meglio ancora sul terrazzo, seduti a un piccolo tavolo di ferro rosso e bianco, godendo di un menu speciale che ci esentava dai minacciosi orrori allestiti per la cena degli adulti. Di solito ci preparavano minestrina (la prediletta era di semolino, con molto parmigiano) e sogliola, la pesca a fettine, a volte il lussuoso crème caramel scodellato da uno stampo a spicchi. Gli adulti a turno venivano a trovarci, e ricordo con gratitudine la brevità dell'ispezione, i sorridenti monosillabi con i quali sbrigavano la pratica facendo tintinnare in una mano il drink ghiacciato, la prospettiva, mentre loro sparivano in sala da pranzo, di rimanere lì a leggere in pace "Topolino" su una sdraio tra lo stridio delle rondini, nella luce scemante. Era uno dei rari momenti in cui il tempo immobile della mia infanzia rivelava, in un anticipo premonitore, il suo incomprensibile consumarsi. Ma bastava l'avvento della notte, con tutte quelle stelle in festa, le luci delle barche sul mare, il crepitio e il puzzo delle zanzare e delle falene folgorate dalla graticola azzurrastra sospesa al muro del terrazzo, a cancellare ogni malinconia, a restituirmi all'interminabile felicità dell'estate.

Ripensandoci, mi rendo conto di avere interpretato quelle cene appartate non come un'esclusione, ma come un'esenzione. Fino a che potevo mangiare semolino, sogliola e crème caramel con mio fratello, tra le rondini che sfioravano il terrazzo, voleva dire che potevo rimanere un bambino. Che ero un bambino. Che avrei potuto rimandare quelle conversazioni impegnative, spiritose, a tratti nervose che impegnavano gli adulti: mi bastava godere, di quelle parole complicate, il vago riverbero che arrivava fino alla mia sdraio. Certificava, quel riverbero sonoro, la presenza rassicurante degli adulti, gli addetti alla mia cura, i miei protettori. Del loro mondo io ero ai margini. Ma non esiliato. Ero incluso nell'aura della grande famiglia, ma lasciato nella mia periferia di luce calante, di meditabonda ignavia, di irresponsabilità. Bambino, un bambino che conta gli spicchi del crème caramel, si chiede quanti ne potrà mangiare, quanti suo fratello, e ancora non sa, per sua fortuna e sua salvezza di spirito, che contando quegli spicchi e valutando la fame del fratello prepara la lotta della vita adulta, lo smaniare dei grandi, la sopraffazione e il potere...

Ripenso con rimpianto a quella felice marginalità infantile, a quella pre-vita così densa di profumi, di beate solitudini, di tempo vuoto e silenzioso, quando assisto alle omissioni o alle complicità degli adulti, nei ristoranti, di fronte a schiamazzi e corse forsennate dei loro piccoli cari, resi isterici da una promiscuità imposta e priva di qualunque assetto, di qualunque educazione. O quando assisto al triste esibizionismo di bambini che la volgarità sentimentale dei genitori trasforma in miniature di adulti, scaraventati in pasto alla loro acerba vanità e al voyeurismo infanticida dei grandi. Dal settore del mio cervello dove siedono, come in un parlamento in miniatura, i reazionari in quota alla mia sensibilità e alla mia esperienza, si constata, severamente, che ogni crollo di ordine è un inevitabile crollo di bellezza: e prima che nuova bellezza intervenga a dare ordine e respiro alla vita di tutti, possono passare molti anni o anche molte generazioni. I progressisti non sanno come replicare e chiedono la sospensione della seduta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 53

9.



Un po' di tempo fa mi ferma per la strada un tale. Sulla trentina, tozzo, muscoloso, con i capelli corti ossigenati, lampadato, canotta nera sbracciatissima e jeans a fior di pelle. Deve avere appena parcheggiato dietro l'angolo una di quelle moto americane che hanno il sellone rasoterra e fanno il rumore di un peschereccio.

"Lei non mi conosce," dice, "ma io conosco lei. Sono il tatuatore di suo figlio."

"Buongiorno," gli dico, e per fortuna hanno inventato il saluto, che nella sua riposante genericità consente di prendere tempo, riaversi dalla sorpresa, organizzare un'eventuale difesa. Le convenzioni sociali – attraverso i secoli e le generazioni – hanno più o meno stabilito come ci si rapporta al ginecologo della moglie, al pedicure della mamma, al coiffeur della sorella; non ancora al tatuatore del figlio.

Spetterebbe a lui, adesso, riprendere la parola, ma non lo fa. Mi fissa con un sorriso impacciato, forse anche con qualche soggezione. La sua esitazione, in totale contrasto con la complessione taurina, ha qualcosa di femminile, quasi di virgineo. Ho il tempo di intuire che, non fosse così abbronzato, si vedrebbe il rossore sulle sue ganasce.

Lo osservo meglio, noto un orecchino di corallo, il catenone d'oro al collo. E due occhi piccoli, azzurri, risplendenti, che sono gli incontrastati protagonisti del suo volto, anzi della sua intera persona, e occupano guizzanti il nostro breve silenzio. E con i suoi occhi che capisco di avere a che fare.

"Mio figlio è maggiorenne e può decidere quello che vuole," gli dico puntando a uno scioglimento burocratico del nostro incontro, come se si trattasse di giustificarci entrambi del dragone (bruttino) comparso da un paio di mesi sull'avambraccio sinistro di un diciottenne.

Pare sorpreso, forse deluso, punta lo sguardo chiarissimo a terra come per celare contrarietà, rimango male pure io per quello che ho appena detto, l'equivalente di "sono affari vostri, tuoi e di mio figlio, non voglio avere niente a che fare con questa deplorevole scemenza".

Risolleva lo sguardo, mi rivolge un sorriso aperto, che interpreto come il generoso tentativo, perfettamente riuscito, di levarmi dall'imbarazzo di avere appena detto una cosa meschina, formale, non all'altezza.

"Lei deve parlare di più con suo figlio," dice d'un fiato.

Non me lo aspettavo. Domino l'istinto di irrigidirmi. Di respingere un colpo così fuori misura, il cui latore, per giunta, non ha la foggia e l'abbigliamento più adatti a fare breccia nella mia diffidenza. Mi escono, dopo un sospiro profondo, poche parole.

"Guardi che è mio figlio che non parla con me," gli dico, cercando di non entrare troppo nel merito, e di mantenere un tono cortese, non troppo sbrigativo, brevi cenni sulle difficoltà logistiche di un padre divorziato.

Non sembra soddisfatto. Incrocia le braccia (faticando, per il gonfiore di bicipiti e pettorali, a chiudere la stretta) e si sistema meglio sulle gambe, allargandole leggermente. Mi è inevitabile considerare che in quella posizione l'apparato genitale, strizzato nei jeans, è in vistoso rilievo. Lui diventa tozzissimo, mi rendo conto che è più basso di quanto mi era sembrato. Ora mi fronteggia. La nuova postura, platealmente statica, lascia capire che la conversazione non è affatto conclusa.

"Dice suo figlio che lei odia i tatuaggi."

"Non è che li odio, è che quando uno invecchia e la pelle si rilascia, il tatuaggio non regge più, e collassa. Θ una moda che non considera l'azione del tempo. Non si può fare finta di rimanere forever young."

La citazione rock gli piace. Mi sono accorto (i suoi occhi sono parlanti) che gli era piaciuto anche il verbo "collassare". Pure se nella critica, o proprio attraverso la critica, si sente preso in considerazione. E la sua replica mi lascia di stucco.

"Anche gli affreschi, sa, e i dipinti a olio, i mosaici, perfino le statue alla lunga si rovinano. Θ un arco di tempo diverso, molto più ampio, ma tutte le cose fatte dall'uomo sono destinate a deperire, e a sparire. Il tatuaggio è bello perché muore insieme al corpo. L'opera e il corpo umano sono la stessa cosa. E non bisogna neanche scomodare i musei, basta la cremazione ad archiviare la pratica..."

Acquistando sicurezza mentre parla, mi sembra che anche la sua slabbrata cadenza padana si attenui, in favore di una pronuncia quasi italiana. Adesso sorrido anche io, gli sono improvvisamente grato di avere dissolto la mia rigidità nei suoi confronti. Gli faccio un paio di domande generiche sul suo mestiere, cose tecniche, mi risponde a tono, contento, parliamo di pennini e di inchiostri, siamo al confine tra la bottega artigiana e il colorificio, ora è diventata una conversazione di strada piuttosto sciolta, come ce ne sono tante.

"Comunque," dice a un tratto, e si sente che quel "comunque" fa da cesura tra la piega amena che ha preso la chiacchierata e una conclusione più impegnativa, "comunque suo figlio, sui tatuaggi, dice la cosa giusta. E scommetto che lei non la sa."

"No che non la so," rispondo. "Me lo dica lei, che cosa dice mio figlio sui tatuaggi."

"Dice che non sarà un problema invecchiare e vedere il tatuaggio che smolla. Perché tutti i tatuati invecchieranno insieme, e tutti i vecchi, tra un poco di anni, saranno tatuati. E tutti i tatuaggi smolleranno in contemporanea, in tutto íl mondo."

"Non ci avevo mai pensato," gli rispondo. Ed è proprio vero, che non ci avevo mai pensato. E nel pensiero immutato che i tatuaggi, in qualunque modo si riesca a girare la questione, mi faranno sempre schifo, fa breccia la consolante immagine del tatuato riflessivo, non in balìa del primitivo istinto di segnarsi il corpo, come il maschio tribale, o come il metallaro rintontolito dalle birre, ma come il body-artist che fa di se stesso e della sua confraternita di istoriati i testimoni della caducità del corpo, della sua preziosa fragilità...

Lui mi prende la mano, la stringe in una morsa da portuale, avvicina appena il suo volto al mio, come per sottolineare la confidenza conquistata, e ripete:

"Lei deve parlare di più con suo figlio".

Gira i tacchi e si allontana. Noto gli stivaletti beige. Sulla nuca ha un piccolo tatuaggio, ma non faccio in tempo a capirne i contorni che è già sparito in mezzo alla folla del sabato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 84

13.



Dicono che avresti avuto bisogno di un Padre. Un vero Padre. Che avresti avuto bisogno del suo ordine ben strutturato, ben codificato, così da poterlo fare tuo oppure confutarlo e combatterlo, e combattendolo diventare un uomo.

Non c'è argomento che mi metta più in difficoltà. Del padre non ho che alcune attitudini. Per esempio quella, non trascurabile, di mantenerti con il mio lavoro e la mia fatica. Ma so che è sconveniente farlo pesare (anche se altrettanto sconveniente, lo dico a carico tuo, è dimenticarlo). Ma riconosco che di tutte le altre tradizionali attitudini del padre – stabilire regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un convincente interprete. Le volte che tento di riportare ordine, sottolineare regole, sento di avere il tono incerto dell'improvvisatore, non il tono autorevole di chi è sicuro del proprio ruolo. Sento di sembrare uno che si è ricordato all'improvviso, costretto dall'emergenza, che avrebbe avuto il compito di governare. E non lo ha fatto. E simula, come il più ipocrita o il più inetto dei politici, di avere un programma di governo affastellando alla rinfusa mozziconi di regole, minacce improbabili, ricatti sentimentali, con la voce che oscilla dal borbottio lugubre all'acuto nevrastenico. Nel corso di questi concitati e per fortuna rari comizi domestici, dubito di almeno la metà delle cose che ti dico. Già mentre le pronuncio sento che appartengono a un armamentario retorico vetusto, rimediato appiccicando i cocci di vecchi codici infranti, spazzati via da rivoluzioni sociali o resi ridicoli dalla loro stessa prosopopea.


In termini tecnici, sono il tipico relativista etico. La definizione circola da qualche anno, più o meno spregiativa a seconda che chi la adopera sia molto o poco convinto di detenere verità assolute. La trovo calzante. Sta a indicare quella larga fetta di adulti occidentali che, a parte una ridottissima serie di precetti senza tempo e senza copyright (tipo non ammazzare e non rubare), non riescono a trovare indiscutibile alcun assetto etico, specie nella vita privata. Di qui una diffusa incapacità di pronunciare certi No e certi Sì belli tonanti, belli secchi, con quel misto di credulità e di boria che aiuta, e tanto, a credere in quello che si dice.

Sono il tutore ondivago di un ordine empirico, composto e poi scompaginato giorno per giorno, scritto in nessun Libro, impresso su nessuna Tavola. Ma lo avrei cercato volentieri insieme a te, quell'ordine, nelle pieghe faticose della convivenza, raccogliendo i calzini fetidi che segnano il tuo indugiare in un'infanzia decrepita, offensiva per entrambi, lavando i piatti sporchi che lasci ammuffire nel lavello, sopportando la tua pigrizia oscena, cercando un bandolo nei tuoi orari dementi, i rientri alle cinque del mattino, i risvegli pomeridiani, l'andarsene e il rincasare senza una logica percepibile, senza l'ombra di una concertazione con gli altri abitanti della casa. Come il più protervo, il più estraneo degli ospiti.


Di una parodia di Comandamenti ho a volte disseminato la casa. Attaccando sul frigo o in bagno o sulla porta d'ingresso biglietti comicamente imperativi, perché l'imperativo è il modo che ho dismesso – che abbiamo dismesso, noi dopopadri di questa dopoepoca – e dunque riesco a usarlo solamente in parodia. (Avere un padre parodista equivale ad avere una parodia di padre?)

"Prima di uscire controlla di avere lasciato accese tutte le luci di casa!", "Verificare lo stadio di decomposizione dei cibi prima di ingoiarli", "Il water marezzato di merda è un'installazione artistica o mi è consentito pulirlo?", "Lasci i tuoi peli nel bidè per motivi religiosi?", "Per piacere, se passi dal ferramenta compra uno scalpello, dobbiamo rimuovere dal lavandino i tuoi sputi di dentifricio calcificati".

Il non detto (il sogno?) era che dopo avere letto e sorriso, ammesso che tu abbia sorriso, dentro quel linguaggio morbido, lietamente ruffiano, avresti capito da te solo il giusto daffare. Dove per giusto daffare – attenzione! – non alludo a moniti minacciosi o definitive incombenze, a quei sistemoni castranti, quelle costruzioni annichilenti che furono le Religioni e le Morali, ma no, macché, ma ti pare che io abbia il physique du rτle del patriarca? Di quei vecchi maniaci che per millenni hanno messo in riga la tribù, ordinato le fila, allestito capestri, organizzato guerre, invocato orribili piaghe su nemici che a loro volta escogitavano per rappresaglia piaghe ancora più orribili attribuendone la paternità al loro dio pazzo (pensa che vigliacchi! neanche il coraggio di essere Padre in proprio, minacciavano e punivano per conto di un Padre Eterno che è il padre di tutti i padri, insomma l'alibi perfetto!). A parte la pioggia di rane che è irresistibilmente comica, il vero imbattibile capolavoro dello humour involontario per eccellenza che è quello biblico (e derivati), e darei non so che cosa per poterne davvero scatenare una, di pioggia di rane; stavo dicendo che non sono il tipo, come ben sai e come tutti possono intuire al primo colpo d'occhio, non sono il tipo da punizioni esemplari. E neanche da punizioni blande, se è per questo...

Io quando penso al giusto daffare penso solo all'onesto, parziale e non necessariamente compiuto tentativo di cercare un equilibrio decente tra la propria porca presenza al mondo e la porca presenza degli altri. Solo questo. E mi pare così ovvio, che i miei sputi di dentifricio nel lavandino e le mie righe di merda nel water non debbano a nessun costo essere imposte agli altri, che neanche riesco a concepire come tu possa lasciare i tuoi sputi e la tua merda occhieggiare tranquilli dalle ceramiche di casa, certi della loro impunità.


Lasciare pulito il cesso. Spegnere le luci. Chiudere i cassetti e le ante degli armadi. Per me sarebbe già molto. Anzi: moltissimo. Quasi mi commuoverebbe. Tanto da rendere lecito il sospetto che tu disattenda un così poco impegnativo ordine del giorno proprio perché è troppo poco... un fabbisogno etico così mediocre da non scalfire il tuo spirito, che custodisce, come è tipico dei giovani, il seme dell'eroismo, e certo non può accendersi nel nome del decoro domestico a me tanto caro. Così che se io, per dire, mi presentassi con gli occhi spiritati e ti dicessi che devi partire subito, stanotte stessa, per liberare armi in pugno un popolo oppresso, o per evangelizzare i selvaggi, o per ricacciare oltreconfine gli impuri (per dire solo alcune delle tipiche Cause non più a disposizione di noi relativisti), allora sì che ti vedrei balzare dal divano, farti in un attimo hombre vertical, preparare lo zaino e abbracciandomi mormorare chino al mio orecchio: finalmente, padre mio, invece delle meschine cazzate con le quali mi assilli da quando sono nato, mi indichi una Meta degna di questo nome! Mi indichi il sole di una fede, non più una lampadina da spegnere!

E io, di rimando, ingoiando le lacrime e sentendomi, infine, pienamente e finalmente padre: vai, figlio mio, copriti di gloria. E non preoccuparti per il water, penserò io a pulire le righe di merda! Ciò che mi era parso, fino a oggi, un compito ingrato, mi sembrerà il più leggero e insieme il più onorevole dei compiti! Perché saranno le righe di merda di un eroe!


Ma forse no. Forse non sarebbe per niente una fortuna alzarti finalmente dal tuo divano per liberare armi in pugno un popolo oppresso o evangelizzare i selvaggi o scacciare gli impuri eccetera. Perché in genere il prezzo di quelle gloriose iniziazioni, di quelle eroiche imprese, è stato, per generazioni di figli prima di te, spaventoso. Semplicemente spaventoso. E non parlo del rischio di morire, ma della certezza di vivere gravati da tabù sessuali, ossessionati da decaloghi, schiacciati dai doveri sanciti dal Tempio e da quelli imposti dalla Legge, la mano del padre levata in alto e pronta a colpire, e quando non dovevano partire per la guerra dovevano rimanere per servire la famiglia, obbedire a venerabili stronzi che li indirizzavano dove meno disturbavano e meno attentavano all'integrità del patrimonio familiare... Tu che hai di fronte un dopopadre esitante e in fondo complice, possibile che non capisca la fortuna che hai? Lo so bene che non basta, come Senso della Vita, un water pulito. Non sono così cretino. Ma il brivido (inedito nei secoli) di una relativa libertà, possibile che debba generare solo sciatteria e malessere, pigrizia e malumore, e non, anche, la condivisione di un sollievo, quello di avere finalmente abbattuto, tutti insieme, quel totem inumano, feroce, castrante che è l'Assoluto?

| << |  <  |