Copertina
Autore Vikram Seth
Titolo Golden Gate
EdizioneFandango, Roma, 2008, Mine vaganti 36 , pag. 320, cop.fle., dim. 14x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6044-054-9
OriginaleThe Golden Gate [1986]
TraduttoreLuca Dresda, Christian Raimo, Veronica Raimo
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe narrativa indiana , narrativa statunitense , poesia
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Indice


Contenuti

1.  Una cena sui massimi sistemi.              13
2.  Una serie di lettere d'amore.              34
3.  Appuntamento fuori dagli schemi.           63
4.  Casa nuova. Gli Sheep fanno rumore.        82
5.  Si raccolgono le olive mature.            110
6.  Un gatto geloso, senza premure.           133
7.  Un comizio, degli arresti, un corteo.     158
8.  Caffè, partite di Scarabeo.               183
9.  Un'infuocata contesa si scatena.          202
10. Riposa la vigna al sole invernale.        223
11. Nella notte si riempie un locale.         244
12. Una vecchia storia torna di scena.        272
13. Si rimpiangono gli amici distanti.
    Passano i mesi, la vita va avanti.        291



 

 

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Pagina 13

Uno



1.1

Salve Musa, per cominciare è meglio
esser leggeri. O caro lettore,
tanto tempo fa, era il primo abbaglio
degli anni '80, viveva un signore
di nome John. Un uomo realizzato:
giovane, solitario, rispettato.
Una sera attraversando il giardino
accanto al Golden Gate, il suo cammino
s'andò a incrociare con un frisbee rosso
che quasi l'uccideva: "Chi farei
disperare", pensò, "chi renderei
felice con la mia morte?". Fu scosso,
ma da tali quesiti deprimenti
si rivolse a meno estremi argomenti.


1.2 Per quietarsi, sintonizzò i pensieri sull'elettronica, e sui circuiti; accantonando gli umori più neri nonché i sentimentalismi gratuiti. Si concentrò sugli "or-gates" e gli "and-gates", sui CDROM, su "nor-gates" e "nand-gates", sui bit, i megabyte, nanosecondi, nanoquarti... ma mentre varie rondini e uccelli stilizzati più diversi strepitano in un cielo merlettato di pini, di colpo John vien strappato alla sua tana: i suoi pensieri spersi verso il largo, dove lui, trattenuto dalla solitudine, grida aiuto.

1.3 Θ bello John, e veste un po' formale. Parla piano, è sveglio d'intelletto, al lavoro tiene un ritmo abnormale, e a mo' di ex-voto gli pende sul petto il nome su una targa plasticata. Guadagna sì, ma non è scapestrato, paga l'affitto, fa una vita sana: mai sigarette, poca marijuana. Si astiene dagli alcolici e dai preti, coltiva il giardinaggio e la lettura, da Thomas Mann a San Bonaventura (un modo come un altro per star lieti). Degli amici quasi evita il contatto, ma il suo capoccia è molto soddisfatto.

1.4 Biondo, gli occhi grigi, aristocratico per il cipiglio, l'altezza, lo sguardo, selettivo, eppure non dogmatico, e anche fragile dietro un baluardo di abitudini e gusti raffinati, anche se i suoi future sono schizzati alle stelle... ed è abbigliato a puntino... John sente che la sua vita è in declino. Θ un uomo appassionato, attraente, e respingente insieme: senza quasi volerlo, ha avuto un sacco di spasi- manti attratte dal suo temperamento di fuoco. Ma tutto ciò precedeva l'attuale fase "castità & carrierà".

1.5 John guarda i fiori autunnali sui rami, osserva come le piogge a settembre han rinverdito l'intero fogliame sulle colline. Ed è stato sempre così, anche quand'era ragazzino: San Francisco e il suo inquieto destino gli accendevano dentro una scintilla che in questo stesso giardino ora brilla di nuovo. E la spinta delle falde tettoniche è come se lo slanciasse dalle vecchie dune verso le masse oceaniche. Ma a questo punto è tardi, gli uccelli al tramonto tornano al nido, e scende la notte su ogni respiro.

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Pagina 51


2.34

A Liz scriver la lettera costò.
Sfogliò il giornale e poi quasi incurante
vide l'annuncio infelice di John.
La parola che trovò più allettante
fu "quadrato". Aveva meditato
spesso sulla sua geometria, dato
indispensabile se vuoi trovare
con chi sei congruente: non le appare
un doppio senso, in questo pensiero?
Insomma, anche se non l'ha mai fatto,
con penna impudente e priva di tatto,
con le guance arrossate come il siero
e il cuore che le martella impazzito,
scrive un biglietto, e l'ha già spedito.


2.35 Domenica mattina, Cafè Trieste, John sta seduto in attesa elegante: uno scaltro veterano di queste sceneggiate. Non sarà più probante incontrarsi di giorno? Θ più tranquillo, neutrale; e se non scatta l'idillio, ci si può salutar senza tormento. Mezzogiorno, ecco l'appuntamento: Θ lei! Alta, bionda, acqua e sapone, scorge John da lontano ben vestito e con fare dubbioso e un po' spigo- loso, gli dice: "Scusa, per favore... Ma sei tu, John?". Lui sorride: "L'hai detto. E tu saresti Elizabeth, sospetto".

2.36 "Deliziosa", pensa (è già incantato?). Si presenta, e ha un moto d'incertezza. "Carina... il suo stile misurato dice che è appena uscita dalla messa... Sana, solida, pratica e attiva." E Liz pensa: "Ha una certa attrattiva. Magari...". Ma tutto questo è dedotto prima che sia pronunciato un sol motto. John ordina un croissant con un espresso, e lei tè con una fetta di torta. Dopo che: la conversazione è morta, ognuno sta sulle sue un po' perplesso. Finché entrambi contemporaneamente spezzano il silenzio: "Beh, ecco, niente".

2.37 Si bloccano e poi riprendono insieme: "Mi spiace... e ognun s'azzitta di nuovo. Si ride. "Per me comunque va bene. Parlo io o parli tu?", fa John: "Io provo... allora a dire... che sono contento... d'esser qui." Liz non fa nessun commento, ma sorride. John dice: "Θ scorretto far la timida dopo quel che ho detto. Una confidenza ne chiama un'altra". "Non c'è bisogno", dice Liz. "Avrei solo confermato che i tuoi e i miei pensieri collimano." E l'un l'altra si guardano strani, come per dire: "Non so perché parlo con quest'ardire".

2.38 Dentro il locale le arie di Rossini si spandono da parete a parete. Un ubriacone reclama Puccini. Ebbri tra gli habitué si compete in cori stile Domingo e Pavarotti, e si ciancia con toni pseudodotti sui dilemmi del pianeta, si sfogliano i giornali, l'attenzione si convoglia sulle news e lo sport, o meglio ancora, sul foglio centrale con le vignette, nel quale ogni giorno Garfield si mette pancia all'aria e s'ingrassa. Si colora di polemica qualche discussione, ma sulla birra non c'è divisione.

2.39 Eccoli i due, rapiti dal flusso delle parole. Jan entra, li coglie, ma cosa sente? Potrebbe esser russo la lingua in cui parlano. Lei distoglie lo sguardo, resta lontana e contempla: John è gioviale ed euforico; sembra stare anche a suo agio. Liz (ma chi è?), tutta esuberante in un macramè di spiegazioni e racconti, appare raggiante. Jan riflette: "Come dire, mi sa che non mi va di interferire... E poi ecco! Dovrei dar da mangiare ai miei piccoli dèi che aspettano a casa. Tornerò quando sarò più persuasa".

2.40 Senza esser vista, Jan esce, privata della sua abituale pausa caffè. Dentro, nel bar, Liz rimane incantata a guardare John che sorseggia il caffè, assaggia le torte, la sua corazza depone. Lei ride e pensa: "Che razza d'uomo prezioso! Ha stile, mi attira, e io gli piaccio. La fortuna gira?". (O usignoli! Luna! Rose fiorite!) Il discorso è etereo come champagne. Lei gli parla del suo gatto: "Charlemagne! Una bestia speciale!", John sorride, e un brindisi propone: "Lunga vita alla Francia e alla Britannia Unita!

2.41 Che fioriscano e prosperino insieme". Felice (giusto un'ombra di tristezza), lui finisce il caffè: "Ma la mia speme adesso è di ottener la sicurezza di rincontrarti. Giovedì? Di sera? Che ne dici? Non porre una barriera. Facciamo al Paradiso, è nell'Haight, oppure un film dopo cena, all right?". Liz pensa: "Oddio, il gruppo di Gestalt! Ho già saltato la volta passata: M'hanno detto che se non fossi andata stavolta...". Ma il suo pensiero si arresta, e accetta. "John, grazie", e son fuori. Si dan la mano... si toccano i cuori.

2.42 Passano i giorni in un picosecondo. O scorrono lenti, sembrano eterni. Il tempo è fermo o vola, a seconda. Ma fluttuando Liz tra miraggi alterni, lascia le ore a sfilare via in fretta; John si tortura a guardar la lancetta che espande il tempo che lui e Liz separa dal giovedì... è un'attesa amara fatta di grigie giornate. Ma arriva alla fine l'agognato appuntamento. John sta lì prima, e l'arredamento contempla. Liz fa un'entrata da diva: un vestito bluette mette in gran risalto lo zaffiro dei suoi occhi cobalto.

2.43 I suoi capelli biondi in una crocchia soffice tien raccolti. Una perla, appesa a un filo d'oro, grazia agli occhi aggiunge. John non riesce, sarà per la meraviglia, o per la confusione, a emettere suono: un'illusione divina? Sto sognando? Si rià giusto per farfugliare: "Come va? Spero... Liz... non sia poi stato un casino arrivare...". Gli manca il fiato. Siede. Liz gli dice: "Mister Brown, si dia requie. Son nervosa anch'io. Se m'avvicino, la folgoro". Ma con un inatteso moto d'affetto, la mano ha già preso.

2.44 John abbassa lo sguardo, ma poi lento rialza la testa, sospira. Si guardan l'un l'altra, tra seduzione e sgomento, occhi negli occhi. Il maξtre, con la barba folta, e un bel fisicaccio da macho, dice: "Anche se fa freddo, il gazpacho è il piatto ch'io raccomando. D'agnello delle noisettes, o magari vitello, vol-au-vent, a seguire...". Sono inutili i suoi suggerimenti. E le parole gli scivolano addosso. "Beh. L'amore passa sopra a ogni cosa. Son perduti tra desideri infiniti, gli amanti, ma almeno lasciano mance abbondanti..."

2.45 Liz, sballottata nella confusione mentale, prende quindi la parola: "Oggi avevo una causa... Collusione...", e John le dice: "Non so che dire, ora. Da quando ci siamo visti, non riesco a pensare a nient'altro – è bambinesco! – credevo fosse un gioco, però quando ci incontriamo, mi sento nello sbando più totale – è come se il mio cuore cedesse – dei dolori così forti che non riesci a guarirli né a opporti. Resti schiacciato. Lo stesso dolore questa domenica s'è riaffacciato nel momento in cui tu m'hai salutato".

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Pagina 63

Tre



3.1

Mentre Liz e John vanno fuori fuoco,
avvolti da una amorosa foschia,
caro Lettore, verso un altro luogo
volgiamo ora l'obiettivo; ossia
alla profonda fenditura del suolo:
i rustici indigeni, e lo stuolo
di chi respira quest'aria e si bea,
qui, lungo la Faglia di Sant'Andrea.
Gli scambi, il governo, la natura
nel suo splendore, le follie d'amore,
si susseguono senza alcun timore;
sotto di loro giace la frattura,
spaventosa autrice di quelle scosse
che apron le rocce come niente fosse.


3.2 Un bimbo biondo, con suo padre siede in vetta a una collina, sopra un sasso. Il figlio, Paul, con gli occhi un bruco segue, Phil, il padre, seduto un po' più in basso, (intimo amico del John succitato) mentre Paul s'acciglia, è rilassato. Paul ha solo sei anni, Phil ventotto; nasce un battibecco, così, di botto, e Phil con il braccio cinge suo figlio. Phil ricorda: "Vedi, alla tua età, rapido, l'umore del tuo papà mutava, come per te...". Con cipiglio, Paul lo interrompe: "Pa', sei quasi calvo". "Lo so", dice Phil, mettendosi in salvo.

3.3 Phil considera la sua condizione: "Se è pur vero che il nostro patrimonio genetico fissa la propensione a perdere capelli... questo demonio!?... (Stritola una foglia secca, si gratta con le dita la pelata ultrapiatta, in esplorazione, si sfrega il naso, e si toglie gli occhiali.) Metti il caso... (aggrotta le ciglia in meditazione) ...se invece di perder tutti i capelli, ci si coprisse la fronte di velli che poi si spandessero in migrazione agli occhi e alle guance, e poi alla bocca... Meglio diventare calvi, se tocca!".

3.4 Sollevato da quest'idea bislacca Phil indirizza ora le sue attenzioni alla fredda stagione e a tutti i suoi acca- dimenti: le querce di dimensioni difformi, alcuni passeri in volo, o l'avanzare dei licheni al suolo, e sul macigno dove Paul cantando siede, la collina col suo rimando dorato, il cardo che inaridisce, e i rovi, e l'aria fredda e lucente presagio di un temporale imminente; il tordo beffeggiatore garrisce, volando liquidamente attraverso il cielo californiano azzurro terso.

3.5 Due sottili querce, nel freddo oscuro, i rami nudi, ornano la vetta. Sopra la roccia, in volo sicuro la ghiandaia verso il nido s'affretta, — uno scatto improvviso — dove il verde riverbero del vischio si disperde nell'intrico di generose fronde del suo ospite; e le mandrie errabonde si spargono lungo gli umidi fossi, vibrano d'intento, ansanti e pronte, per arrivare alla cresta del monte, severe d'aspetto, come colossi, battendo la terra con colpi netti di zoccoli: sono atleti perfetti.

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Pagina 110

Cinque



5.1

Una settimana fa, terminato
il capitolo che avete appena letto,
e, con desiderio sempre immutato,
create altre rime, per diletto,
un editore a una festa elegante
(con buon vino, cibo, chiacchiere tante)
ospitata da (viva!) Thomas Cook,
dove fu celebrata e forse più
la mia guida del Tibet — mi fa: "Senti,
che ci prepari?". "Un romanzo..." "Bene!
Speriamo che tu, mio caro Seth me ne..."
"...in versi." Si fa giallo. Mostra i denti.
"Che meravigliosa... eccentricità!"
E fingendo distacco, se ne va.


5.2 Critici e editori... tutti hanno storto il naso. Non ero più nel giusto. Un autore è un artritico in affanno tra questi Dèi muscolari del Gusto. Per il biancomangiare si è poeta? Il mondo è duro. Non lo sa, l'asceta? Sbavare rime può esser divertente, ma la domanda è: lo sputo vende? Cincischiando in casa, in depressione, la volontà è esausta. Il cuore pesto. La mia lira ormai è muta. Ho per questo, per aver conforto, una riunione indetto con amici o presunti tali per spiegar i miei traguardi finali.

5.3 Come giustificare questa stanza? Le rime molli? La musa indolente? L'assurdità di questa stravaganza démodé? Come usare, indifferente al tempo, la struttura dell'Onegin nella desolata terra di Reagan? Questi pani non lieviteranno? Davanti ai miei occhi avvizziranno? Dei miei versi non so dare ragione. Ma poiché nessun sudario di termini potrà salvare il mio corpo dai vermi, dovrò imbarcarmi nell'operazione. Se non va, una giustificazione non rinvierà la sua tumulazione.

5.4 Chiedono perché ho usato il tetrametro. Perché un tempo era nobile, eppure stenta di fronte al fiero pentametro, maestà dell'inglese. A malincuore vedo queste meravigliose strofe svilirsi (negli Hudibrastic Poems; d'ogni genere di trucco cosparsi, irregolari e artefatti), disfarsi. Perché prendere tutto così male? Be', non sarebbe così se io potessi curare il valore e il ritmo stessi, considerai, ma (ed è fatale!) un giorno non ci sarà più per me tempo d'aspettare. Ecco perché.

5.5 Lettore, basta con l'apologia; ascoltami se credi conveniente — prima di arrestar questa litania — fissare una strofa in modo suadente, perché tu spenda del tempo in riposo con questa fonte di gusto corposo: chiara, dolce, gaia, fluente, colta. L'omaggio lo devo a ciò che una volta mi ha regalato, in ispirazione e in delizia. Per me vale un memento di quanto io debba a Puskin, all'immensa opera di Johnston sulla traduzione dell'Evgenij Onegin — come spumante, la sua effervescenza è quasi accecante.

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Pagina 171


7.26

In difesa della democrazia
un Cesare rinuncia al suo regime?
Un padrone alla schiavocrazia?
Quale gatto rifiuta il suo mangime?
Chi si aspetta un pronunciamento
disinteressato del Parlamento,
dell'esercito o della Casa Bianca,
vive nella favoletta di Bianca-
neve. Non si può aspettare la legge.
Ma dobbiamo affidarci ai nostri mentori,
Thoreau, Martin Luther King, Susan Anthony,
la vecchia memoria di chi protegge
i principi della nostra nazione
che fu "fuori-legge" dalla fondazione.


7.27 Non c'è più tempo – quando l'escalation riempirà gli arsenali di potere distruttivo, e l'ultimo rovescio della ragione indurrà le alte sfere delle nazioni a schiudere i boccioli di morte, e far germinare stuoli di scheletri – in nome del benessere! Noi dobbiam sconfiggere le accortezze, e pregare, agire in ogni modo – pacifico, non servono eroismi – che possa evitare i cataclismi. I test nucleari non hanno altro scopo se non una futura guerra: questo deve pensare ogni singolo terrestre.

7.28 Gente di Lungless, in punto di morte sarete lieti che il vostro lavoro sarà servito per dare manforte agli obiettivi di tutti coloro che attaccano il cuore dell'esistenza? L'avete fatto anche se la coscienza vi avvertiva di questi scopi. Quale scrupolo vi siete fatti? Il male per la sua banalità è famoso. Quelli che ad Auschwitz han costruito i forni, che Dio posson pregare? Tutti i giorni timbravano il cartellino luttuoso, scherzavano, giocavano coi figli, la vergogna non gli dava consigli.

7.29 Uccidere è morire. L'equazione non ha niente di mistico. Θ vera in tutti i sensi. La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport. Non ha visto morti e bombe, mentre "dall'altra parte" si soccombe- va sotto le granate. Che sentore possiamo mai avere noi del terrore russo della guerra, l'immensità dei loro morti? Ci esalta la corsa alle armi, anche adesso che la morsa del nucleare, tutto, annienterà. Eppure parliamo di "attacchi mirati", "danni collaterali limitati".

7.30 Non c'è salvezza e non c'è vittoria. Non c'è difesa, non c'è alcun confine. Non ci sono limiti, non c'è storia. Non ci sono più nemici alla fine di questo fratricidio. Creperemo tutti, sì. A dispetto del supremo orgoglio onnisciente dei nostri leader. Quando tutto sarà compiuto, ridere sarà assurdo. Che stramba ortodossia! Dicono, l'America è superiore dato che in Russia chi protesta muore! Ma questo vuol dire che noi, ossia, quelli contrari a questa guerra atroce, dobbiamo essere i loro portavoce.

7.31 "Dieci ostaggi" vuol dire terrorismo; un "milione" ed è una strategia. Censurare dei libri è fanatismo, distruggere del tutto e spazzar via la cultura, la civiltà, l'intero consorzio umano, l'antico mistero del creato, è un atto di dignità che richiede gran forza e volontà. Ci vuole un po' di chiarezza morale per pensar che è giusto sterminare ogni famiglia russa, solo perché i sogni di gloria dei loro leader — è uguale per i nostri minacciano l'orgoglio della nostra Patria e del dio petrolio.

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