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| << | < | > | >> |Indice7 Premessa 11 1. Il prezzo del velo Per un fazzoletto, 13; La guerra delle moschee, 17; Clericalismo e patriarcato, 19; La quarta etnia, 21 25 2. Le malvelate Non solo taleban, 27; Sotto il burqa, 32; Il modello saudita, 34; L'onore del maschio, 37; Il niqab europeo, 39 43 3. Sesso in città Spose bambine, 44; Donne di Algeri, 45; Quale verginità?, 48; Le ragazze di Riyadh, 51; Sessuofobia, 53; Il machismo delle banlieue, 56 61 4. Tombe senza nome Delitti d'onore, 62; Sacrificio inutile, 64; Hina e le altre, 66; Suicidio d'onore, 70; Case rifugio, 72; La mattanza di Hassi Messaoud, 74; Dalla Palestina a Kabul, 76 79 5. Matrimonio a piacere Bottino di guerra, 82; Poligamia all'italiana, 83; Il codice dell'infamia, 88; Questione di casta, 91; Persone dimezzate, 93; Ostaggi dell'islam, 94 99 6. Tutte pazze per Khaled Pericolo al volante, 102 107 7. Le vedove nere Matrimonio per esistere o morire, 109; Kamikaze per salvare l'onore, 111 115 8. La regina di Saba Le prime ministre, 118; Uguaglianza o discriminazione?, 120; Meglio gli immigrati delle donne, 123; Precarietà algerina, 125 127 9. Con il vento tra i capelli Visi pallidi, 130; Muslim Style, 133 137 10. La schiavitù del velo L'ideologia del velo, 138; L'hijab e il Corano, 141; Aisha e la Battaglia dei cammelli, 142; La segregazione, 144; Shahrazad, 145; Le mujahidat, le combattenti, 147; L'egiziana, 148; Il femminismo arabo, 149; Le compagne di Qassam, 152; Verso la secolarizzazione?, 154 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Da "tagliatori di teste" a difensori dei diritti umani. Non delle donne, naturalmente. Siamo a Sarajevo, Europa, un tempo capitale multiculturale e multietnica dei Balcani, diventata durante la guerra dei primi anni novanta terreno di conquista per i mujahidin, i combattenti di credo wahabita seguaci della rigida interpretazione saudita dell'islam. La guerra è finita, il futuro resta incerto, ma gli ex combattenti non considerano concluso il loro primo compito: reislamizzare la Bosnia, porta d'accesso all'Occidente. Non vanno più in giro a mostrare le teste mozzate dei nemici, ma invocano il rispetto dei diritti umani, anche perché dopo 1'11 settembre per gli Stati Uniti — che li avevano sponsorizzati in precedenza - sono diventati "nemici combattenti", possibili "cellule dormienti" di al Qaeda. Sei tra loro, algerini, sono già finiti a Guantanamo. A Sarajevo protestano contro la decisione del governo bosniaco - presa sotto la pressione degli Usa - di espellere circa quattrocento stranieri provenienti da paesi musulmani, che avevano avuto la cittadinanza quando per ottenerla bastava essere islamico e imbracciare un fucile a fianco dei fratelli bosniaci. Alcuni sono già fuggiti nei paesi vicini per continuare il loro jihad, altri non hanno alcuna intenzione di andarsene. Perché dovrebbero abbandonare le roccaforti di Zenica, Travnik e soprattutto Bocinja dove hanno imposto il loro modello di vita "rigoroso" vietando l'alcol, il fumo e la musica, e introducendo l'obbligo delle preghiere, della barba per gli uomini e del velo per le donne? Se, durante la ronda per il paese, i "guardiani della virtù" vedevano una donna con una gonna di lunghezza non regolamentare glielo facevano notare a suon di sciabolate. Se non portava il velo la rapavano a zero. E sparavano addosso a chi osava fare il bagno in costume. Ma dopo l'attentato alle Torri il clima è cambiato.
"Errori dei fratelli" li definisce ora Abu Hamza, siriano, già capo della
comunità di Bocinja, seicento
abitanti tra cui un centinaio di stranieri, che in pubblico gioca il ruolo del
"moderato" in contrasto con la
sua immagine inquietante: barba lunga e folta, camicione largo e nero a
coprire il corpo tozzo. Adesso invoca il rispetto dei diritti umani, e per farlo
porta in piazza, davanti al Parlamento, le donne "convertite" al
wahabismo, tutte completamente coperte di veli neri,
come mai si era visto in Bosnia. Loro, le donne, non si
fanno vedere in volto ma fanno sentire la loro voce:
"Che fine faremo se i nostri mariti saranno deportati,
e che fine faranno i nostri figli?". I rischi esistono, soprattutto per Abu
Hamza che, oltre alla revoca della
cittadinanza, è stato anche iscritto dalle autorità bosniache nella lista delle
quindici persone ritenute "più pericolose per l'ordine pubblico", proprio per la
sua capacità di mobilitare tutti gli estremisti bosniaci.
Per un fazzoletto Il problema della sopravvivenza, ovviamente, non riguarda solo le mogli degli ex combattenti. Le organizzazioni "umanitarie" provenienti dai paesi islamici approfittano della povertà per fare proselitismo: se porti l'hijab, il velo islamico, ti danno quattrocento marchi bosniaci al mese (circa duecento euro) e se in famiglia vi sono più donne si possono racimolare cifre ragguardevoli. Una dinamica che mi ricorda da vicino la Somalia di qualche anno fa. Allora il "mensile" per il velo era di cento dollari. Tutto dipende dal costo della vita! Le donne somale non erano abituate a un velo così rigoroso, ma i cento dollari servivano e allora si mettevano il chador, il velo in stile iraniano, ma di colori sgargiantissimi: fucsia, verde mela, blu elettrico. Certo, questo chador non aveva nulla a che vedere con lo scuro rigore wahabita, ma era diverso anche dal tradizionale velo somalo, coordinato con l'abito e portato con grande disinvoltura ed eleganza senza pensare alle tante ciocche che restavano fuori. Anche per le bosniache il velo è spesso una necessità. Nuzeiba, quarantacinque anni, di Tuzla, non ha scelto di portarlo di sua volontà: "Mio marito è stato ucciso a Srebrenica nel 1995 e sono rimasta sola con quattro bambini, senza soldi e senza lavoro, che cosa potevo fare? Con il denaro che ricevo [da un'organizzazione "umanitaria"] posso vivere decentemente, ma devo rispettare le leggi islamiche. Le mie figlie frequentano gratuitamente una scuola islamica e i miei figli studieranno gratis a Sarajevo o in un paese islamico". Nuzeiba e i suoi figli sono sopravvissuti al massacro di Srebrenica del luglio 1995, quando i serbi uccisero a freddo oltre settemila musulmani. Altre donne invece, sostengono che il velo è stata una loro scelta. È il caso di Fahira Fejzic Cengic, della facoltà di Scienze politiche di Sarajevo: "Ho deciso di portarlo, assolutamente consapevole di tutte le conseguenze positive e negative," ha scritto su un giornale locale. Ma c'è anche chi si copre per sentirsi più sicura. Nei paesi in guerra molte donne cercano una protezione e la propaganda fondamentalista può avere gioco facile su persone indifese. La popolazione in Bosnia è ancora traumatizzata dalle devastazioni provocate dallo scontro interetnico. La ricostruzione non ha rimarginato le ferite. I fori dei colpi di mortaio ancora lì, visibili sulle facciate dei palazzi, ne sono una testimonianza. Sofferenze per le perdite subite, per la paura e la povertà: la diffusione del velo le rappresenta tutte. | << | < | > | >> |Pagina 37L'onore del maschioIl velo dunque non è solo un semplice pezzo di stoffa. Mentre le donne dei paesi musulmani sono alle prese con una reislamizzazione che introduce anche un nuovo modo di portare il velo, l'hijab ha fatto irruzione anche in Occidente cogliendo impreparati i governi di paesi di nuova e vecchia immigrazione. Le posizioni sono spesse volte contraddittorie, indipendentemente dall'appartenenza politica. La decisione più drastica alla fine è stata presa dalla Francia che, nel centenario della solenne Dichiarazione sulla laicità dello stato, ha varato una legge che vieta ogni simbolo religioso nelle scuole. (Quindi non solo il velo, anche se naturalmente l'attenzione generale si è focalizzata su quest'ultimo più che sul crocifisso o sul turbante dei sikh.) La legge ha innescato un dibattito dai toni molto aspri. Anche perché al velo, dentro e fuori i confini francesi, viene attribuito un forte valore identitario. Ma perché solo le giovani di oggi avrebbero bisogno del velo identitario, mentre le loro madri non hanno conosciuto questo tipo di necessità? Sono le nuove generazioni, quelle nate in Europa, a rivendicarlo. E spesso non sono nemmeno le ragazze ma gli uomini delle rispettive comunità a imporlo: la loro identità (quella maschile) viene costruita sul corpo delle donne. Così come il loro onore si basa sulla verginità! O per dirla con l'iraniana Chandortt Djavann "il pudore e la vergogna della donna sono i garanti e l'espressione dell'onore e della virilità dell'uomo musulmano". Al di là della crisi dei valori, delle difficoltà di integrazione e delle ideologie che sostengono l'atteggiamento dei ragazzi delle banlieue (di cui tratterò diffusamente più avanti), la domanda che ci si deve porre è se una legge del genere poteva essere utile o meno alle ragazze che subiscono delle imposizioni. La legge avrebbe anche potuto allontanarle da scuola, aumentandone così l'emarginazione. Era difficile valutare l'impatto di queste disposizioni, per questo avevo deciso di andare a Parigi per constatare la reazione alla legge quando questa fosse entrata in vigore, vale a dire alla riapertura delle scuole nel settembre 2005. In settembre non mi era stato possibile, ma quando finalmente ho potuto andare in Francia, in dicembre, il problema del velo nelle scuole, con mia grande sorpresa, già non esisteva più. Secondo il ministero dell'Educazione francese solo quarantasette studentesse in tutto il paese si erano ritirate dalla scuola pubblica, tra cui alcune per frequentare scuole cattoliche, altre per seguire corsi per corrispondenza e le rimanenti, probabilmente, avevano abbandonato del tutto gli studi. Un prezzo è stato pagato, è vero, ma tra quelle che ora a scuola possono liberarsi del velo è cresciuta la fiducia in se stesse e la spinta ad affrontare anche gli islamisti che quel velo vogliono imporre. Occorre ricordare che la legge era riuscita a vincere molte perplessità anche perché durante il rapimento dei due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, una delle richieste dell'Esercito islamico dell'Iraq per la loro liberazione era stata il ritiro della legge sul velo. Questa richiesta alla fine si è rivelata un boomerang per gli islamisti, perché tutti i rappresentanti delle comunità islamiche in Francia si sono schierati contro la richiesta dei rapitori. Al di là di questa congiuntura, forse a volte le forzature servono. | << | < | > | >> |Pagina 56Il machismo delle banlieueIl tabù della verginità insegue le donne anche nei paesi di emigrazione. E viene tramandato anche alle nuove generazioni nate in Europa. Dopo le lotte femministe degli anni ottanta le immigrate delle banlieue francesi avevano conquistato maggiore libertà, ma gli anni novanta hanno segnato un penoso ritorno al passato. Fino ad allora gli immigrati, la maggior parte di origine algerina, avevano sperato di trovare un proprio ruolo all'interno della società francese: i genitori cercavano di garantire ai figli un'istruzione perché potessero avere un futuro migliore e le speranze venivano condivise da tutta la comunità. Ma alla fine degli anni ottanta la crisi del mondo del lavoro e la conseguente disoccupazione hanno provocato un forte degrado dei quartieri, mentre il venir meno di valori di riferimento di sinistra e progressisti ha generato un sensibile arretramento culturale. È in questa situazione che l'islamismo radicale - proprio mentre si stava imponendo il Fronte islamico di salvezza (Fis) in Algeria - ha costituito per i giovani delle periferie un'alternativa alla ghettizzazione e al senso di ingiustizia. I Fratelli musulmani, improvvisando moschee in locali comuni - cantine, garage ecc. - hanno cominciato a fare proseliti e a diffondere la loro interpretazione fondamentalista e machista del Corano, incentrata sull'intolleranza. All'inizio le famiglie degli immigrati, che temevano una deriva delinquenziale dei figli, hanno incoraggiato la loro frequentazione delle moschee. Anche le autorità, per tenere sotto controllo le banlieue, hanno dato a questi nuovi imam il ruolo di interlocutori, dando loro quindi maggiore autorità. "L'islam era diventato una nuova morale regolatrice che evitava a questi giovani disoccupati di cadere nella delinquenza. [...] I poteri locali, gli eletti delle amministrazioni territoriali e soprattutto i sindaci, di qualunque tendenza politica, li hanno riconosciuti come interlocutori privilegiati. Per i militanti della mia generazione che rifiutavano il fatto che un 'religioso' si occupasse di questioni politiche è stato terribile," spiega Fadela Amara, militante femminista, nel suo libro Ni putes, ni soumises. Quando si è cominciato a manifestare l'effetto nefasto di queste pratiche integraliste ormai era troppo tardi. Le prime a pagarne le spese sono state le famiglie stesse: i genitori, a Parigi come ad Algeri, venivano messi a tacere con l'accusa di essere ignoranti, di non conoscere l'islam, il "nuovo islam" nella versione wahabita. In nome della reislamizzazione i giovani imponevano nuove regole di comportamento soprattutto alle donne, prima a quelle della famiglia e poi a quelle della comunità e del quartiere. Chi non si adattava alla nuova situazione veniva accusata di essere "miscredente" oppure una "poco di buono". Le banlieue la sera sono deserte, a parte qualche giovane che controlla la situazione. Ero stata a La Courneuve, uno dei quartieri più caldi della periferia parigina, nel dicembre 2005, nei giorni in cui si celebrava il centenario della Dichiarazione sulla laicità. Al dibattito organizzato da Mimouna Hadjam, famosa animatrice del centro culturale Africa, uno dei più impegnati nelle questioni degli immigrati, non c'era nessuna donna del quartiere. Avevano paura. "La maggioranza delle donne, che non lotta, non ha mai provato il potere della libertà, non crede a una liberazione. Crede che a guidare il mondo sia un oscuro destino. Allora si rifugia in un contro-universo: la fede, la religione e la maternità," scriveva nel 2001 la Hadjam. La situazione non sembra cambiata. Anzi. "La crescita della violenza, la decomposizione sociale, la ghettizzazione, il rifugio nella comunità, la discriminazione etnica e sessista, il ritorno in forza delle tradizioni, il peso del mito della verginità..." sono ben descritti nel Livre blanc des femmes des quartiers della sociologa Hélène Orain. Su queste tematiche si concentra anche il lavoro di "Ni putes, ni soumises", che da slogan si è trasformato in manifesto e poi in petizione e libro nel 2002. La sessualità nelle banlieue è sempre stata un tabù, ma ora l'imperativo della verginità pesa sulle ragazze più di vent'anni fa: sanno che se la perdono la pagheranno cara. Peraltro, con il controllo esercitato dai maschi sul quartiere tutto quello che succede viene reso noto immediatamente. Quindi tutti i rapporti devono avvenire in un modo assolutamente clandestino, meglio se fuori dal quartiere, da dove spesso le ragazze escono con il velo per non essere importunate, ma lo tolgono non appena valicano i limiti territoriali. A volte non basta nemmeno l'hijab per evitare la violenza e gli stupri di gruppo, che però non sono certo una prerogativa delle sole banlieue e neppure degli immigrati. Per proteggersi, le ragazze si sono costituite a loro volta in bande, come i ragazzi. I maschi considerano i sentimenti come segni di debolezza, considerano le ragazze alla stregua di oggetti e per dimostrare la propria superiorità arrivano anche a cedere la fidanzata agli altri del gruppo. Le ragazze sperano nel matrimonio come via d'uscita, e per questo si sposano molto giovani. Il padre, per evitare sorprese, fa redigere un certificato di verginità. "E nelle banlieue," è ancora Fadela Amara a raccontare nel suo libro, "ci sono medici specializzati nella redazione di certificati di verginità. [...] Molti lo fanno perché sanno che solo certificati falsi possono salvare le ragazze da rappresaglie terribili." Come salvare allora la verginità nonostante la pressione dei ragazzi che insistono per avere rapporti sessuali? Facendosi sodomizzare; non provando alcun piacere. Ma alla fine questa costrizione diventa insopportabile! "Lo scarto che c'è tra la mia generazione e la loro mi sembra vertiginoso. Noi ci siamo battute per avere il diritto di vivere la nostra sessualità. Anche se la materia era tabù, i rapporti che avevamo con i nostri compagni erano tacitamente accettati nelle famiglie," conclude Fadela Amara. | << | < | > | >> |Pagina 99"Tutte le ragazze vanno pazze per Khaled," mi dicono sconsolate e preoccupate le amiche femministe sia ad Algeri sia a Tangeri. Non si tratta però del Khaled famoso cantante raï, che andava per la maggiore fino a qualche anno fa, ma di Amr Khaled, un religioso egiziano diventato il telepredicatore più in voga del momento, con milioni di seguaci. Attraverso le onde della tv satellitare saudita al Iqra diffonde il suo messaggio in tutto il Medio Oriente presentandosi con un'aria accattivante: abiti moderni, senza barba, racconta la vita di Maometto come se si trattasse di una telenovela piena di emozioni e di scene appassionanti e drammatiche. Dagli schermi illustra anche gli ultimi dettami della moda islamica, con foulard di rigore, naturalmente. I suoi detrattori lo accusano di fare il marketing dell'islam, anche perché Amr Khaled non è un teologo, una circostanza da lui mai negata. Tra i suoi teledipendenti, perlopiù donne che seguono alla lettera le sue indicazioni, ci sarebbe anche la regina Rania di Giordania, che tuttavia non porta il velo. Amr Khaled non è l'unico telepredicatore islamico, ma sicuramente è il più temuto: era stato anche espulso dall'Egitto perché ritenuto pericoloso dal governo e da lì si era rifugiato in Gran Bretagna, dove ha vissuto buona parte degli ultimi anni tanto da diventare uno degli interlocutori di Blair per la comunità islamica. È temuto dai governi arabi perché c'è chi crede che dietro i suoi proclami religiosi possa nascondere obiettivi politici. Del resto, non si conosce nemmeno la sua vera occupazione: sul suo biglietto da visita, a parte il nome, vi sono solo i recapiti telefonici di Beirut e Londra. Apparentemente moderato, è estremamente rigido nelle prescrizioni relative al comportamento religioso dei suoi seguaci, con particolare accanimento, guarda caso, per il velo: "Non portare l'hijab è il peccato più grave," sostiene. Rigido e spregiudicato allo stesso tempo, riceve finanziamenti sia dalla Nike sia dai wahabiti sauditi. Il suo atteggiamento "ammiccante" può essere comparato a quello di un altro leader islamista di origine egiziana, Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani, Hassan al Banna, che vive però in Europa, a Ginevra. Pur non essendo un telepredicatore di professione, Ramadan ha un grande appeal mediatico e sfrutta le apparizioni in tv per far passare una visione dell'islam tutt'altro che moderata. Proporre, come ha fatto di recente, di sottoporre al giudizio degli ulema la necessità o meno di mantenere in vigore la lapidazione è semplicemente aberrante. E va ricordato che la morte a sassate viene riservata prevalentemente alle donne, giudicate colpevoli di adulterio. Per l'uomo invece la pena è prevista solo se il fatto è commesso dentro le mura domestiche! Eppure Ramadan affascina non solo gli uomini, ma anche le donne, vittime predestinate. L'affabulatore Tariq non mira tanto alla difesa della comunità musulmana in Occidente, ma a islamizzare l'Europa, anche se naturalmente gli fa buon gioco essere chiamato dai governanti europei come consulente sulla questione islamica, aumentando così il suo prestigio e la sua credibilità, proprio come Amr Khaled. Al Iqra non è certo l'unica tv dedicata all'interpretazione del Corano e alla moralizzazione islamica. I telepredicatori si sono moltiplicati negli ultimi anni, proprio come succede negli Stati Uniti o nell'America latina con i leader delle varie sette evangeliche. Vanno forte soprattutto nella wahabita Arabia saudita dove il rigore islamico passa proprio attraverso le tv satellitari, non solo private. "I nostri canali televisivi sono invasi da nuovi e vecchi predicatori che diffondono la loro visione del mondo direttamente al pubblico [...] rispondendo alle domande dei telespettatori, prorompono in accuse contro il sesso femminile. Eccitano emotivamente i telespettatori invitandoli a difendere le virtù contro le donne corrotte..." notava Hasna al Quna'ir sul quotidiano saudita "al Riyadh". L'editorialista scriveva che "le donne sono vittime dei discorsi dei predicatori che le condannano e per provare la loro inferiorità mentale, si avvalgono di una vergognosa distorsione degli hadith [i detti del Profeta]". Alcuni degli esempi riportati da Hasna al Quna'ir sono esemplari. A un telespettatore che chiedeva se consultare la moglie per chiedere il suo parere, il telepredicatore di turno rispondeva: "Non chiedere il suo parere, è emotiva e la sua opinione non è valida". [...] E citando un hadith del Profeta aggiungeva: "Una tribù che nomina una donna come leader non avrà mai successo..." "Molti predicatori," sostiene la giornalista, "si rifiutano di riconoscere che questo hadith è riferito a circostanze particolari e si colloca in un determinato contesto. Il Profeta non voleva riferirsi a tutte le donne, in ogni luogo e in ogni momento..." "Un altro predicatore incitava padri, fratelli e mariti contro le figlie, le sorelle e le mogli, sostenendo che se una ragazza non viene picchiata da piccola, crescendo diventa ribelle e difficile da controllare. [...] Lo stesso predicatore sosteneva che se una donna esce di casa senza il velo è come se fosse nuda. [...] E se stringe la mano di un uomo che non è suo marito è colpevole di... adulterio della mano." La questione che pone la giornalista saudita è "perché alcuni musulmani abbiano sviluppato questa visione disumanizzante delle donne, sprezzante della loro umanità e del loro onore. E questo avviene ignorando importanti fattori [...] come le circostanze storiche e lo specifico contesto alla base di alcune leggi religiose e regole che discriminavano le donne. Questo deriva anche dal fatto che non esiste alcuna distinzione tra i doveri religiosi che appartengono ai rituali - soggetti a principi assoluti - e le regole di comportamento, che sono controverse e non rispondono a leggi assolute, come l'uso di coprire il viso..."
Sono molti i giovani seguaci a condividere le posizioni estremiste di questi
predicator i fanatici. Purtroppo, le donne sono sempre le prime vittime di
questo tipo di cultura.
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