|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione di John Le Carré 7 Introduzione 10 1. La sperimentazione clinica prende la via della globalizzazione 15 2. Il controllo mediante placebo 35 3. Big Pharma: nascita di un monolito 55 4. Cavie senza gabbia 85 5. L'HIV e la soluzione di seconda scelta 102 6. Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'AIDS 127 7. L'esternalizzazione verso l'India: la politica del miliardo di corpi 141 8. Come ti aggiusto i codici etici 164 9. Il re è nudo: stranezze del consenso informato 177 10. Tenere la bilancia in equilibrio 199 Conclusioni 211 Note ai capitoli 216 Ringraziamenti 275 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Era una grigia giornata di ottobre del 2003. Un gruppetto di medici e scienziati si incontrò in una sala riunioni priva di finestre nel seminterrato di un hotel di Washington, DC. Lì John Wurzlemann, MD, mostrò a un pugno di colleghi, proiettandola su uno schermo bianco, una fotografia della Polonia di oggi. La scena era un paesaggio urbano qualsiasi, con scintillanti edifici di vetro e acciaio, circondati da ampi marciapiedi di cemento. Wurzlemann, un uomo in abiti dimessi e dal tono di voce pacato, sorrise mestamente. "Gran parte della Polonia non è così", fece notare con voce raschiante. "La maggior parte del paese appare ancora come era nel 1939", prima dell'invasione nazista e poi di quella sovietica. "Mio padre fece un viaggio in Polonia dieci anni fa; al suo ritorno raccontava che nulla era cambiato dagli anni '30. Tutto era semplicemente diventato più vecchio". E più malato. Quanto l'Europa dell'Est sia oggi più ammalata di ieri era appunto l'argomento della relazione di Wurzlemann quel tardo pomeriggio. Poveri, malnutriti e in preda a un'attrazione fatale per le sigarette, gli abitanti dell'Europa dell'Est stavano morendo a frotte, disse il dottore al suo uditorio. Mentre negli Stati Uniti il numero di morti per malattie cardiovascolari è andato costantemente diminuendo dagli anni '60, nell'Europa dell'Est questo tipo di malattie è cresciuto con estrema rapidità fino a raggiungere proporzioni epidemiche e a uccidere molto più in fretta. Wurzlemann era soltanto molto franco. "Malattia per malattia, — disse - le loro probabilità di morire aumentano". Wurzlemann passò rapidamente la sua presentazione in PowerPoint, corredandola con una valanga di dati e cifre sconvolgenti. "L'Ungheria ha il tasso più alto di mortalità per cancro della cervice uterina... L'incidenza del cancro alla mammella è più alta... In Polonia, tra la popolazione maschile, la mortalità per una qualche forma di cancro è la più alta di tutta l'Europa Orientale. La frequenza dei suicidi è molto più alta". Si soffermò un po' più a lungo su una diapositiva che mostrava una mappa dell'Europa, in cui i tassi delle diverse cause di morte erano segnati in rosso sangue. "Ciò che si vede chiaramente", disse Wurzlemann mentre il pubblico fissava in silenzio la mappa, "è che man mano si procede verso Est, i tassi di mortalità aumentano". Difatti, la mappa della Russia appariva come se vi avessero versato sopra una boccetta d'inchiostro rosso. La macchia si estendeva a tutti i paesi dell'Europa dell'Est, mentre la Francia, l'Italia e la Spagna erano pressoché intatte, appena deturpate, qua e là, da qualche macchiolina. Le frontiere nazionali segnavano un confine tra vita e morte, tracciato in linee nere esili come un sospiro. Gli abitanti dell'Europa Orientale, spiegava Wurzlemann, si ammalano non soltanto perché l'aria è inquinata, il cibo meno abbondante e l'acqua più contaminata. Si ammalano anche perché la quantità di denaro che il governo polacco sborsa per la salute di ogni cittadino è circa un quarto di quella che si spende mediamente nell'Europa Occidentale. L'esiguità di questi investimenti caratterizza tutta la regione. Perciò tutti i tipi di tecniche preventive, i metodi per la diagnosi precoce e i trattamenti che in Occidente hanno trasformato, nei casi peggiori, malattie mortali in mali cronici controllabili, là sono rari quanto i grattacieli scintillanti. Wurzlemann non ne fece cenno in quell'occasione, ma si potrebbe dire lo stesso per gran parte del resto del mondo, dato che ben oltre la metà dell'umanità è stata lasciata brutalmente indietro in questa corsa alla salute e alla longevità.
Wurzlemann trasse un respiro profondo, poi si volse verso il pubblico in
attesa e raccontò di aver potuto personalmente godere della salute, della
ricchezza e dell'istruzione dell'Occidente. Tuttavia, due generazioni prima la
sua gente aveva dovuto abbandonare la Polonia e la Russia che versavano in
condizioni difficili. Sorrise e mormorò sottovoce, quasi parlando tra sé: "È
una cosa che addolora, davvero". Quindi si riprese bruscamente e tornò alla
sua presentazione e alla relazione scritta.
I relatori che intervennero dopo Wurzlemann riferirono altri racconti dolorosi, che avevano come sfondo l'America Latina, l'Asia e il Sud Africa. Normalmente, un gruppo di medici che venisse a conoscenza di informazioni di questo genere risponderebbe proponendo possibili misure per alleviare il carico di sofferenze umane. Poteva servire impegnarsi nella formazione del personale sanitario? Abbassare i prezzi dei farmaci? Condurre più ricerche sull'eziologia delle malattie? Migliorare le tecniche diagnostiche? Ma né Wurzlemann né gli altri relatori erano venuti quel giorno a Washington, DC, per persuadere i loro colleghi ad aiutare le popolazioni povere e ammalate del Terzo Mondo, perlomeno non nel modo solito in cui i medici cercano di aiutare i pazienti. Quei dottori si erano riuniti perché le multinazionali farmaceutiche, come Pfizer, Eli Lilly e Merck, avevano un serio problema commerciale da affrontare. Grazie alle nuove tecniche sviluppate negli anni '70 dagli ingegneri genetici e dai biotecnologi, i laboratori delle industrie erano pieni fino a scoppiare di composti nuovi di zecca, e di idee su quali fossero i tessuti umani a cui li si poteva utilmente indirizzare. "Oggi ci sono più nuovi farmaci in fase di sviluppo, più trattamenti in sperimentazione... di quanti ce ne siano mai stati prima", dichiarava nel 2003 un esultante Mark McClellan — ex commissario della Food and Drug Administration (La Food and Drug Administration, o FDA, è l'organismo governativo americano preposto alle procedure di autorizzazione e controllo di farmaci, cibi e alimenti, NdT) - in occasione di un meeting di ricercatori che lavoravano per l'industria. Ma proprio mentre la rivoluzione biotech spiccava il volo, il processo per trasformare quei nuovi composti in prodotti da immettere sul mercato iniziava a ingorgarsi. Dimostrare che i nuovi farmaci erano efficaci sull'uomo in base alle norme previste dalle regolamentazioni dell'FDA era diventata un'impresa straordinariamente complessa, costosa e lunga. E ciò era causa di continue lamentele da parte di analisti e ricercatori dell'industria. La sperimentazione clinica era vista come un "profondo canyon" che devitalizzava i nuovi farmaci; una vera "valle della morte", a detta loro. "Le sperimentazioni su grande scala sono diventate la norma", lamentava un analista. "Tutti i professionisti che vi partecipano sono ormai rassegnati all'idea che questo genere di sperimentazioni durerà un'infinità di tempo e costerà un mare di soldi". A quanto afferma CenterWatch, un portale specializzato nella ricerca clinica svolta dall'industria, per lanciare sul mercato un singolo farmaco un'azienda deve convincere più di 4.000 pazienti a sottoporsi a 141 diverse procedure mediche ciascuno, in oltre 65 esperimenti distinti. Prima di tutto c'è la breve Fase 1, che prevede studi finalizzati a testare la sicurezza di un nuovo composto; quindi si passa alla Fase 2, un po' più lunga, in cui si cerca di raccogliere prove dell'efficacia del nuovo farmaco; infine c'è la lunga Fase 3 con esperimenti tesi a dimostrare l'efficacia di un farmaco con certezza statistica. Più di 100.000 persone devono essere convocate per gli screening iniziali, dato che solo una piccola frazione di loro si presenterà davvero all'appuntamento, e solo un'ulteriore frazione di queste avrà i requisiti medici necessari. Considerato che la spesa che comporta trovare un singolo soggetto e tenerlo dentro la sperimentazione si aggira come minimo sui 1.500 dollari, e considerato che circa il 90% dei farmaci sottoposti a sperimentazione clinica finiscono per non ottenere l'approvazione dell'FDA, minimizzare i costi e la durata delle sperimentazioni cliniche era diventato cruciale per la buona salute delle industrie farmaceutiche. Eppure, perlomeno negli Stati Uniti, è a dir poco difficile trovare un numero sufficiente di volontari per la sperimentazione clinica dei farmaci. Nel lontano 1954, si contarono a milioni gli americani che offrirono i loro bambini come cavie umane per sperimentare il vaccino antipolio di Jonas Salk. Quando i risultati di quell'esperimento di massa furono resi noti, gli annunciatori radiofonici urlarono la notizia ai quattro venti. Le campane delle chiese suonarono a stormo. Il traffico si paralizzò, perché i guidatori balzarono fuori dalle auto per gridare tutta la loro gioia. Ma non era ancora trascorso molto tempo che il vaccino, approvato in gran fretta dalle autorità sanitarie, infettò 220 bambini facendoli ammalare di poliomielite, e la fiducia della gente nella sperimentazione clinica dei farmaci iniziò ad affievolirsi. Seguirono, poi, le rivelazioni su esperimenti condotti nella totale inosservanza delle più elementari norme etiche - lo scandalo che nei primi anni '70 accompagnò la scoperta del "Tuskegee Study", uno studio sulla sifilide finanziato con fondi governativi, segnò un minimo storico - e la delusione lasciò il posto a una profonda avversione. Oggi, benché gli americani acquistino in media all'anno più di dieci farmaci su prescrizione medica, meno di un americano su venti si dichiara disposto a partecipare agli esperimenti clinici che fanno la differenza tra farmaci pericolosi e quelli salvavita. | << | < | > | >> |Pagina 85Molto prima che l'industria del farmaco si mettesse a caccia di corpi nei luoghi più poveri del mondo, i ricercatori della scienza medica occidentale contavano sui corpi delle fasce vulnerabili della loro stessa popolazione per soddisfare la propria curiosità scientifica. Il concetto di utilizzare corpi umani per cercare la risposta a domande scientifiche ebbe origine, in parte, dal riconoscimento del fatto che persino le farmacopee più sofisticate potevano fare ben poco per alleviare il tributo di morte pagato alle malattie e alle infezioni. Per una serie di secoli maledettamente lunga, nessuno seppe davvero come funzionava il corpo umano o perché si ammalava. La circolazione del sangue, la pompa del cuore, la pulsazione di nervi ed organi, tutti questi meccanismi nascosti restarono per secoli non svelati e il corpo rimase misterioso quanto gli strani fattori che sembravano portarlo improvvisamente alla malattia. Ma sezionando corpi e guardando ciò che vi era al loro interno, i medici occidentali incominciarono a capirne il funzionamento e che cosa accadeva quando un corpo si ammalava. In un migliaio d'anni la dissezione di corpi umani e la vivisezione — cioè la mutilazione di esseri umani vivi — portarono poco per volta a rivelare i meccanismi del corpo. Questo lavorio di lame avvenne per la maggior parte sui corpi dei poveri e dei detenuti nelle prigioni, e solo talvolta in pubblico, per dare spettacolo o come marchio di infamia.
I travagli di coloro che finivano per diventare "materiale clinico"
raramente erano argomento di conversazione fra persone beneducate. E comunque si
riteneva che i poveri e la gente di colore fossero, in generale, meno sensibili
al dolore. Come il grande fisiologo, e avido dissettore, francese Claude
Bernard scriveva nel 1865 nella sua
Introduzione allo studio della medicina sperimentale,
gli scienziati si ritenevano immuni "alle grida d'orrore della gente alla moda",
come lo erano, del resto, anche a quelle della gente che vivisezionavano. La
scienza medica si elevava al di sopra della mischia, egli insisteva, e poteva
essere giudicata soltanto da chi la praticava. Riguardo agli esseri umani
coinvolti negli esperimenti, perché gli scienziati avrebbero dovuto
rispettarne i diritti, se la società nel suo complesso non lo faceva?
Questi atteggiamenti perdurarono incontestati per quasi un secolo. Infine, uno studio governativo sul decorso della sifilide li svelò agli occhi di un'opinione pubblica scioccata. La sifilide è una vecchia malattia americana, portata in Europa dai marinai di Colombo al loro rientro in patria. In alcune persone il Treponema (un batterio spiralizzato, cioè a forma di un cavatappi) non provoca alcun sintomo per anni; in qualche caso la persona può non accorgersi neppure di averlo e inavvertitamente può trasmetterlo ad altri attraverso il contatto sessuale. In una sfortunata minoranza di casi, il batterio causa una malattia grave. I primi segni sono lesioni genitali, quindi si hanno un'eruzione cutanea generalizzata e ulcerazioni, infine "ascessi rivoltanti che divorano le ossa e distruggono il naso, le labbra e i genitali", secondo le parole usate da Roy Porter, uno storico della medicina. Non trattata, la sifilide è spesso mortale. (Per riparare il danno dei nasi distrutti dalla sifilide, i chirurghi del XVI secolo cucivano sul volto del malato lembi di pelle presi dalla parte superiore del suo braccio, lasciandolo per tutto il tempo della convalescenza, che poteva durare settimane, col braccio attaccato al naso.) La medicina aveva ben poco da offrire. Fino a quando, nel 1908, non furono sintetizzati i farmaci a base di arsenico, i medici prescrivevano l'applicazione di unguenti al mercurio, una terapia del tutto inutile che tuttavia causava la perdita dei denti, l'ulcerazione delle gengive e lo sbriciolamento delle ossa. Il fardello economico di questa malattia gravava pesantemente sugli Stati Uniti del sud negli anni '20 del Novecento. Il contagio era una piaga diffusa fra i neri poveri, la forza lavoro su cui contavano numerose industrie per poter funzionare. Se fosse stato possibile curare in qualche modo gli ammalati di sifilide, "i costi sarebbero stati ampiamente ripagati da un aumento dell'efficienza sul lavoro", affermò un medico del Public Health Service (PHS), il servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti. Era urgente condurre una ricerca medica sul campo. Con il suo prepotente odore di sesso, le deturpazioni che causava e la scia di morte che si lasciava dietro, la sifilide era considerata una malattia sporca, immorale. Gli ammalati di sifilide erano disprezzati a tal punto che, negli Stati Uniti degli anni '30, gli ospedali si rifiutavano di curarli. Nel 1934 un funzionario della sanità governativo fu buttato fuori da una stazione radio per avere semplicemente osato pronunciare ai suoi microfoni la parola "sifilide". Le persone colpite da malattie veneree erano relegate in istituti speciali, dove i segni della loro indegnità morale non avrebbero potuto contaminare i malati onesti dei vicini ospedali. Il destino dei ricoverati in queste cliniche non era affatto consolante. All'epoca, il trattamento standard — più di un anno di dolorose iniezioni settimanali di arsenico - era costoso, prolungato nel tempo e solo parzialmente efficace. Il senso pubblico di repulsione che circondava i malati di sifilide facilitò in molti modi questo esperimento. Nel 1931 Mark Boyd, che studiava la malaria con fondi della Rockefeller Foundation, iniettò il Plasmodium falciparum - il parassita che causa la malattia — a pazienti neri affetti da demenza dovuta alla sifilide, ricoverati presso un ospedale della Florida. A dire il vero, a quel tempo l'idea di uccidere l'agente batterico della sifilide inducendo alte febbri malariche era una specie di mania terapeutica. Ma mentre ai pazienti bianchi si inoculava di solito il Plasmodium vivax, una forma più blanda del parassita, Boyd infettò i suoi soggetti neri con il P. falciparum, il cugino con effetti mortali. Nessuna legge né consuetudine sociale imponeva a Boyd di richiedere ai pazienti o alle loro famiglie il consenso per questo trattamento, anche se in realtà lo richiese per un'eventuale autopsia sul corpo del defunto. Nel 1929, uno studio di fattibilità del Public Health Service [servizio sanitario pubblico] giunse a stabilire che era possibile avviare un programma per il trattamento in massa dei lavoratori rurali neri ammalati di sifilide. Ma giunti al 1932 i fondi per finanziare un progetto di tale ampiezza si erano prosciugati, e l'attenzione dei medici governativi si spostò dal piano della cura a quello della ricerca scientifica. E se avessero inserito gli ammalati di sifilide in uno studio a lungo termine, senza somministrare loro alcun trattamento, limitandosi semplicemente a osservare ciò che sarebbe accaduto? Uno studio del genere avrebbe permesso di dare risposta a parecchi quesiti interessanti, sosteneva l'ideatore del progetto, il Dr. Clark Taliaferro del PHS. Forse nei neri il decorso della malattia era differente che nei bianchi, per esempio, o forse non fornire alcun trattamento poteva dare risultati migliori. A ogni buon conto, l'esame autoptico dei soggetti che morivano per la malattia mentre erano sotto osservazione poteva contribuire a far luce su queste pressanti questioni. Persino allora, probabilmente, sarebbe stato impossibile condurre un programma del genere – finalizzato a studiare il "decorso naturale" della malattia - su pazienti bianchi, scolarizzati o appartenenti alla classe media. Ma i soggetti di questo studio erano braccianti neri poveri e quasi tutti analfabeti, provenienti da Macon County, Alabama, la contea dove si trova la cittadina di Tuskegee e dove allora il tasso della sifilide era in continua crescita. La scienza americana si era già servita della popolazione nera come fonte di materiale clinico, proprio come le piantagioni americane se ne erano servite per i lavori spacca-schiena nei campi. Gli inservienti e gli uomini delle pulizie dalla pelle nera, che ripulivano gli ambienti dopo l'opera degli scienziati americani, sono stati chiamati spesso a fornire corpi - umani e animali - su cui sperimentare. I ragazzini neri potevano essere indotti a catturare e addormentare con l'etere cani da usare negli esperimenti; uomini dalla pelle nera potevano essere usati per accudire gli animali da laboratorio nei bui corridoi delle cliniche; persone di entrambe queste categorie potevano essere avvicinate e indotte a offrire il proprio corpo per esperimenti orribili, come quello in cui i soggetti dovevano ingoiare un tubo lungo più di tre metri, che poi veniva gonfiato mentre era dentro le loro viscere. Eppure, i medici governativi ebbero difficoltà a trovare soggetti per il loro studio sulla sifilide in assenza di trattamenti, persino fra quegli operai neri che essi deridevano come pigri e ignoranti nella loro corrispondenza privata, più tardi raccolta da Susan Reverby, specialista in storia della medicina del Wellesley College. Alla fine fecero ricorso all'inganno, facendo finta di offrire quello che chiamarono "un trattamento gratuito". Infine entrarono a far parte di quello studio circa quattrocento uomini, tutti braccianti neri che si credevano ammalati di "sangue cattivo" ma che in realtà soffrivano di sifilide all'ultimo stadio, insieme a 201 uomini di pelle nera e in buona salute che dovevano fungere da gruppo di controllo. Poiché i soggetti ignoravano di essere ammalati di sifilide, i medici governativi non erano sottoposti ad alcuna pressione per offrire quelli che all'epoca erano considerati i trattamenti standard della malattia. Al loro posto offrirono, invece, unguenti al mercurio già da tempo in disuso, aspirina, tonici, pranzi gratuiti e un'assicurazione che copriva le spese di sepoltura, limitandosi a osservare i malati e a prendere nota del loro graduale peggioramento. Poiché era imperativo che i partecipanti a questo studio non ricevessero alcun trattamento farmacologico - che avrebbe contaminato i risultati dell'autopsia sul corpo del sifilitico - i medici governativi si incontrarono con i medici locali "per chiedere la loro collaborazione a non sottoporre quegli uomini ad alcun trattamento", dichiarò in seguito uno dei ricercatori coinvolti nello studio. Quegli uomini ingannati e lasciati senza cure si reputavano fortunati a partecipare allo studio. "La corsa per e da l'ospedale, su un veicolo con lo stemma del governo sul davanti e guidato da un'infermiera, era per molti di loro un segno di distinzione e si divertivano a salutare i conoscenti quando passavano loro vicino", ricordava l'infermiera assunta per reclutare i soggetti. Convinti di stare godendo del privilegio di cure gratuite da parte dei medici governativi, molti di quegli uomini misero su famiglia, trasmettendo senza saperlo l'infezione alle mogli e ai figli. | << | < | > | >> |Pagina 127Le vite della maggioranza degli occidentali sono così strettamente intrecciate con i rimedi dalla medicina - dai farmaci per il parto all'aspirina quotidiana - che credere nelle sue capacità curative è ormai divenuto un dogma di fede. Tuttavia nel resto del mondo le cose non vanno così. Secondo quanto afferma il farmacologo Mannfred Hollinger dell'Università della California, circa l'80% delle persone che vivono nei paesi in via di sviluppo - che complessivamente comprendono il 64% di tutta la popolazione mondiale - si affida ai guaritori tradizionali, non alla biomedicina occidentale. E nelle parti del mondo in cui la presa della medicina occidentale è, tutt'al più, debole, sperimentazioni cliniche malfatte possono alimentare una corrosiva sfiducia nei confronti della medicina allopatica in generale, con esiti potenzialmente devastanti. In nessuna parte del mondo questo fenomeno si è mostrato con maggiore evidenza che in Sudafrica, dove aspre controversie sulle fragili misure di protezione dei soggetti che partecipano alle sperimentazioni cliniche hanno dato periodicamente fuoco a una miscela volatile di rancori razziali e di sfiducia, accumulatasi in quasi cinquant'anni di apartheid. Fra il 1948 e il 1994 la minoranza bianca sudafricana, composta dai discendenti di immigrati olandesi, tedeschi e francesi, ha distribuito diritti e privilegi secondo un sistema schizoide di segregazione razziale, "apartheid" in afrikaan, la lingua simile all'olandese creata da questi coloni. Quando l'AIDS fece la sua prima apparizione verso la metà degli anni '80, i conservatori bianchi manifestarono apertamente la propria soddisfazione. "Se l'AIDS arrestasse la crescita della popolazione nera, - disse qualcuno - sarebbe come un regalo di Babbo Natale". L'apartheid aveva già iniziato un lento genocidio dei neri sudafricani. Fra il 1960 e il 1983 la polizia dello stato costrinse con la forza più di tre milioni di sudafricani di colore a lasciare le loro case per spostarsi in "township" e "bantustan", dove vivevano segregati e isolati dal resto della società. Mentre il governo destinava il 97% del budget per la sanità a terapie specializzate di alto livello tecnologico, che nel 1967 culminarono con lo sviluppo di una rivoluzionaria tecnica di trapianto cardiaco presso il Groote Schur Hospital di Città del Capo, i neri erano colpiti dalle febbri tifoidi con una frequenza 48 volte superiore ai bianchi e i loro bambini morivano per malattie di facile prevenzione, come il morbillo. Nelle township decine di migliaia di persone potevano dividersi un unico rubinetto per l'acqua. Infuriavano malattie come il kwashiorkor, una grave forma di denutrizione, ma il sistema sanitario non prendeva la benché minima misura per combatterlo. I pazienti neri morivano nell'attesa di un'ambulanza, mentre ambulanze riservate ai bianchi erano ferme nei pressi senza far nulla; chi sopravviveva all'attesa a volte moriva fuori da ospedali per bianchi, vuoti, che rifiutavano di lasciarli entrare. Nonostante vi siano state notevoli eccezioni, la classe medica sudafricana, in maggioranza bianca, approvava le restrizioni alla libertà dei neri imposte dal sistema dell'apartheid. Alcuni ricercatori studiavano apertamente la presunta inferiorità dei neri e nuovi batteri che fossero in grado di colpirli o ucciderli selettivamente. Il Medical and Dental Council del Sudafrica propugnava il diritto dei medici di "decidere a chi prestare la propria opera nelle situazioni non di emergenza". Vi erano medici che lavoravano per la polizia, presenziavano a fustigazioni e ad altre forme di tortura, firmavano rapporti menzogneri in cui i morti durante gli interrogatori erano dichiarati vittime di un incidente o di un suicidio. Quando il regime dell'apartheid finalmente cadde e il governo passò all'African National Congress (ANC), nel 1994, il problema dell'AIDS rimase fuori dall'agenda ufficiale. Gli esponenti dell'ANC sospettavano che i ricercatori occidentali, razzisti, avessero gonfiato il problema. In effetti tempo addietro, negli anni '80, ricercatori dei NIH avevano fatto circolare rapporti sull'infezione da HIV nei paesi africani con dati grossolanamente gonfiati - Robert Gallo aveva riferito che due terzi degli studenti dell'Uganda erano infettati dal virus; Robert Biggar, del National Cancer Institute, che una proporzione compresa fra un quarto e la metà della popolazione keniota era portatrice del virus — il tutto sulla base di test sbagliati. Conclusioni troppo affrettate sul fatto che l'HIV si sarebbe diffuso a partire da Haiti avevano paralizzato l'industria del turismo di quella martoriata isola. Quando il leader keniota Daniel arap Moi bollò l'AIDS come null'altro che una "nuova forma di campagna d'odio" contro le economie africane, molti esponenti dell'ANC furono d'accordo con lui. "Sembrava inverosimile che una malattia uccidesse proprio gli omosessuali, le prostitute, i drogati e i neri", ricorda un aderente all'ANC. "Sembrava l'avverarsi di un sogno da reaganista sfrenato!" La confortante illusione che l'AIDS fosse un non problema su cui si faceva un chiasso esagerato, non sarebbe rimasta intatta a lungo. Alla metà degli anni '90, l'infuriare del virus nel continente africano era diventato fin troppo chiaro. Ma il sistema occidentale della ricerca sull'AIDS apparve ancora una volta distaccato dalle realtà africane. Molti adesso proclamavano che gli africani erano troppo arretrati per la terapia con cocktail di antiretrovirali, una posizione che adombrava una crudele indifferenza per la situazione in cui versavano le popolazioni africane, sempre più povere. L' insinuazione che non ci si poteva fidare a somministrare agli africani la terapia a base di antiretrovirali suonava come un'offesa alle orecchie dei nazionalisti sudafricani come Costa Gazi, medico e attivista politico, folta chioma di capelli arruffati. Gazi si è fatto due anni di carcere durante l'apartheid, e dice di provare nei confronti della battaglia contro l'AIDS la stessa passione che lo animava nella lotta contro l'apartheid. "I diabetici che vivono nelle zone rurali vengono sottoposti a test una volta al mese; nessuno dice di lasciarli senza cure!" afferma Gazi. Quando infine, nel 1997, i legislatori sudafricani modificarono il Medicines Act in vigore nel paese in modo da consentire al ministro della sanità di rendere accessibili i farmaci contro l'HIV, infrangendo le norme internazionali sui brevetti e acquistando generici a basso costo, gli interessi occidentali apparvero ancora una volta tesi a impedire agli africani l'accesso ai farmaci salvavita. Sebbene la nuova legislazione del paese si applicasse soltanto a casi di emergenza sanitaria o quando il costo dei farmaci brevettati fosse insostenibile, trentanove fra le maggiori industrie farmaceutiche del mondo intrapresero un procedimento legale per impedire che quella legge trovasse applicazione. "È una legge arbitraria e conferisce al ministro della sanità troppi poteri", protestava Mirryena Deeb della PhRMA (Pharmaceutical Research and Manufacturers of America), l'associazione che rappresenta le industrie farmaceutiche. "Il ministro può decidere che un farmaco è troppo costoso e le aziende produttrici non hanno il diritto di difendersi". L'amministrazione Clinton iscrisse prontamente il Sudafrica nella sua "lista dei sorvegliati speciali" per le violazioni contro il regime dei brevetti. | << | < | > | >> |Pagina 211Ascoltate parlare i ricercatori biomedici abbastanza a lungo, come è successo a me di recente a un congresso scientifico multidisciplinare, e senza dubbio sentirete commenti ammirati sulla sperimentazione clinica dei bei tempi andati, quando esperimenti audaci, liberi da regolamentazioni gravose, producevano risultati spettacolari. Quel tipo di sperimentazione, vi diranno i ricercatori, purtroppo non è più possibile "per via delle preoccupazioni sul piano etico". Per via delle preoccupazioni sul piano etico. Ho sentito questa frase più volte nel corso di un singolo congresso nell'arco di una settimana. È una formulazione interessante, che pare riservata quasi esclusivamente alle violazioni dell'etica nel campo biomedico. È difficile, infatti, immaginare una qualunque persona parlare di lavoro in nero, sversamenti di petrolio in mare o appropriazione indebita da parte delle multinazionali, come di cose non possibili "per via delle preoccupazioni sul piano etico". Queste cose sono considerate semplicemente sbagliate sul piano morale e socialmente illegittime, per cui sono punibili dalla legge. Ma quando i ricercatori clinici ingannano i pazienti, sfruttano la loro povertà, o dirottano scarse risorse verso la sperimentazione sottraendole alla cura, tutto ciò non è considerato un male, punto e basta. L'attività principale della ricerca medica – migliorare la salute, salvare vite umane – le fa passare in secondo piano. Lo sfruttamento e le violazioni dei diritti umani sono 'effetti collaterali', né più né meno. Per eliminare tali "effetti" occorre in primo luogo mettere da parte la mitologia sulla ricerca medica, la stessa che dà origine a quegli "effetti collaterali". Come spiega il bioeticista Solomon Benatar, "La ricerca condotta nei paesi in via di sviluppo... non va realmente a vantaggio di queste persone [i soggetti]. Può succedere che lo faccia, per i pochi abbastanza fortunati da entrare nella prova. Ma la ragione per cui il ricercatore arriva in quel paese è, il più delle volte, perché c'è qualcuno disposto a pagare per quello studio. Qualcuno vuole trovare una risposta a una certa domanda. I dati hanno valore sia sul piano accademico che su quello commerciale".' In altre parole, lo scopo principale della ricerca clinica non è migliorare o salvare vite, ma acquisire una cosa ben precisa: dati. È un'industria, non un servizio sociale. Le persone che finanziano e dirigono gli esperimenti clinici lo fanno per i dati, non per soddisfare i pazienti o per soccorrere strutture sanitarie in difficoltà, aiutandole a rafforzarsi, anche se a giustificazione delle proprie attività possono indicare questi effetti secondari. Le loro motivazioni non ne fanno né dei corrotti né dei mercenari, solo degli esseri umani normali che cercano di proteggere i propri interessi, come fa anche il resto di noi. Ma se la ricerca clinica è un'industria che fa i propri interessi, allora non c'è motivo di riconoscerle una libertà d'azione tutta speciale, con la possibilità di girare lo sguardo da un'altra parte quando dribbla o addirittura viola le regole. Se pensiamo che i soggetti di un esperimento dovrebbero essere informati e che la loro partecipazione dovrebbe essere consensuale, dovremmo chiedere che il consenso informato sia rafforzato e ben controllato. Se ciò è impossibile, allora dovremmo chiedere che la ricerca clinica si fermi. Dovremmo chiedere che i vantaggi per i soggetti – come, ad esempio, l'accesso al farmaco in studio dopo che l'esperimento è terminato – siano garantiti qui e ora, non in un futuro ipotetico in cui i prezzi cadranno, o non ci sarà più povertà e altri applicheranno soluzioni migliori. Queste condizioni, che potrebbero essere incluse nelle regole della FDA, sarebbero dei correttivi razionali a quell'industria competitiva e guidata dal profitto in cui oggi si è trasformata la ricerca clinica. Ma ciò impone, come petizione di principio, la domanda se desideriamo adottare questo modello. Anziché limitarci a dissolvere i miti sulla ricerca, potremmo incominciare a chiedere alle aziende farmaceutiche e ai ricercatori clinici di essere all'altezza di quei miti. La promessa della ricerca medica è di alleviare le sofferenze e di salvare vite umane, ma i ricercatori in realtà si assumono la responsabilità soltanto per una minima parte di questo compito: raccogliere i dati. Quando si tratta di dare attuazione agli scopi più vasti, scrollano le spalle: quello è compito di qualcun'altro. Questa mancanza di connessione potrebbe essere accettabile per la scienza di base, ma se vogliamo che la ricerca medica sia davvero in grado di alleviare sofferenze e di salvare vite, allora dobbiamo giudicare le responsabilità degli scienziati quando producono poco di più che articoli interessanti o "farmaci fotocopia", e valutare se ciò sia eticamente ammissibile oppure no. Arrivare a dare attuazione pratica a questo genere di responsabilità non è facile. In primo luogo, l'opinione pubblica non dispone di alcuno strumento per incidere sulle priorità della ricerca; non abbiamo nessun modo per esprimere quello che vogliamo più di tutto dalla ricerca medica, e come lo useremmo se lo avessimo. A parte alcuni progetti di ricerca finalizzati, è il mercato a decidere e la ricerca si dirige verso qualunque prodotto che, a giudizio delle aziende farmaceutiche, venderà bene; oppure sono gli sponsor a decidere caso per caso, e qualunque richiesta di fondi verrà finanziata se appare più interessante.
Immaginate, al posto di tutto questo, un controllo sistematico e un
dibattito pubblico forte, indipendente, aperto, su dove la ricerca medica ci ha
portato finora e dove vogliamo che ci porti, un dibattito che non resti chiuso
solo fra specialisti e avvocati, ma che coinvolga tutti noi. È difficile dire
dove ci potrebbe condurre un tal esercizio. Forse ci renderemmo conto che la
ricerca staccata dalla società ha poco significato. I paesi poveri potrebbero, a
ragione, considerare prioritario dare finalmente attuazione ai risultati di
ricerche ormai vecchie, anziché preferire la corsa a sempre nuove
sperimentazioni.
|