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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione di Anna Rosa Azzone Zweifel 43 Luigi Da Porto LA GIULIETTA 75 William Shakespeare ROMEO E GIULIETTA 187 Gottfried Keller ROMEO E GIULIETTA NEL VILLAGGIO 267 Gli autori e i testi |
| << | < | > | >> |Pagina 43Nel tempo che Bartholomeo dalla Scala Signore cortese e humanissimo il freno alla mia bella patria a sua posta e strignea e rallentava, furono in lei, secondo che mio padre dicea haver udito, due nobilissime famiglie per contraria fattione over particolar odio nemiche, l'una e' Capeletti, l'altra e' Montecchi nominata. Di una delle quali si estima certo esser questi, che in Udine dimorano, cioè messer Niccolò e messer Giovanni hora detti Monticoli di Verona, per strano caso quinci venuti a habitare; benché poco altro di quel delli antichi seco habbiano in questo loco recato, fuori che la lor cortese gentilezza: et avegna che io alcune vecchie croniche leggendo habbia queste due famiglie trovato, che unite una stessa parte sosteneano, nondimeno come io la udii, senza altrimenti mutarla a voi la sporrò. Furono adunque, come dico, in Verona sotto il già detto Signor le sopradette nobilissime famiglie di valorosi homini e di ricchezza ugualmente dal Cielo, da la natura e dalla fortuna dotiate. Tra le quali, come il più delle volte tra le gran case si vede, che che la cagion si fosse, crudelissima nimistà regnava; per la qual già più homini erano, così dall'una come dall'altra parte morti, in guisa che sì per stanchezza, spesso per questi casi adviene, come anco per le minacie del Signore, che con spiacere grandissimo le vedea nemiche, s'eran ritratte di più farsi dispiacere, e senza altra pace col tempo in modo dimesticate, che gran parte degli loro huomini insieme parlavano. Essendo così costoro pacificati, advienne uno Carnevale ch'in casa di messer Antonio Capelletti huomo festoso et Iocondissimo, il qual primo de la famiglia era, molte feste si fecero, e di giorno e di notte, ove quasi tutta la città concorreva: ad una delle quali una notte (com'è degli amanti costume, che le lor donne, siccome col cuore, così ancho col corpo, pur che possano, ovunque vanno, seguono) uno giovane delli Montechi la sua donna seguendo, si condusse. Era costui giovane molto bellissimo, grande della persona, leggiadro e accostumato assai: perché trattasi la maschera, come ogni altro facea, et in habito di ninpha trovandosi, non fu occhio che a rimirarlo non volgesse, sì per la sua bellezza, che quella d'ogni donna avanzava, che ivi fosse, agguagliava, come per maraviglia ch'in quella casa, massimamente la notte, fosse venuto, ma con più efficatia, che ad alcun altro, ad una figliola del detto messer Antonio venne veduto, che egli sola havea; la quale di sopranaturale bellezza e baldanzosa e legiadrissima era. Questa veduto il giovane con tanta forza nell'animo la sua bellezza ricevete, che al primo incontro de' loro occhi di più non essere di lei stessa le parve. | << | < | > | >> |Pagina 75Coro Due illustri famiglie, pari per nobiltà, nella bella Verona ove la nostra scena è posta da antichi rancori son mosse a nuova lite in cui sangue fraterno sporca fraterne mani. Dai lombi fatali di questi due nemici ricevon vita due amanti avversati dalle stelle che, dopo tragiche pietose avventure, con la lor morte seppelliranno la contesa. L'atroce corso di questo amore segnato dalla morte, e l'odio senza tregua fra i due padri che nulla poté placare se non la fine dei figli, è l'argomento del nostro lavoro di due ore in scena: se ciò con paziente orecchio seguirete quei che qui manca ia nostra fatica chiarirà. Sansone Gregorio, parola mia che non ci lasceremo caricare. Gregorio No, mica siamo scaricatori. Sansone Voglio dire, se ci prenderà la collera tireremo fuori la spada. Gregorio Sì, finché sei vivo tira fuori il collo dal capestro. Sansone Io colpisco veloce, se mi provocano. Gregorio Ma non sei velocemente mosso a colpire. Sansone Un cane di quella casa Montecchi mi fa muovere in fretta. Gregorio Muoversi vuol dire mettersi in moto e essere coraggiosi vuol dire star fermi: perciò se ti muovi significa che scappi. Sansone Un cane di quella casa mi muoverà a star fermo: non cederò il passo davanti a nessun uomo o ragazza dei Montecchi. Gregorio Ciò dimostra che sei un debole, perché è il più debole quello che sta contro il muro. Sansone Questo è vero e perciò le donne, essendo recipienti più fragili, vengono sempre spinte contro il muro: quindi io non cederò il muro agli uomini dei Montecchi e spingerò contro il muro le loro ragazze. Gregorio La contesa è fra i nostri capi e noi loro uomini. Sansone È tutt'uno. Io mi dimostrerò un prepotente: quando avrò lottato con gli uomini, sarò crudele con le ragazze; taglierò loro la testa. Gregorio La testa delle ragazze? Sansone Sì, la testa delle ragazze o la loro verginità, prendila nel senso che preferisci. Gregorio Loro, devono prenderlo nel senso in cui lo sentono meglio. Sansone Me mi sentiranno, che sono bravo a star ritto: è noto che sono un bel tocco di carne.
Gregorio
Meno male che non sei un pesce; se lo fossi, saresti un baccalà.
Tira fuori il tuo strumento: ecco due di casa
Montecchi.
Sansone Ecco snudato l'arnese. Attacca lite: io ti starò alle spalle. Gregorio Come? Volti le spalle per scappare? Sansone Non temere. Gregorio No, perdiana. Io, temere te! Sansone Teniamoci dalla parte della legge; lasciamo che comincino loro. Gregorio Corrugherò la fronte, mentre gli passo accanto, e lascerò che la prendano come gli pare. Sansone Che la prendano come osano, vuoi dire. Mi morderò il pollice, il che è un'offesa, se la tollerano. Abramo Vi mordete il pollice per noi, signore? Sansone Mi mordo il pollice, signore. Abramo Vi mordete il pollice per noi, signore? Sansone La legge è dalla nostra parte se rispondo di sì? Gregorio No. Sansone No, signore, non mi mordo il pollice per voi, signore; ma mi mordo il pollice, signore. Gregorio Volete attaccar lite, signore? Abramo Lite, signore? No, signore. Sansone Però se lo fate, signore, sono pronto: io servo un padrone bravo quanto il vostro Abramo Non più bravo, però.
Sansone
Beh, signore...
Gregorio (vedendo Tebaldo) Di' "più bravo": è arrivato un parente del padrone. Sansone Anzi, più bravo, signore. Abramo Mentite! Sansone Fuori le spade, se siete uomini. Gregorio, ricordati il tuo colpo micidiale. (Si battono)
Benvolio (intervenendo da dietro)
Separatevi, pazzi! Mettete via le spade; non sapete quel che fate.
Tebaldo Che fai, ti cacci in mezzo a queste cerve senza maschio? Benvolio, voltati: guarda la tua morte in faccia. Benvolio Volevo solo metter pace. Riponi la spada, oppure con quella aiutami a separare questi uomini.
Tebaldo
Come, con la spada sguainata parli di pace?
Io odio questa parola
come odio l'inferno, tutti i Montecchi e te.
Attento a te, vigliacco.
Si battono. Entrano parecchi altri, appartenenti a entrambe le famiglie, e si buttano nella mischia. Arrivano poi tre o quattro cittadini armati di bastoni e spade, e un Ufficiale
Ufficiale
Mazze, picche e spadoni! Picchia, stendili!
Addosso ai Capuleti, addosso ai Montecchi!
Capuleti Che baccano è questo? Datemi lo spadone, avanti! Lady Capuleti Una gruccia, una gruccia! Perché chiedi una spada?
Capuleti
La mia spada, ho detto! Sta arrivando il vecchio
Montecchi che sbandiera la sua per sbeffeggiarmi.
Montecchi Tu, carogna di un Capuleti! Non trattenermi, lasciami. Lady Montecchi Non muoverai un passo, per andare in cerca di nemici. | << | < | > | >> |Pagina 187Narrare questa storia sarebbe un'inutile invenzione se essa non si basasse su un fatto veramente accaduto a dimostrazione di quali profonde radici abbiano, nella vita degli uomini, le belle favole su cui sono costruite le grandi opere di poesia. Il numero di queste favole è limitato, come quello dei metalli, ma esse di continuo si ripresentano in circostanze mutate e nei travestimenti più strani. Sulle rive del bel fiume che scorre a mezz'ora da Seldwyla sorge un'ampia collina che, ben coltivata, si perde poi nella fertile pianura. Ai suoi piedi, un po' in disparte, c'è un villaggio con molte grandi fattorie; alcuni anni fa, sul dolce pendio, si stendevano l'uno accanto all'altro tre stupendi e lunghi campi, simili a tre enormi nastri. In un'assolata mattina di settembre due contadini stavano arando due di questi campi, e più precisamente quelli esterni; il campo di mezzo era incolto e sembrava abbandonato da anni poiché era coperto di pietre e alte erbacce e un piccolo universo di creature alate vi ronzava sopra indisturbato. I contadini che procedevano da una parte e dall'altra dietro ai loro aratri erano due uomini alti e magri di circa quarant'anni e si capiva al primo sguardo ch'erano contadini solidi e agiati. Portavano corti pantaloni di robusto fustagno in cui ogni piega aveva il suo posto immutabile e sembrava scolpita nella pietra. Quando, urtando contro un ostacolo, stringevano più forte l'aratro, le maniche delle loro rozze camicie tremavano per la leggera scossa; ma i loro volti ben rasati restavano impassibili; gli occhi attenti e calmi, solo un po' ammiccanti nel sole, misuravano i solchi o si volgevano a guardare se un rumore lontano rompeva il silenzio della campagna. Procedevano lenti e con una certa grazia naturale; nessuno dei due parlava se non per dare un ordine al servo che spronava i robusti cavalli. Visti da lontano sembravano perfettamente uguali poiché incarnavano al meglio la razza originaria di questa regione; a un primo sguardo, li si sarebbe potuti distinguere solo per il fatto che la punta del berretto del primo ricadeva in avanti, mentre quella dell'altro pendeva all'indietro. Ma anche questo, tra i due, si alternava, poiché aravano in direzione opposta; quando infatti s'incontravano sul colmo dell'altura e si passavano accanto, il berretto di quello che camminava contro il fresco vento d'Oriente si rovesciava all'indietro, mentre il berretto dell'altro, che aveva il vento alle spalle, ricadeva in avanti. Ma ogni volta c'era un momento di sospensione in cui i due berretti, splendenti nel sole, si libravano dritti nell'aria, levandosi verso il cielo come due bianche fiamme. Così, tranquilli, aravano i due contadini; ed era bello vederli nel silenzio dorato del paesaggio autunnale quando, giunti al colmo dell'altura, passavano l'uno accanto all'altro, taciti e lenti, per poi allontanarsi gradatamente sempre di più, fino a sparire, come astri calanti, dietro la curva della collina; e dopo un bel pezzo riapparivano. Se trovavano una pietra nei loro solchi la gettavano con un gesto energico e al tempo stesso noncurante nel desolato campo di mezzo; ma questo accadeva assai di rado perché vi si erano accumulati già tutti i sassi che si erano trovati nei campi circostanti. Era così trascorsa gran parte della lunga mattinata quando dal villaggio si avvicinò un grazioso carrettino che a malapena si poteva vedere quando cominciò a salire il dolce declivio della collina. Era un carretto da bambini dipinto di verde con cui i figli dei due aratori, un ragazzo e un frugolino di bambina, portavano la colazione ai loro padri. C'era, per ognuno, una bella pagnotta avvolta in un tovagliolo, un boccale di vino con i bicchieri e qualche boccone prelibato che la premurosa contadina aveva mandato al marito laborioso; c'erano inoltre, tutte rosicchiate, pere e mele dalle forme strane raccolte dai ragazzi lungo la strada e una bambola completamente nuda che, con una gamba sola e il volto imbrattato, si faceva scorazzare come una damigella, seduta comodamente in mezzo ai pani. Dopo varie soste e rinnovate spinte, il carrettino arrivò finalmente sull'altura e si fermò al bordo del campo, all'ombra di un gruppo di giovani tigli, e fu possibile allora osservare da vicino i due giovani carrettieri: un ragazzo di sette anni e una bimbetta di cinque, vispi e sani, senza particolari caratteristiche tranne gli occhi che avevano tutti e due molto belli; la bambina, inoltre, aveva un incarnato bruno e capelli molto crespi e scuri che le davano un'aria schietta e focosa. Intanto gli aratori erano giunti ancora una volta in cima all'altura; abbandonati gli aratri nel solco incompiuto e rifocillati i cavalli con un po' di trifoglio, si avviarono da buoni vicini al pasto comune, e per la prima volta nella giornata, si salutarono; ché, fino allora, non avevano scambiato una sola parola. Consumarono con gusto la loro colazione e la divisero compiaciuti e soddisfatti con i bambini che non si mossero di lì finché c'era da bere e da mangiare. I loro sguardi vagavano intanto vicino e lontano e guardavano la cittadina adagiata tra i monti col fumo splendente nel sole, i ricchi pasti che i seldwylesi si preparavano ogni giorno sollevavano infatti al di sopra dei tetti una nuvola d'argento che, visibile fin da lontano, si librava ridente lungo i fianchi della montagna. «Si trattano bene anche oggi, quei cani di seldwylesi» disse Manz, uno dei due contadini. E Marti, l'altro: «Ieri è venuto da me uno, per via di questo campo». «Era del Consiglio Distrettuale? È stato anche da me!» disse Manz. «Davvero? E ha detto anche a te di coltivare la terra e pagare l'affitto a quei signori?» «Sì, finché non si deciderà a chi appartenga il campo e cosa se ne debba fare. Io però mi sono rifiutato di bonificare quella terra selvaggia per un altro e gli ho detto di vendere il campo e di mettere da parte il ricavato finché non si trova il proprietario, il che non accadrà mai; negli uffici di Seldwyla le cose vanno sempre per le lunghe e questa, d'altre canto, non è una cosa facile da decidere. A quei mascalzoni gli farebbe fin troppo piacere di ingrassare un po' con il fitto; cosa del resto che potrebbero fare anche con il ricavato della vendita, ma noi ci guarderemo bene dal far lievitare il prezzo; in questo caso si saprebbe almeno cosa si ha in mano e di chi è la terra». «Anch'io la penso così e ho detto le stesse cose a quel buono a nulla che è venuto». Rimasero un po' in silenzio, poi Manz ricominciò: «È un peccato però che questa buona terra resti abbandonata, fa fin rabbia a guardarla; ormai sono vent'anni che è così e nessuno se ne cura. Nel villaggio non c'è chi possa vantare diritti, e nessuno sa dove siano finiti i figli del trombettiere fallito». «Ma, – disse Marti – certo che è una cosa strana. Se guardo il violinista nero, quello che ora se ne va in giro coi senza patria e ora suona nei balli dei villaggi, mi sentirei di giurare che è un nipote del trombettiere, anche se lui non sa di possedere un pezzo di terra. Ma poi, cosa se ne farebbe? Avrebbe da ubriacarsi per un mese e tutto tornerebbe come prima: Come si fa, del resto, a dare un'indicazione se non si è sicuri?». «Sarebbe un bel pasticcio, – rispose Manz – facciamo già fatica a negargli il diritto di cittadinanza nel nostro comune, a quello straccione, visto che ce lo vogliono affibbiare a tutti i costi. Se i suoi genitori hanno voluto andarsene tra i senza patria, che ci resti anche lui e si accontenti di suonargli il violino, a quella gentaglia! Come potremmo avere mai la certezza che è il figlio del figlio del trombettiere? Per quanto mi riguarda, anche se mi pare di riconoscere perfettamente il vecchio in quella faccia scura, mi dico: errare è umano e il più piccolo pezzettino di carta, un brandello solo dell'atto di battesimo metterebbero a posto la mia coscienza molto più di dieci facce da peccatore». «Ma certo – disse Marti –. È ben vero che lui dice che non è colpa sua se non l'hanno battezzato. Ma dovremmo forse spostare il fonte battesimale e portarlo in giro per i boschi? No, il fonte sta ben saldo in chiesa, mentre invece si può trasportare la barella dei morti appesa fuori al muro. Siamo già in troppi in paese, e tra un po' ci sarà bisogno di due maestri!».
Con queste parole finì il loro pasto e la loro conversazione e i due
contadini si alzarono per concludere il lavoro della mattinata. I bambini
invece, che avevano deciso di ritornare a casa coi padri, sistemarono il
carretto sotto la chioma protettrice dei giovani tigli e partirono per una
scorribanda nel campo incolto che, pieno com'era di erbacce, arbusti e
mucchi di pietre, ai loro occhi rappresentava una foresta
meravigliosa e strana. Vagarono nel verde intrico tenendosi
per mano e sorvolando con le mani intrecciate gli alti cespugli di cardi; poi si
sedettero all'ombra di uno di questi e la
bambina si mise ad ornare la sua bambola con le lunghe foglie
raccolte lungo la strada facendole un bell'abitino verde tutto
sfrangiato; le appoggiò quindi sul capo un rosso papavero che
fioriva solitario e glielo legò con un filo d'erba così che la
piccola creatura, abbellita anche da una collana e da una cintura di piccole
bacche rosse, sembrò la maga di una fiaba.
Così acconciata fu issata tra gli steli del cardo e i due bambini rimasero per
un po' a contemplarla insieme finché il
ragazzo, guardatala abbastanza, la buttò giù con una sassata.
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