Copertina
Autore Siddharth Dhanvant Shanghvi
Titolo L'ultima canzone
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, Nuova biblioteca 15 , pag. 312, cop.fle., dim. 140x215x26 mm , Isbn 978-88-11-66569-4
OriginaleThe Last Song of Dusk [2004]
TraduttoreAlberto Cristofori
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa indiana
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Pagina 11

Il giorno in cui Anuradha Patwardhan lasciò Udaipur per andare a Bombay e sposare un uomo che non aveva mai visto nei ventun anni della sua vita, la madre le prese la mano attraverso il finestrino della victoria nera e sussurrò: «In questa vita, mia cara, non c'è pietà». Anuradha annuì rispettosamente e provò l'acuto desiderio di chiederle cosa intendesse dire esattamente. Ma prima che riuscisse ad articolare la domanda, i grandi occhi ovali della signora Patwardhan, del colore della cenere liquida, si annebbiarono, e lei li chiuse con graziosa riservatezza. In quel momento, la giovane Anuradha decise che sua madre non era mai stata tanto graziosa: avvolta in un sari blu cobalto con il bordo dorato, era una donna alta, benché non imponente, magra, ma dotata delle caratteristiche biologiche atte ad attirare gli sguardi, e con un talento per il canto che a Udaipur era, senza esagerazione, leggendario.


Sua figlia aveva ereditato la stessa bellezza semplice ma inesplicabilmente affascinante. In effetti, la fisionomia di Anuradha Patwardhan era talmente celebre che parecchi giovani romei della Udaipur Sonnets Society l'avevano categoricamente dichiarata loro musa ispiratrice. I suoi capelli, quell'onda densa e fiera, erano una poesia in sé stessi? Le arcuate labbra rosse di Anuradha erano sottili e disegnate come quelle di Urvashi, la Seduttrice degli Dei? O era semplicemente la sua presenza - sicura, controllata, elegante, come un inno avvolto in un sari - che, quel mattino di gennaio, nella profonda malinconia del Rajasthan, rifulgeva di un morbido colore bianco perla? Un colore perfettamente intonato al giallo chiaro dei fiori di duranta infilati nel suo stretto chignon, dotati d'una tale intensità di profumo che parecchie api rimanevano intontite e perdevano i sensi a mezz'aria.

«Mamma... amerò sempre tutto quello che mi hai dato...» riuscì a dire mentre il vetturino colpiva gli stalloni neri con una frusta di peli di cammello accuratamente intrecciati.

«Non dimenticare mai i canti», consigliò la signora Patwardhan mentre l'elegante victoria partiva con un sussulto.


Nella carrozza, Anuradha sedeva di fronte a suo padre, un uomo che amava, ma che non le piaceva. Una piccola creatura rotonda con radi capelli grigi e un naso curvo come il becco di un ara (Anuradha ringraziava spesso il Signore Shreenathji per averle risparmiato i lineamenti di suo padre): il signor Patwardhan le sorrideva con una gentilezza priva di qualsiasi calore. In ogni caso, Anuradha non si curò delle goffe, vacue manifestazioni di simpatia maschile, e si girò rapidamente per cogliere l'immagine di sua madre che svaniva. La signora Patwardhan era sull'ultimo gradino di marmo del portico, eretta come un obelisco ma con la grazia di un cigno, il pallo di seta del sari a coprirle il capo: un sospiro di grazia sartoriale. Mentre la carrozza scendeva lungo la strada serpeggiante, il vento rinforzò e avvolse nella polvere la scena che Anuradha osservava con il fervore di un ciclone scatenato, ghermendo tutti i dettagli nel suo cuore. Registrò la regalità della casa, le sue finestre con le persiane, la lunga veranda chiusa, consolante come un paragrafo del suo romanzo preferito. Registrò il ventre scintillante del lago Pichola, che confinava con la loro proprietà, la pergola sotto cui aveva l'abitudine di sedere a contemplare le pennellate color zafferano dei tramonti d'inverno. Registrò la qualità dell'atmosfera, la sua profondità di carattere, i canti che le donne della sua famiglia vi avevano cantato.

Il pianto si addensò nel suo petto come la cresta bianca di un'onda.

* * *

Il buon vecchio Marwar Express, dipinto di nero con i profili dorati, li avrebbe portati a Bombay in due giorni. La piattaforma in sé era stretta, lunga e affollata da un assortimento di mendicanti cadaverici e di britannici senza vita. Parecchi viaggiatori si fermarono per gettare un'occhiata ad Anuradha, alla fluidità animale dei suoi movimenti, al suo nobile incedere, al portamento della sua bella testa, a tutte le sfumature di quel sorprendente concerto. Una bella valigia di pelle era al suo fianco; suo padre si era messo a conversare con un conoscente. Lei incrociò le braccia e pensò che sua madre aveva promesso di venire a Bombay subito dopo il parto della nuora più giovane - la data del parto e la partenza di Anuradha si erano incrociate come gli affluenti di due fiumi: senza saperlo, con ferocia. La signora Patwardhan le aveva assicurato che in qualunque caso (mi farò crescere le ali e volerò, se necessario), sarebbe stata a Bombay se si fossero decise le nozze di Anuradha, cosa che naturalmente sembrava molto probabile: solo uno stupido monumentale avrebbe rifiutato una sposa come lei.

L'ironia, naturalmente, era che Anuradha aveva solo una vaga idea delle sue bellezze: aveva l'impressione che tutte le donne ispirassero sonetti; che tutte le donne avessero ricevuto proposte di matrimonio da quando avevano quattro anni e trentanove giorni di vita. E dunque la modestia la seguiva come il più dignitoso dei sorveglianti nel suo appuntamento a lume di candela col destino, ed era questa umiltà senza pretese, questa ingenua schiettezza, che la faceva passare dall'essere semplicemente attraente all'essere - sì, chiniamo la testa e ammettiamolo - assolutamente irresistibile.

Poco più avanti di lei, notò qualcuno che versava del carbone in gola al treno e un minuto dopo una gonfia nube di fumo nero fluttuava sopra la sua alta testa di metallo. Dietro alla cancellata di ferro della stazione c'era un gruppo di acacie, martellate dal sole, mangiucchiate dai cammelli di passaggio. Non appena lei e suo padre salirono sul treno, mentre sistemavano i bagagli sotto al sedile, tutti sulla piattaforma si misero a sussurrare e a indicare la macchia di alberi: naturalmente, anche Anuradha si alzò per vedere a cosa era dovuto il borbottìo. Il suo sguardo cadde di nuovo sulle acacie dietro alla stazione, dove si erano radunati dei pavoni - e non uno o due, badate, ma dozzine. Un'esuberanza di pavoni che, proprio mentre il Marwar Express usciva sbuffando da Udaipur, emisero quei loro gridi che attirano la pioggia: megh-awuu, megh-awuu, megh-awuu... a poco a poco i rumori del treno, il suo rancore metallico e il suo fischio romantico, i sospiri dei passeggeri, le dolci melodie del flautista vagabondo - insomma, tutti i suoni - furono sommersi dai pavoni che eseguivano una melodia non usuale in quegli uccelli presuntuosi.

Il padre di Anuradha la guardava con occhi socchiusi; sua figlia aveva dato da mangiare a quelle bestie dal balcone della sua camera da letto per sedici anni. «Immagino che siano venuti a dirti addio», disse prima di aprire il «Times of India».

«In verità», chiarì lei, una mano sul petto, «li ho chiamati io.»


Fu molto più tardi, dopo un orribile mutamento nel destino di Anuradha Patwardhan, quando lei tornò a Udaipur col cuore in pezzi e in preda a una profonda disperazione, che i pavoni cercarono di nuovo la sua compagnia. Ma allora, quasi per onorare l'angoscia in cui era caduta come un animale che entra nelle fauci metalliche della trappola di un cacciatore, rimasero inquiete e silenziose in sua presenza.

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Pagina 74

Incapace di dormire, quella notte Anuradha oscillò fra una confusa angoscia e un'incredulità speranzosa. Vardhmaan, intanto, riposava sulla sdraio di teak, con la mano che toccava il pavimento: il suo sonno era il frutto segreto di una estrema spossatezza e di un grano d'oppio. Anuradha si svegliò all'alba e pettinò i capelli di Mohan con le dita. Trovava che, al contrario di quanto avevano detto altri, la Morte era in realtà tutt'altro che mortifera; era una creatura dinamica, il cui odore nero, la cui immobilità di cemento, filtravano nel legno dei mobili, nelle lenzuola del letto, nei fiori dei vasi: era ovunque, onnipresente come la sua unica sorella, la Vita.


L'alba recò un cielo arancio e la signora Patwardhan da Poona, tutta occhi gonfi e capelli arruffati. Anuradha la abbracciò e pianse senza rumore: il pianto più profondo di tutti.

«Damnum fatale», ragionò la signora Patwardhan. «Un atto di Dio.»


Un'ora dopo, Radha-mashi arrivò in un landò tirato da quattro pony e disse ad Anuradha: «Così è la vita. Ci fa immaginare l'inimmaginabile. Affatica l'immaginazione, e il nostro cuore con essa.»


Taru e Sumitra-bhabhi erano in un angolo, con la faccia senza espressione, distrutte.

* * *

Nel segreto della sua stanza, Divi-bai era piena di rabbia verso quella ragazza di Udaipur, che attirava sempre tutta l'attenzione su di sé.


Alle sette del mattino, Mohan fu portato in basso nell'atrio sul suo feretro. Anuradha capì che il suo tenero volto veniva girato verso lo spazio privo di luce che rispecchia la vita. Rimase senza fiato per l'affollarsi dei ricordi: il suo ventre ricordava gli inquieti calci del feto; le sue mani ricordavano la pelle dolce e perfetta; le sue orecchie ricordavano la voce, tanto limpida da illuminare la notte.

Venti minuti dopo glielo portarono via.


Quando Vardhmaan alzò il feretro e se lo appoggiò sulla spalla, gli sembrò che il suo petto stesse per spaccarsi da dentro. Non avrei mai immaginato di dover seppellire mio figlio - non dovrebbe essere il contrario? Perché non riesco a parlare di questo dolore? C'è qualcun altro che senta odore di cinnamomo in questa maledetta aria? Fu allora che un urlo spinse le sue corna aguzze nel corpo di Anuradha, che registrava tutto con dolorosa precisione: suo marito che portava via il figlio morto, i gigli sparsi sulla bara, le deboli grida di una preghiera, il sole che fermava i raggi sulla silenziosa fila di persone in lutto, e il vento occidentale che confondeva tutto.

* * *

«Vieni con me», suggerì Radha-mashi più tardi quello stesso pomeriggio. «Questa casa ha troppi ricordi, e adesso devono sembrarti tutti troppo dolorosi.»

«Le ho detto di venire a Udaipur», aggiunse la signora Patwardhan. Mancava un'ora al funerale delle sei.

«Devo restare qui», disse semplicemente Anuradha. «Perché altrimenti Vardhmaan non riuscirà a sopportare questa perdita.»


Poco prima delle sei, quando scese, notò che quasi tutti i residenti di Dwarika e i parenti giunti da lontano si erano riuniti nel cortile. Vedove, giovani spose, bambini e perfino giovani uomini formavano il corteo funebre. Un corteo di piangenti. Annuì alla signora Zimmermann, a Vijhla e agli altri ammiratori del canto di Mohan. Durante tutta la cerimonia, Anuradha sedette composta, ma lontana: immersa in una indicibile tragedia.


Un'ora più tardi, quando l'intero gruppo di rispettabili dolenti si fu riunito, un gemito inquietante turbò la solennità generale: era Divi-bai.

«Maari nakhyo! Maari nakhyo - maara Mohan ne maari nakhyo».

«Sì, sì», disse Zenobia con accento teatrale. «L'ha ucciso lei. Ha ucciso il proprio figlio.»

Anuradha ci mise un minuto prima di capire che quella non era un'allucinazione della sua mente.

«Quante volte ho detto a quella ragazza di tenere la finestra chiusa - e lei non mi ha ascoltato?» Divi-bai scuoteva la testa febbrilmente.

«No! Neanche una volta», intervenne Zenobia.

«E adesso l'ho perduto per sempre. Il mio amato Mohan. L'unico figlio del mio unico figlio. Ditemi - non poteva stare più attenta? Ma come si fa a perdere di vista un bambino di tre anni, anche solo per un momento? E perché non ha controllato se la finestra della sua camera era chiusa o no? Guardatela, Pramitiben», disse rivolgendosi a sorpresa a una delle presenti, «non ha sparso una sola lacrima. Non deve avere un cuore, sotto a quella camicetta.»

«Bé' sharam!» dichiarò Zenobia. «Saali suaar ni bacchi!»

Perfino Taru e Sumitra-bhabhi furono stupite da quella scena: per un attimo, la convincente recita di Divi-bai ingannò anche loro. Vardhmaan scese a precipizio le scale dall'altra parte della casa, dove erano riuniti gli uomini. Ma Anuradha gli accennò con la mano di restare dov'era: l'ultima cosa che voleva era uno scontro nel giorno in cui suo figlio veniva affidato alle fiamme.

Naturalmente quel gesto era proprio il combustibile di cui Divi-bai aveva bisogno per la sua rappresentazione.

«E perché avrebbe dovuto ascoltarmi? Quella ragazza! Io sono solo una povera vedova, in questa casa. E ditemi, chi ascolta le vedove, oggigiorno?»

«Queste ragazze moderne credono di sapere tutto», disse Zenobia.

«Arrra-ra-ra!» Divi-bai si batté la testa. Poi si sedette e gridò: «Deve andarsene da casa MIA!»

«Cosa?» ammonì una delle presenti. «Per favore, Divi-bai. Basta! La smetta!»

Di nuovo Vardhmaan fu trattenuto da Anuradha: una sola occhiata decisa, che diceva tutto. Lo bloccò al suo posto, benché tremante di rabbia.

«Adesso che ci penso», aggiunse Zenobia con uno strillo contemplativo, «hai ragione. Quella donna è un'assassina.»

Lo shock si diffuse fra la gente: alcuni si alzarono e se ne andarono; altri scuotevano la testa. La signora Patwardhan afferrò la mano della figlia. «Questo è troppo - ti riporto a Udaipur. Via da questa strega. Subito.»

«Ma Vardhmaan...»

«Anche lui è il benvenuto da noi... ma tu vieni via da questo inferno.»


Anuradha salì in camera sua. Mise in valigia i propri vestiti, qualche foto degli anni passati in quella casa, i suoi quaderni di poesie manoscritte, poi si fermò davanti al regalo di compleanno di Mohan, il violino della A.G. Nariman Traders: non sapeva cosa farne. Guardò fuori dalla finestra: orribile, orribile finestra. Vide che Divi-bai era ancora là. Sorrise fra sé: forse questa era tutta la grazia della vita. Il fatto che una incredibile cattiveria ti distraesse da un terribile dolore. Afferrò la valigia e scese con sua madre;

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Dicembre aveva appena dischiuso i suoi occhi sonnacchiosi per chiamare l'inverno quando Anuradha Gandharva fu svegliata dalla sua siesta dal venditore ambulante di flauti che suonava, con perfetta intonazione, una canzone d'amore di Meerabai. Distesa sul letto, lasciò che le onde del ritornello l'accarezzassero per molti istanti, finché, del tutto inaspettatamente, uno spasimo e un conato le colsero lo stomaco e la costrinsero a correre al lavandino di rame. Vomitò una volta, dolcemente. Il sudore le imperlò le spalle. Aveva già provato questo tipo di nausea improvvisa una volta: e non l'aveva dimenticato.

«Non è possibile», disse, mezza sorridente e mezza piangente, «non è possibile.»

Per tutta la vita avrebbe pensato a quell'inno di Meerabai guardando il suo bambino e avrebbe rammentato che qualcuno stava cantando a Dio quando si era annunciato in lei - come un amorfo grumo di sangue e cellule delle dimensioni di uno spillo - il suo arrivo. Era giunto sulle ali di un canto.

* * *

L'ultima volta che aveva detto a Vardhmaan che sarebbe diventato padre, solo pochi anni prima, lui si era messo a ballare per la stanza, l'aveva presa sulle spalle e aveva cantato una folle canzone che aveva svegliato i vicini a tre case di distanza: lei si era sentita arrossire per la sua gioia, allora. Stavolta, invece, quando gli annunciò la stessa cosa, lui la guardò a lungo, stoicamente, poi uscì di casa senza voltarsi neanche una volta a guardare sua moglie, che stava sulla soglia, osservando, aspettando.

La spiaggia era il suo unico aiuto di fronte a una gioia troppo grande per lui.

Il suo cuore ribolliva di curiosità - e anche di senso di colpa: forse avrebbe dovuto essere più espansivo con Anuradha. Abbracciarla - o sussurrarle qualche parola. E certo non avrebbe dovuto andarsene in quel modo. Ma forse, pensò, si stava abituando a lui, ormai. Vardhmaan capiva perfettamente che, nella storia della propria vita, era scivolato via, si era rifugiato nella parentesi dell'oblio, era diventato un personaggio secondario (per quanto la sua scomparsa lasciasse un segno più profondo della presenza di altri). Ma non era tanto che fosse scomparso dalla propria vita, quanto che aveva semplicemente smesso di comparire nella vita degli altri: una forma di sparizione del tutto diversa. Mentre le onde si infrangevano sulle sue caviglie, voleva sapere come aveva fatto Anuradha a guarire dalla ferita che aveva sulla schiena. Quale canto era sbocciato a salvarla? E perché gli uomini non avevano una simile grazia? Gli uomini dovevano essere coraggiosi, pensò. Dovevano guidare la macchina con una pioggia pazzesca. Dovevano vegliare la madre morente. Le loro spalle dovevano portare le bare. Bare con dentro i loro figli. Eppure, gli uomini non avevano canti: avevano solo una corazza di eroismo.

E di silenzio.

Dov' era, adesso, la loro lingua, la lingua per esprimere ciò che il loro cuore non riusciva a sopportare? Era forse diventata obsoleta, la loro lingua? Turbato da simili domande, e terrorizzato dal fatto di non avere risposte chiare, il dottor Vardhmaan Gandharva, amante di Händel e timoroso dei sandwich ai fegatini di pollo, ritornò a casa. Dichiarò alla moglie in attesa che la notizia era davvero meravigliosa e che la mattina dopo sarebbero andati a pregare per la sua salute, e per quella del concepito, al Mahadev Mandir, in fondo alla Church Maarkit.

Anuradha non rimase convinta: «Sei davvero felice, Vandhmaan?» I suoi occhi lo scrutavano mentre restava in piedi davanti a lei.

Mi dispiace, avrebbe voluto dire lui, non so chi sono diventato, Anuradha.

«Staremo bene», disse lei con un sospiro. «Te lo prometto.»

* * *

Quella stessa settimana, Anuradha informò Nandini della sua condizione - nella speranza che almeno qualcuno fosse felice per lei, in quella casa. La ragazza fece due rapidi tiri dal suo beedi prima di alzarsi in piedi. «Non ho niente di personale contro i bambini. Se non che rendono insopportabili i loro genitori.»

Anuradha pensò bene di non arrabbiarsi per quella risposta sgarbata; ma quando arrivò in cucina e si mise a mescolare il kadhi, le lacrime, irresistibili, le scesero a rivoli sul volto liscio e bello. Ricordò che anche a Udaipur Nandini aveva la fama di una mangiabambini - e adesso, come allora, Anuradha non riusciva a capire perché la ragazza che camminava sulle acque fosse tanto ostile verso creature così innocenti.


La verità è che Nandini - essendo Nandini - dava simili risposte sopra le righe, spesso offensive, nella maggior parte dei casi: e la gravidanza di Anuradha non faceva eccezione. Piuttosto drammaticamente e molto infondatamente, Nandini credeva che i pianti di un bambino e la puzza dei suoi pannolini avrebbero in qualche modo interferito con la sua pittura. In realtà era talmente preoccupata che non riusciva a creare le sue opere d'arte con l'abile candore di prima e conseguenza anche il suo fedele modello, quel ragazzo irlandese innamorato perfino della polvere sui suoi piedi, era piuttosto turbato. Dapprima Nandini fu sorpresa che lui avesse preso sul serio le sue preoccupazioni, e si chiese perché le dava retta; se la situazione fosse stata rovesciata, lei certamente non si sarebbe fatta carico dei problemi di lui. Fu allora che risultò chiaro: il ragazzo era indiscutibilmente, pericolosamente e follemente invaghito di lei. Nandini si batté la fronte accorgendosi di avere non poca responsabilità in questo innamoramento. Nel breve periodo da quando lo conosceva, aveva usato ogni trucco per far sì che Sherman Miller le portasse libri dalla biblioteca di suo padre, col patto che se mai avesse portato Jane Austen o Charlotte Brontë l'avrebbe fatto sedere su un braciere acceso come castigo per aver introdotto nel Dariya Mahal la prosa di due befane la cui unica ambizione nella vita era stata quella di fare un buon matrimonio. Gli aveva anche ordinato di impomatarsi gli splendidi capelli biondo-cenere in modo da sembrare un ragazzo di buona famiglia (in contrasto con la sua condizione attuale, per cui la gente poteva scambiarlo per un servo kashmiro particolarmente chiaro di pelle). E gli aveva fatto studiare tanto di quello Yeats che il suo cervello era pieno di versi, e le frasi languide erano talmente tante e confuse che le recitava ad alta voce nel sonno, facendo credere alla signora Isabel Miller che la loro malattia ancestrale - la triste incurabilis - avesse, ahimè, contagiato suo figlio. Ma il principale piacere che aveva fatto a quella vagabonda che camminava sulle acque era stato accettare di posare per lei.

Modello di una pittrice.

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