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| << | < | > | >> |Pagina 7La guida condusse il gruppo in una fredda stanza del castello lungo un percorso delimitato da un cordone. All'inizio di settembre l'aria si era già raffreddata, ma era molto difficile riscaldare il maniero in modo soddisfacente. Quegli edifici comportavano esorbitanti costi di manutenzione e tasse spaventose e, per conservare la proprietà di famiglia, gli eredi erano costretti a subire ogni settimana l'umiliazione di aprire le loro abitazioni a quella passerella di turisti. Ad Anna non piaceva aggirarsi in soggiorni con foto di famiglia esposte sui tavolini. Aveva sperato di incontrare un vecchio fantasma, di respirare un'atmosfera da banchetto rinascimentale, figurandosi gente seduta su panche di legno a tracannare idromele e a divorare pesce affumicato con le dita unte, e ispidi cani stravaccati a terra in mezzo a una montagna di ossa. Non desiderava essere l'orribile scotto che gli attuali proprietari erano obbligati a pagare. Dopo aver contato mentalmente i partecipanti alla visita, la guida condusse il gruppo nella biblioteca. Una parete era rivestita di libri, volumi rilegati in pelle, quella opposta di dipinti. «E questo pezzo di stoffa» indicò la donna «è tutto ciò che rimane della Fairy Flag.» Il castello custodiva i miseri resti di una bandiera. La stoffa sbiadita era protetta da una cornice di vetro e appesa al muro rivolto a nord affinché non fosse mai esposta alla luce. «Che tipo di tessuto è?» domandò una donna che era rimasta zitta fino a quel momento. «Seta. Vedete come si sfilaccia? Il lino, che sarebbe stato l'opzione alternativa, si consuma in modo più vistoso e i colori sbiadiscono di più» rispose la guida. «Nessuno sa di preciso da dove provenga, ma secondo la leggenda tramandata aveva il potere di proteggere il clan locale dalla distruzione. Tuttavia, c'era un inghippo, come in tutte le migliori favole: la bandiera avrebbe potuto essere usata solo tre volte. Possiamo dunque immaginare che sia stata impiegata esclusivamente nelle situazioni più disperate, cioè quando gli invasori erano alle porte e il clan non aveva speranza di salvarsi dal massacro. In casi del genere veniva esposta la Fairy Flag.» La guida, che era un'abile narratrice, fece una pausa a effetto, sapendo di lasciare in sospeso molti interrogativi. Lasciò montare la tensione, finché giunse la domanda inevitabile. Un ragazzino con un berretto da baseball dei Red Sox alzò la mano. «Sì?» «Hanno esaurito le loro possibilità? L'hanno usata tutt'e tre le volte?» domandò il ragazzino. «Sappiamo che fu esposta nel 1490 e poi nel 1580, ma non sappiamo se sia stata riutilizzata ancora. A quell'epoca i clan combattevano tanto fra di loro quanto contro gli invasori provenienti dal mare. La vita era pericolosa. Io sono incline a pensare che sia stata utilizzata un'altra volta, altrimenti a questo punto non ci troveremmo qui a visitare il castello. Questo edificio appartiene alla stessa famiglia da oltre settecento anni.» Guardò l'orologio e col braccio sinistro indicò la porta. «Passiamo alle camere da letto.» Era tutto così incredibilmente vecchio, in Irlanda, al contrario degli Stati Uniti... Gli irlandesi si riferivano a fatti accaduti settecento anni prima come gli americani parlavano dell'amministrazione Eisenhower. Ricordavano scontri avvenuti in un villaggio nel 1251 come se si trattasse di fatti accaduti la settimana precedente. Il tempo procedeva a spirale, come un filo avvolto intorno a un fuso. Da quando Anna aveva divorziato, il tempo per lei era rallentato, come se acque torbide e scure ostacolassero ogni suo movimento. Da quando aveva lasciato il lavoro allo studio legale, le capitava persino di dimenticare che giorno fosse. Tre volte: la bandiera poteva funzionare tre volte. Era stato così anche per Anna? La prima volta che aveva abortito non era stata la più traumatica, perché non sapeva ancora che ce ne sarebbero state una seconda e una terza. Aveva pensato che si trattasse solo di un caso. Sia Anna che Steve lavoravano settanta ore alla settimana, anche ottanta, se necessario, in due studi legali diversi. Si incrociavano durante i loro risvegli caotici, tra docce, caffè e scelta degli abiti per affrontare il mondo legale di Boston, e non si rivedevano fino a sera. La prima volta che era rimasta incinta aveva mandato un messaggio a Steve: Incinta. Gli aveva scritto solo quello, dopo aver pisciato sulla strisciolina di carta nel bagno dell'ufficio prima di cominciare il lavoro. Era incinta da esattamente tre settimane. Quando era arrivata alla sesta, aveva avvisato sua madre, suo fratello, i genitori di Steve e Jasper, suo amico dai tempi dell'università, che aveva risposto all'e-mail con questo messaggio: «Ti do il permesso di chiamare il bambino Jasper, che sia maschio o femmina, per me è uguale. Si potrà vedere il parto su You Tube?». «Sei un idiota persino per gli standard da avvocato» gli aveva risposto Anna. Jasper era fuggito da Boston subito dopo aver passato l'esame di abilitazione alla professione di avvocato e si era specializzato in diritto dello spettacolo a Los Angeles. «Come fai a prendere sul serio il diritto dello spettacolo?» gli aveva chiesto Anna. «Come fai a prendere sul serio il diritto contrattuale?» aveva ribattuto Jasper. «Vai a fare un bambino, va'...» Dopo due mesi abbondanti, il suo utero era stato scosso da crampi sismici, liberandosi del nascituro. Anna era rimasta scioccata dalla risolutezza del proprio corpo, dal torrente di sangue che aveva svegliato lei e Steve alle quattro del mattino di una domenica. Si era seduta in lacrime sul water, piegata in avanti, e Steve le si era accovacciato accanto con nient'altro addosso che i suoi boxer blu Man Silk. Aveva premuto la sua fronte sulle cosce di lei, lasciando entrambi senza parole. Quella era stata la prima volta. Sei mesi dopo c'era stata la seconda. In quel caso, l'avevano detto solo alla madre di Anna. L'aborto — parola che Anna detestava — arrivò quando Steve si stava occupando del caso di Atlanta. L'aveva chiamato sul cellulare. «Non preoccuparti» l'aveva rassicurata lui dall'Hotel Marriott. «Ci riproveremo.» Lei aveva sentito un vocio in sottofondo e una risata in crescendo, come cristalli levati in aria. La terza volta, sei mesi dopo, era in viaggio in macchina, stava andando a trovare la madre a Greenfield, quando era cominciato l'ormai noto processo di sgombero del suo utero. Era sulla Route 2, diretta a ovest con il sole negli occhi, ed era difficile trovare l'uscita giusta. Nessuna sembrava quella appropriata, tanto meno Fitchburg. Aveva tenuto duro finché era entrata nel vialetto della casa di sua madre. Aveva guidato per quasi cinquanta chilometri con un asciugamano grigio tra le gambe. Anna aveva suonato il clacson, e sua madre era uscita sventolando un fascio di compiti di matematica del liceo. Anna le aveva fatto segno di salire in macchina, osservando il sorriso dissolversi sul volto della madre nell'istante in cui aveva sentito svanire il proprio. «Ho appena abortito. Perché non riesco a tenerli? Perché non riesco ad avere un bambino? Cosa c'è di sbagliato in me? Cosa c'è di sbagliato in tutti noi?» Mentre apriva la portiera, un altro forte crampo l'aveva fatta piegare in due.
«Vieni dentro che chiamiamo un dottore. Dei quesiti esoterici ci occuperemo
dopo» le aveva detto la madre, sostenendola saldamente con una mano sotto il
gomito.
Anna si diresse verso l'uscita del castello, cercando disperatamente di scrollarsi di dosso le immagini delle gravidanze andate a monte. Il resto del gruppo segui la guida verso le camere da letto. Lei era ansiosa di uscire all'aria aperta, non volendo restare in quel povero castello tutto infiocchettato come in un cartone della Disney. Si sentiva a disagio, quasi fosse un invasore respinto dalla Fairy Flag. I turisti non impalavano la gente del posto e neppure razziavano il maniero ma, sgranando gli occhi e indicando col dito, interrompevano la continuità del luogo, e finivano per portare con sé i grossi centri commerciali ai margini dei centri abitati, che risucchiavano la linfa vitale dai paesini e dalle loro antiche botteghe a gestione familiare. Anna non sapeva come la sua amica Harper riuscisse a guadagnarsi da vivere attirando l'attenzione su luoghi altrimenti tranquilli e infestandoli di visitatori e fotocamere digitali. Tuttavia era grata all'amica per averla invitata ad accompagnarla in quel viaggio che le sarebbe servito per scrivere un articolo sulla Scozia e sul Galles e infine sull'Irlanda. Anna aveva trentaquattro anni e la sua vita era andata a rotoli. Uscì alla luce del tenue sole del Nord, lasciandosi alle spalle le vestigia del passato. Si avviò tranquillamente sullo sterrato che portava al parcheggio. «Pss.» Anna si girò verso un cespuglio di ginepro, ma intravide solo un lampo di colore: un cappello fatto a maglia, blu, rosa e viola, e tutte le tinte che permeano le colline, le rocce e i campi. Andò dietro l'arbusto e vide una donna minuta. «Dice a me?» domandò Anna. Forse a casa avrebbe ignorato una sconosciuta che la chiamava facendo «pss», ma in quella terra di ostinata cortesia si sentì in dovere di rispondere. La donna aveva capelli bianchi raccolti sulla nuca con un fermaglio e indossava i tipici vestiti che si sarebbero immaginati addosso a gente fotografata vent'anni prima dal National Geographic per un servizio sulla bella Irlanda. Portava un golfino abbottonato fino al collo e una vecchia gonna scozzese sotto il ginocchio. Aveva in mano una borsa di plastica gialla e blu. «Ecco qui, cara. Credevo che non saresti uscita mai più. Ho una cosina per te.» La donna non era del gruppo di cacciatori di cultura nel castello, ma era chiaramente irlandese: troppo piena di cultura per andarne in cerca. Gli studi di giurisprudenza e alcuni tristi anni di pratica legale avevano acuito la diffidenza di Anna. L'ultima sua ricerca di diritto societario riguardava certi contratti inglesi stipulati con gli irlandesi nel periodo dell'occupazione britannica. A giudicare dall'età di quella donna, doveva aver vissuto negli anni in cui l'Irlanda si era ripresa da un'economia disastrosa, non migliore di quella di un paese del Terzo mondo. Durante quel viaggio, però, Anna si stava esercitando a scacciare i demoni dei propri studi di giurisprudenza; con la legge aveva chiuso. La donna inclinò la testa di lato e osservò attentamente la forestiera. «Ti ho visto arrivare. Non sei per niente alta come mi avevano riferito. Voglio dire, non sei poi così alta per essere un'americana.» «Sta aspettando qualcuno del viaggio organizzato?» domandò Anna. «No, non quelli.» «Deve avermi scambiato per qualcun'altra» disse. «Da quando sono arrivata qui, la gente continua a dirmi che ho un'aria familiare, che assomiglio a una cugina o a una sorella o a un'ex compagna di scuola. La mia famiglia è di origini irlandesi, ma non siamo mai stati molto bravi a mantenere il legame con le nostre radici. Non abbiamo neanche un genealogista in famiglia.» Anna guardò di nuovo verso l'entrata del castello per evitare di perdere di vista Harper, una volta che fosse uscita. «No, stavo aspettando proprio te, da molto più tempo di quanto tu possa immaginare. Tutti quegli anni passati laggiù in America devono aver peggiorato le cose, causato un mare di tristezza. Avevo pensato di venire io stessa, ma a quelle come me succedono cose orribili quando viaggiano oltremare. Dai, non farmi parlare tutto il giorno. Fra poco la tua amica uscirà da quella porta.» Infilò la mano nella borsa di plastica. «Ecco qui.» Estrasse un pacchettino di carta marrone, fermato con cura con lo scotch, secondo l'abitudine dei negozianti irlandesi. Era morbido e all'incirca delle dimensioni di un mazzo di carte. Glielo mise in mano. «Su, prendi. Mettilo nello zaino. Ne avrai bisogno. Per ora non c'è altro né per te né per loro» disse, toccandole una guancia con la mano gelida. «Non dovrei aggiungere niente, ma non sapevo che ti avrei trovato tanto sciupata, tanto triste. L'amore ti costringerà a fare uno spaventoso salto nel terrore. Puoi allontanarti dal richiamo, ma rimarresti sola. E sarebbe un vero peccato.» Anna rimase immobile, incapace di risvegliarsi dalla trance. «Arrivo! Arrivo!» gridò Harper dal cancello del maniero. «Mi sono dovuta fermare al negozio di souvenir. Non hai idea di quante cose ti ritrovi a collezionare per scrivere questi articoli sui viaggi.» Anna si girò e vide Harper con le mani piene di pacchetti, altri indumenti di lana, senza dubbio, e alcuni libri. All'improvviso Harper inciampò sui sassi, e i pacchetti si riversarono a terra come una colata lavica di souvenir. Anna corse ad aiutarla, voltandosi a guardare la donna anziana che aveva girato i tacchi e si era avviata a passi leggeri sul sentiero che portava al parcheggio. Anna raccolse alcuni pacchetti mentre Harper si ripuliva i pantaloni. «Grazie» disse Harper. «Mettiamoli tutti nel tuo zaino. Li smistiamo dopo.» «Quella donna mi ha dato una cosa» disse Anna. «A me succede di continuo, quando la gente scopre che scrivo di viaggi. Questa sarà l'ultima notte che trascorreremo qua, non posso crederci. Lasciamo la roba alla pensione e andiamo a mangiare qualcosa di buono e a berci un paio di birre in un pub. Il nostro volo parte domattina.» | << | < | > | >> |Pagina 52Quando Anna si chiedeva che cosa si provasse a morire, anzi nel primo attimo dopo la morte, immaginava di oscillare da uno stato all'altro, sfrecciare verso l'esterno, superare la volta dell'atmosfera terrestre, diventare un lungo filo che attraversava il tempo, increspandosi e scattando come un elastico per poi tuffarsi nell'incerto futuro dell'esistenza senza forma. Anche lei, al college, aveva provato l'ecstasy una volta, anzi due, e forse anche qualcos'altro, perché aveva avuto la netta sensazione di disancorarsi dal suo corpo, ed era proprio per questo che non voleva che suo nipote si drogasse. Rischiavi di disintegrarti e di non tornare mai più indietro. Potevi anche avere l'impressione di morire, e lei non voleva che Joseph provasse una cosa simile. Durante i suoi viaggi psichedelici si era sentita sollevare in volo, rimbalzando su luci armoniche. Ecco perché forse non aveva preso solo l'ecstasy; non aveva mai scoperto quale sostanza l'avesse provvisoriamente frammentata in una miriade di particelle. Ma aveva pensato che la morte facesse lo stesso effetto. Non avrebbe mai immaginato i pesci, di respirare sott'acqua, che non ci fosse aria, ma solo acqua e suono come sistema di trasporto. Geniale, davvero geniale. Cercò di guardare il proprio corpo per vedere se era ancora lì e, con sforzo enorme e concentrazione suprema, girò gli occhi in basso e a sinistra, dove avrebbe dovuto trovarsi la sua mano e, molto in lontananza, vide il ricordo insistente di una mano intrecciarsi a un'aspirante mano. Lo sforzo era immenso e andava contro tutto quel che stava succedendo, contro i banchi di pesci, le balene cantanti d'opera e gli squali d'un tratto obbedienti. Se era morta, allora perché riusciva a vedere il proprio corpo? Era qualcos'altro. Stava sfiorando il fondale dell'oceano? Partendo da un punto in mezzo alle strette fessure fra le sue costole si lasciò andare, si spinse in avanti, verso l'esterno e verso il basso. Mi sto disperdendo, pensò, come i pallini sparati da un fucile. Ma non era sola. Lei e Joseph erano stati trascinati via insieme; per un attimo, l'aveva visto sfrecciare davanti a sé. Non stava precipitando sola in quel buco. Erano in casa sua e avevano litigato. Prima che ogni pensiero volasse via, aveva allungato un braccio più che poteva per afferrare il ragazzo, ma non aveva trovato nulla.
Questo è un viaggio nel tempo, pensò. Lo capì non perché avesse già fatto
un'esperienza simile o conoscesse qualcuno che era scivolato nei corridoi del
tempo; era per via dei pesci e perché non c'erano altre spiegazioni.
Le mancò il respiro e, mentre sputava acqua, si sentì sgorgare dai polmoni un liquido pieno di sale e succhi gastrici. Aveva il ventre graffiato dopo essere stata trascinata dalle maree, sballottata dalle onde. Aveva qualcosa di rotto? Mentre era scompostamente distesa su un fianco, avvertì il fragore delle onde, forte come il rombo di un aereo. Il sale e la sabbia le irritavano gli occhi, ma aprì le palpebre e attese di riuscire a vedere il mondo circostante. Si trovava in mezzo a due scogli levigati e ricoperti di alghe simili a enormi tagliatelle verde scuro. Erano le raffiche e gli ululati del vento a creare quel frastuono assordante. Da bambina era andata con la famiglia a Hammonasset Beach, quando sullo Stretto di Long Island era scoppiata una tempesta. Il vento le impediva di parlare; ci aveva provato e aveva persino gridato più forte che poteva, ma non era riuscita a udire la propria voce, perché il vento si era impadronito di tutti i rumori, spazzandoli via, disintegrandoli. Mise alla prova questo vento. Con voce roca disse: «Ciao». Capì di aver pronunciato la parola solo dalla vibrazione che avvertì nella parte superiore del palato. Anna si sollevò a sedere e cominciò a controllare il proprio corpo, passandosi le mani sul petto. Bene, tutte le parti essenziali erano ancora al loro posto: la testa, il busto, le braccia. Era notte, o forse l'acqua di mare le aveva offuscato la vista. Fatto sta che faticava a vedere il proprio corpo. Si tastò la gamba destra. Bene, ora la sinistra. Coscia nuda contro palmi ghiacciati, poi le mani scivolarono sotto il ginocchio e sentirono un'eruzione di pelle e un'altra vibrazione sonora che sarebbe stata avvertita come un grido se non fosse stato per quel vento maledetto. Una scossa elettrica le percorse la gamba. Chinò la testa più vicino possibile alla gamba sinistra e una ferita profonda le si parò davanti in tutta la sua sconvolgente evidenza; era un taglio frastagliato e longitudinale, profondo fino all'osso. Frugò nella memoria; doveva per forza ricordare qualcosa. Niente, solo immagini frammentarie di pesci e momenti trascorsi al college. Controllò l'altra gamba con ancor più urgenza, sapendo quanto fosse importante avere almeno una gamba in buono stato. C'era solo del sangue sulle dita dei piedi che si erano graffiati nel tragitto sulla riva, ma nient'altro. Si toccò di nuovo il petto. Aveva addosso quella che un tempo era stata una maglietta bianca. Erano rimaste solo la parte intorno al collo e una striscia di tessuto, quel tanto che bastava a coprirle un seno. Si tastò i boxer, o almeno quelli che un tempo erano stati tali. Roba di suo marito. Attaccato all'elastico era rimasto un pezzo di stoffa lungo come il palmo della sua mano. Lo tirò giù per coprirsi le parti intime. Oddio, ridotta in quello stato, aveva bisogno che qualcuno la trovasse. Qualsiasi pensiero le fosse passato per la mente quando era stata trascinata via da casa sua ora era scomparso. C'era stato un incidente durante il volo di ritorno dall'Irlanda? La sua memoria era crivellata di lampi di scene senza soluzione di continuità. Un incidente, ah, sì, suo fratello, il terribile incidente. E suo nipote. Trasalì, e la paura le schiarì un po' le idee. Joseph: era andato a prenderlo nel New Jersey e avevano fatto un viaggio interminabile, e per poco non si era messa a urlare per il sonno che aveva. Dov'era il ragazzo? Si alzò in piedi, con l'angoscia per il nipote che le consumava il petto. Appoggiò tutto il peso sulla gamba destra. «Joseph!» gridò, circondandosi la bocca con le mani. Il vento afferrò il nome con le sue avide dita e lo scaraventò a miglia di distanza. Via via che gli occhi si abituavano alla penombra, scorse i contorni scuri di altri scogli, una spiaggia, una luce grigia che avrebbe potuto essere l'alba o il tramonto. Prese un'alga lunga e se la avvolse intorno al polpaccio, legandola come meglio poté. Guardò con rimpianto quel che rimaneva dei suoi vestiti, sapendo che uno dei due pezzi di stoffa avrebbe dovuto essere sacrificato per la ferita. Il mondo delle donne poteva essere diviso tra quelle che avrebbero scelto di essere salvate con indosso solo un pezzo di stoffa sul seno e quelle che avrebbero preferito coprirsi le parti intime? No, il mondo delle donne avrebbe potuto essere diviso tra quelle che avrebbero scelto di sopravvivere e quelle che avrebbero preferito rifugiarsi nella propria vanità. Si sfilò dal collo quel che rimaneva della maglietta e l'avvolse intorno alla benda di alghe stringendo il più possibile. Si incamminò sui sassi in cerca di aiuto, puntando in una direzione precisa, con l'oceano alla propria destra. Anna sapeva due cose: rischiava di morire di ipotermia o per un collasso, e anche Joseph avrebbe potuto fare la stessa fine, sempre che fosse sopravvissuto all'urto dell'oceano. Dopo aver fatto solo poca strada, nonostante lo sforzo enorme, si fermò lì sulla riva con il freddo nelle ossa e pensò che forse era soltanto un sogno, dato che la situazione in cui si trovava non poteva essere spiegata altrimenti, se non formulando vaghe ipotesi sulla morte e su un viaggio nel tempo. Forse era un sogno lucido, dato che era così vivido e sconvolgente. La sua coinquilina del college continuava a leggere libri sui sogni e una volta le aveva detto che l'esperienza più estrema era il sogno lucido, ossia sentirsi perfettamente coscienti all'interno del sogno. Nella semioscurità si guardò le estremità inferiori, e il colore bluastro delle gambe e dei piedi non aveva nulla di onirico. Se fosse stato un sogno lucido, avrebbe potuto cambiarne ogni particolare, avrebbe potuto volare, mutare paesaggio; fin troppo in fretta capì che non si trattava di un sogno. I sassi e la riva erano scivolosi e lei cadde a terra, sbattendo l'osso sacro su una pietra inclemente. Dalla brutta ferita alla gamba sinistra salì un dolore atroce, pulsante, quasi udibile. Aggirò uno scoglio e si diresse verso una baia più protetta, continuando a non vedere nessuno. Possibile che su quel tratto di costa non abitasse anima viva? E di quale costa si trattava? Una forza inesauribile alimentava il vento e Anna aveva sempre più sonno. I sassi la attiravano come se fossero un posto perfettamente adatto per dormirci sopra. Ricordò la volta che aveva fatto l'autostop nel New Mexico, vicino alla riserva degli Apache Mescalero. Quando avevano superato i tremila metri di altitudine, Anna si era sentita cascare le palpebre. Aveva detto alla sua compagna di escursione: «Io rimango qui a dormire sul prato, tu vai pure avanti. Passa a prendermi al ritorno». Era stato un sonno dolce e piacevole. Forse anche qui sarebbe stato lo stesso. No! Quella volta era stato per via dell'altitudine, adesso invece era tutto diverso. Scosse la testa con i capelli appesantiti dal sale e dalla sabbia. I sassi resi viscidi dalla pioggia e dall'acqua salata non erano un luogo adatto per dormire e, se si fosse concessa di riposare, avrebbe rischiato un collasso circolatorio. Se fosse morta, Joseph non avrebbe avuto speranza. Continuò a mettere un piede davanti all'altro. Camminava in leggera salita e a un certo punto sentì l'erba sotto i piedi. Fu una bella sorpresa, accompagnata però da una consapevolezza tutt'altro che incoraggiante: la sottile striscia di luce che aveva visto bucare le nuvole non era l'alba, bensì il tramonto; l'oscurità stava arrivando al galoppo, pronta a prenderla in trappola. Anna non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Fu scossa da un tremore incontrollabile. Il suo corpo stava cercando di riscaldarla. L'anno precedente, in gennaio, Anna aveva fatto un corso di sopravvivenza invernale nel Nord del Vermont. C'era una cosa che l'istruttore aveva ripetuto mille volte, a parte il solito mantra del «non bagnatevi per nessuna ragione al mondo, non bagnatevi mai», che a quel punto era inutile. Adesso sarebbe stato il momento migliore per ricordarla. Ah, sì! Tutte le vittime ritrovate avevano una caratteristica in comune: la disidratazione, che era letale quasi quanto l'ipotermia. Molto interessante. Aveva bisogno di acqua. Continuò a salire e ad allontanarsi dall'oceano, lasciandosi alle spalle il fragore delle onde. Ah, e poi c'erano le allucinazioni; sia l'ipotermia che la disidratazione potevano causare allucinazioni. Che cosa, di tutto quello, era solo un'allucinazione? Se fosse tornata al corso di sopravvivenza invernale, avrebbe potuto alzare la mano e chiederlo ai suoi istruttori vestiti di polipropilene. Ora sarebbe stato un buon momento per porre quella domanda, perché Anna vide due luci che oscillavano in modo irregolare e si avvicinavano a lei. Così assorta nei suoi pensieri, si accorse di essere finita in ginocchio. Non riusciva a ricordare quando fosse caduta e sapeva che non poteva giovare alla sua gamba, ancora avvolta nella lunga e spessa alga. Anna crollò in avanti ritrovandosi di fronte agli occhi un bel sasso con una conca piena d'acqua. Era distesa di pancia e in quella posizione poté leccare la pietra con la sua lingua gonfia. «L'acqua» aveva detto l'istruttore «vi salverà.» Una voce fendette il vento. «Eccone uno. Credi ne siano arrivati altri a riva?» La guancia sinistra di Anna era schiacciata su una striscia di sabbia bagnata. Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi per salutare i propri soccorritori; sarebbe stata la cosa più appropriata da fare. E avrebbe voluto ringraziarli per averla trovata. Più di ogni altra cosa, però, desiderava che la toccassero per confermarle che era viva. Presto l'avrebbero raggiunta, e lei sarebbe stata salva. Sentì le prime mani sulle spalle e udì un gemito uscire dalle proprie labbra. «Questo è vivo. Freddo come un cadavere, ma ancora vivo.» Ogni parola sembrava diversa, eppure uguale. Le loro parole si piegavano e si attorcigliavano, mentre le sue erano diritte. Parlavano inglese ma erano chiaramente di un altro paese, turisti irlandesi o delle isole britanniche. Un paio di mani la afferrarono per un fianco e una spalla e la girarono supina. «Gesù Maria! Copri questa donna!» Anna chiuse gli occhi e si abbandonò a quelle mani calde. | << | < | > | >> |Pagina 132Dopo una cena a base di interiora e carne di maiale, che aveva procurato a Joseph una leggera nausea, il colonnello proseguì la lezione sugli irlandesi, senza smettere di infilzare con piacere e ingoiare scuri pezzi di carne. Con aveva acceso un fuoco vigoroso che bandiva dal vasto maniero il freddo di fine ottobre. Il calore sprigionato dal camino era soporifero, e Joseph non vedeva l'ora che il sermone avesse termine. Il colonnello si vide costretto ad ammettere che gli irlandesi erano particolarmente abili con i cavalli; avevano una strana familiarità con quelle bestie, cosa che probabilmente dipendeva dalla loro natura animalesca.«È questo ad avvicinarli ai cavalli. Parlano la stessa lingua, tutta nitriti e sbuffi» disse il colonnello, per corroborare le sue accanite argomentazioni. Joseph aveva sentito di sfuggita due uomini parlare tra loro nelle scuderie, rendendosi conto che il loro idioma non era inglese. «Che lingua parlano gli stallieri?» domandò. «Quando lavorano qui, parlano solo l'inglese del re. Combattiamo la lingua gaelica irlandese giorno e notte. È la lingua della ribellione, dell'infedeltà e dei papisti. Non ci sono scuse. Grazie, ragazzo, con te ho un altro paio di orecchie.» Joseph non voleva essere il secondo paio di orecchie del colonnello, ma l'improvvisa sensazione di privilegio, l'ordine, la comodità di avere della gente che cucinava per lui, si occupava dei suoi vestiti, sellava e dissellava il suo cavallo lo inebriavano. Si sentiva perfettamente a suo agio, come se se si fosse sempre aspettato quella vita e fosse nato nella famiglia sbagliata. Il colonnello lo apprezzava e lo stimava, ma Joseph non voleva mettere nessuno nei guai. Fece rapidamente marcia indietro. «Mi sa che era solo l'accento, cioè il mio accento. Come avrete notato, ho un accento molto marcato, l'avete detto voi stesso. Forse stavano parlando inglese. Anzi, sì, stavano parlando inglese, e io non sono riuscito a capire che accento avessero.» Il colonnello sbatté il whiskey sul tavolo, facendo improvvisamente sobbalzare il liquido color ambra. «C'è un modo per scoprirlo. Li chiamiamo qui e glielo domandiamo direttamente; non che ci si possa fidare di loro, ma ho imparato a capire quando mentono. Sono come bambini: non sono capaci di mentire come si deve.» Suonò il campanello che era appoggiato sul tavolo. «Edwards, va' a chiamare i ragazzi delle scuderie e di' loro di venire di sopra. Digli che prima di entrare si tolgano gli stivali.» Allontanò da sé il piatto di carne grassa, rovesciando sul tavolo un liquido oleoso. Joseph cominciò a sudare, i vestiti eleganti lo stringevano in vita, lo legavano. I suoi meravigliosi stivali lo zavorravano come ancore. Avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quel salone insieme al colonnello, in attesa degli ignari ragazzi delle scuderie. In realtà, erano già uomini fatti. Perché li chiamava ancora ragazzi? Joseph udì il signor Edwards salire le scale dalla cucina. Dietro di lui c'erano gli stallieri. Come si chiamavano? Owen e Sean, con il cappello in mano. Erano circondati dall'odore intenso e deciso dei cavalli, del fieno e del cuoio. Il colonnello strizzò l'occhio a Joseph con fare cospiratorio. «Buonasera, signori. Il nostro ospite canadese si stava chiedendo quale lingua voi parliate. Potreste spiegarlo al ragazzo?» Joseph era sicuro che a quel punto Owen e Sean si sarebbero girati verso di lui, fulminandolo con gli occhi, accusandolo, e invece non lo degnarono di uno sguardo. Fu Owen a rispondere. «Voi ci avete ordinato di parlare inglese. E così noi facciamo, proprio come adesso, proprio com'è nostro dovere fare. Tuttavia, ci sono momenti, fra uomini, in cui la lingua antica ci aiuta a parlare dei morti, dei nostri avi, che conoscevano solo il gaelico. Il signor Joseph, ne sono certo, sarà stato presente in un momento del genere.» Il signor Joseph? Owen era un uomo robusto che doveva avere poco più di vent'anni. Joseph provò d'un tratto imbarazzo per essere stato chiamato signore da un adulto. Il colonnello si rivolse a Joseph. «Hai visto che lingua lunga che hanno? Hai sentito una risposta alla mia domanda in quel sermone papale?» Joseph si schiarì la gola e pregò che la sua voce non s'incrinasse. «Dopo averli sentiti parlare, mi rendo conto di essermi sbagliato. È proprio l'inglese che stavano parlando quando li ho sentiti. Non capisco tutto quel che dicono, questo è il problema. In tutta onestà, però, ho sentito solo parlare inglese. Ho fatto un errore.» Il colonnello andò avanti come se Joseph non avesse aperto bocca. «Edwards, potresti dire al nostro ospite qual è la pena per aver parlato una lingua proibita, la lingua dei traditori?» «Sì, signore. Parlare gaelico comporta l'allontanamento immediato dalla vostra tenuta. Se il colpevole ha un alloggio in affitto, sarà sfrattato anche da quello.» Il signor Edwards parlò a un pubblico invisibile, indirizzando la sua voce verso la vastità della sala. «Non sono forse stato clemente altre volte?» domandò il colonnello. Si tolse qualcosa da sotto un'unghia. «Sì, signore. Altre volte siete stato molto clemente.» «Secondo te, trasmetto un senso di benevolenza regale ai miei sottoposti?» Joseph non era sicuro di conoscere il significato della parola benevolenza, ma sapeva bene che cosa significava regale, ed ebbe l'impressione che il colonnello stesse estorcendo complimenti, cosa del tutto inutile, visto che era lui il padrone. Joseph si agitava nei suoi vestiti fatti su misura, nella speranza che qualcuno mettesse fine alla conversazione. «Le vostre maniere esprimono senza dubbio benevolenza regale, signore. E direi anche che le vostre accuse sono oneste, dettate dalla vostra mano salda e dalla vostra benevolenza» disse il signor Edwards. Quest'uomo è in gamba, pensò Joseph osservando il signor Edwards con rinnovato interesse. Per la prima volta capì che Edwards mandava avanti tutto l'apparato, anche se non sapeva bene di quale apparato si trattasse. «Fuori tutti» ordinò il colonnello. «E che d'ora in poi non si parli mai più gaelico sul suolo britannico.» In quell'istante vide Sean contrarre leggermente il volto e serrare i pugni subito dopo. Il signor Edwards non tradì alcuna emozione, il suo viso esprimeva un nulla perfettamente studiato. | << | < | > | >> |Pagina 148Anna si chiese se in Massachusetts qualcuno avesse denunciato la loro scomparsa e a quale sciagura fosse stata attribuita. Chi avrebbe sentito la sua mancanza? Steve, il suo ex marito, no di certo. Sua madre sì, in modo profondo e inconsolabile. Ma non suo fratello, che era in coma; adesso, fra tutti loro, era quello con il problema minore. Doveva semplicemente dormire. C'era persino una macchina che respirava al suo posto. Forse sarebbe mancata anche alla sua amica Harper, compagna di viaggio, confidente e bevitrice notturna di margarita, che però dopo il loro viaggio celtico era andata direttamente in Perù. Di certo non avrebbe immaginato che potesse essere successo qualcosa di brutto ad Anna. L'altro ex compagno di studi, Jasper, viveva a Los Angeles e si stava dedicando al diritto dello spettacolo. Quindi se per caso avesse sentito la sua mancanza, le avrebbe lasciato messaggi sulla segreteria telefonica, dapprima curiosi, canzonatori, poi stizzosi e quindi offesi. Alla fine se la sarebbe presa a male, chiedendosi se per caso avesse fatto qualcosa di sbagliato. I suoi amici sapevano che aveva fatto un viaggio e dunque avrebbero pensato che avesse voluto trattenersi più a lungo. Quindi le uniche a sapere che lei e Joseph mancavano all'appello dovevano essere sua madre e Alice. Anna ora doveva riflettere da sola su una cosa che appariva incomprensibile. Non conosceva le regole dei viaggi nel tempo. Sei settimane nel passato equivalevano a sei settimane nel suo tempo? Poteva tornare nella sua epoca senza che nessuno se ne accorgesse, perché erano trascorsi solo cinque secondi? Il tempo curvava e si torceva come un'alga sospinta dalle maree? Cominciava a pensare che tutto quel che aveva creduto vero lo fosse soltanto in parte o addirittura per niente. Ricordava che Joseph a cinque anni faceva fatica a comprendere il concetto di oggi, ieri e domani, e diceva frasi come: «Ieri andremo al parco». Oppure: «Ricordi quando sono caduto dalla bicicletta domani?». Lei era rimasta affascinata dalla rete artificiale che avevano dovuto costruire nel cervello del bambino per costringerlo ad assorbire la nozione generalmente accettata di tempo: l'esistenza di un passato, di un presente e di un futuro ordinati in modo lineare. Lo sanno tutti. Il passato di ventiquattr'ore si chiama ieri. Il futuro di ventiquattr'ore domani. L'istante in cui facciamo un respiro è adesso. Parlando di una settimana fa, la definiamo scorsa: la settimana scorsa. Se ci riferiamo a una settimana futura, aggiungiamo prossima e diciamo: la settimana prossima. Spiegandolo a Joseph, Anna si era resa conto di quanto dovesse essere difficile per un bambino comprendere concetti del genere. Eppure non aveva immaginato di essere lei quella che non aveva capito nulla. Rimani concentrata sul problema principale. Trova la regola. Analizza. Poi trai una conclusione. Quel procedimento aveva funzionato così bene durante gli studi di giurisprudenza e anche in seguito, allo studio legale... Ora, però, aveva difficoltà a superare la prima tappa. Il tempo, dunque, era in qualche modo fluido, e lei e Joseph avevano innescato un meccanismo per cui erano finiti in un tempo passato, che precedeva di centosessantaquattro anni il momento erroneamente definito presente. L'assurdità della situazione le fece emettere un gemito. Com'era possibile? Quello era il problema. E se era accaduto a lei e a Joseph, era forse successo anche ad altri? Che cosa aveva fatto scattare il meccanismo? E perché proprio Anna e Joseph, fra tutte le combinazioni improbabili? La questione fondamentale era il tempo o Anna e Joseph?
Anna si stava scervellando nel tentativo di ricordare che
cosa fosse successo nell'attimo prima del grande viaggio attraverso il portale
del tempo. Mentre studiava le responsabilità nell'ambito degli incidenti
automobilistici, aveva sentito
parlare di amnesia retrograda: le persone spesso dimenticavano i fatti che
avevano provocato un incidente, fatti non di
rado accaduti poche ore prima del disastro. Era come se il
cervello andasse in cortocircuito a causa del trauma e cancellasse ogni ricordo
immediatamente precedente. Poter dare
un nome al vuoto di memoria non le fu di grande aiuto, ma
se non altro attenuò la sua sensazione di totale ignoranza.
Quando non pensava alla sua vita nel Massachusetts, la sua vita nel futuro, a sua madre, a suo fratello all'ospedale o al destino di suo nipote, Anna pensava al cibo. Aveva fame; non aveva mai avuto tanta fame in tutti i suoi trentaquattro anni di vita. Mangiava due patate al mattino, una specie di porridge – che poi erano patate mischiate con dell'avena – a mezzogiorno e, quando la sera calava sulla casetta di Tom e Glenis, la famiglia consumava una cena a base di patate arrosto. Era lì da più di due mesi e le sue gengive avevano cominciato a sanguinare quando si graffiava i denti con un bastoncino affilato nel tentativo di lavarli. Le sue unghie, da sempre notoriamente robuste, iniziavano a spezzarsi. Aveva un desiderio folle di proteine. Fantasticava di mangiare un filetto al sangue, con contorno di broccoli al burro. Un'intera crostata di marmellata di pesche veniva subito dopo. La mancanza di proteine le aveva fatto scattare un allarme in fondo allo stomaco e Anna aveva una sfrenata voglia di carne. Una notte si sognò una bistecca che cuoceva e sfrigolava su una griglia nera a cupola, esalando spirali di fumo denso di aromi grassi così deliziosi da farla piangere. Doveva nutrirsi meglio. Rimpianse di non aver accumulato conoscenze al di fuori delle scienze politiche e della giurisprudenza. La sua compagna di college Emily, se fosse stata risucchiata indietro nel tempo, avrebbe saputo cercare le erbe e le piante giuste per integrare la propria dieta. Che cosa sapeva Anna delle piante? Chi aveva tempo di imparare altre cose mentre si affannava a superare gli esami di giurisprudenza per poi trovare un buon posto in uno studio legale affermato? Bisognava riflettere, trovare una soluzione. Doveva mantenersi in salute, non poteva ammalarsi nel passato, quando aspirine e antibiotici non erano ancora neanche lontanamente immaginabili e l'esistenza dei germi non era stata minimamente considerata. E se avesse preso la tubercolosi o la peste e fosse morta nel passato? Non è che poi si sarebbe cancellato il futuro o, quantomeno, la parte che la riguardava? La sua morte nel passato avrebbe provocato uno strappo nel continuum spazio-temporale squarciando l'universo? Che cosa sarebbe successo, se lei non fosse mai nata? Che dire di tutte le volte che aveva dirottato la rabbia del padre risparmiando altre botte a Patrick? Che cosa sarebbe successo? Patrick sarebbe stato ancor più danneggiato e ancor meno amato? Suo nipote sarebbe nato? Joseph avrebbe superato l'infanzia, con il padre irascibile che si ritrovava, se non ci fosse stata Anna a portarselo a casa quando era piccolo, a trascinarselo dappertutto, a preparare biscotti insieme a lui, a mandargli libri, colori e cose varie? E se non fosse mai nato? Ecco perché il viaggio nel tempo è una pessima idea, pensò, mentre si avviava in mezzo ai campi che circondavano la casa. Avrebbe potuto commettere ogni sorta di errore in grado di stravolgere l'ordine dell'universo. E i bambini a cui stava dando lezioni? Lei non sapeva nulla di storia della matematica. E se stava loro insegnando cose non ancora stabilite o addirittura ignote nel 1844? Si sentiva fiacca e triste. Aveva bisogno di mangiare. Anna rifletté. Ho bisogno di proteine e di qualche ortaggio verde. Che cosa beveva Emily? Tè alla rosa canina, ah sì, vitamina C, bacche di rosa canina. Gli inglesi non avevano ancora emanato una legge contro la rosa canina. Quelle poteva trovarle. E pesce, alghe, qualsiasi cosa uscisse dal mare. Non sarebbe morta in quel posto. Anna non usava più il bastone da passeggio, lo shillalah. Procedeva spedita in discesa, per saggiare la resistenza della gamba. Mentre si avvicinava alla casa, scorse Glenis con Nuala su un fianco. «Glenis, puoi farmi vedere dove crescono le rose canine? E dicevi che stavate per andare a prendere un carico di alghe da Kinsale per usarlo come concime. Voglio venire con voi» disse Anna. «Prepararerò una zuppa di alghe.» Glenis fece una smorfia. «Mia nonna mi faceva mangiare zuppa di alghe. Non contare sul mio aiuto.» Asciugò il moccio di Nuala con la punta del grembiule. «A Tom farebbe comodo una mano per caricare le alghe. Ha appena detto che è arrivato il momento di coprire gli orti per l'inverno. E ci sono vecchi cespugli di rose sulla strada per Kinsale, vicino al vecchio monastero. A che cosa ti servono?» «Voglio usare le bacche per preparare un tè» disse Anna, prendendo in braccio la bambina per permettere a Glenis di stendere i panni. La piccola guardò Anna con affetto e le mise una manina sulla guancia. «Sei una signora molto bella» disse Nuala.
«Sì, molto bella e molto strana» disse Glenis.
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