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| << | < | > | >> |Pagina 21Una strada correva verso est, dal Sichuan allo Hunan. Giunta nei pressi di Chadong, piccola città di montagna situata a est del confine, lambiva un ruscello. Lì accosto sorgeva una piccola pagoda bianca, ai cui piedi abitava una famigliola: in tutto un vecchio, una ragazzina e un cane bruno. Dopo aver zigzagato lungo il monte per un miglio e più, a Chadong il ruscello si congiungeva al fiume; presa la strada fra le colline, passato il ruscello, saresti stato in città nel giro di cinquecento metri. Il ruscello era arcuato, la strada diritta, e dunque un po' più corta. Il letto del rivo, ornato di grandi ciottoli, era largo una trentina di metri; le sue acque, profonde più di una pertica, sempre così trasparenti e placide che ne avresti potuto contare i pesci. Giacché il ruscello si trovava sul passaggio fra il Sichuan e lo Hunan orientale, non essendoci i fondi per costruire un ponte, vi era stato adibito un traghetto, in grado di trasportare fino a venti fra bestie e persone. Se i passeggeri erano di più, si faceva un'altra corsa. A prua era piantata una canna di bambù con un gancio di ferro in cima; una fune era tesa fra le rive del ruscello. Se c'erano traghettanti, il barcaiolo non doveva far altro che aggiustare la corda sul gancio, reggersi a essa, e trascinare lentamente la barca dall'altra parte del fiume. Quand'era pronto all'attracco, gridava: o-hé, piano!, balzava a riva e tirava a sé il gancio. A riva, infine, scendevano i passeggeri, il carico e il bestiame, sparendo quindi oltre le colline. Siccome l'approdo era di proprietà pubblica, i passeggeri non erano tenuti a pagare. Ma a volte c'era chi, imbarazzato, pigliava delle monete e le gettava nella barca: al che il barcaiolo gliele ricacciava in mano dopo averle raccolte una a una e diceva con aria compunta e risentita: "Chi le vuole queste! Io ho la mia razione, e tanto mi basta: trenta chili di riso e settecento denari!". La gente però si sente la coscienza sporca a far sudare uno senza compenso, per cui niente, c'era sempre chi i soldi glieli voleva dare per forza. Il barcaiolo ci rimaneva male e, per mettersi a posto la coscienza pure lui, consegnava quei soldi a qualcuno perché andasse a Chadong a comprare del tè, o del tabacco di prima qualità che poi si appendeva alla cintola e offriva con generosità in dono a chiunque ne volesse. Talora, se gli pareva che un viandante lo avesse adocchiato, quel suo tabacco, gliene infilava un mazzetto nella borsa, dicendo: "Compare assaggia questo, sentirai che meraviglia! Sembra un po' grezzo, ma è di quello buono, anche per un regalo!". Il tè lo teneva d'estate in un orcio d'acqua bollente, per elargirlo ai viandanti affinché si togliessero la sete. Il barcaiolo era quello stesso vecchio che abitava ai piedi della pagoda. Faceva la guardia al ruscello da quando aveva vent'anni e ora ne aveva settanta; quante persone avesse traghettato, in quei cinquant'anni, non lo sapeva nemmeno lui. Per quanto fosse vecchio, però, tirare i remi in barca non poteva: il Cielo aveva deciso altrimenti. Aveva sempre vissuto in quel luogo con serena devozione, senza mai farsi domande sul senso del suo faticare. Non era il cielo, tuttavia, bensì la ragazzina che aveva al suo fianco, a dargli la forza di vivere al sorgere del sole e a stornare il pensiero della morte quando veniva la sera. Suoi unici amici erano una barca e un cane, una ragazzina il suo unico affetto. Quindici anni prima la mamma della ragazza, unica figlia del barcaiolo, era andata per fratte con un soldato di presidio a Chadong che le aveva fatto la serenata di nascosto da quel brav'uomo di suo padre. Il soldato aveva pensato dapprincipio che una volta nato il bambino avrebbero potuto fuggire lungo la via del fiume, ma dato che ciò avrebbe significato diserzione per l'uno e abbandono del padre per l'altra, dopo lunga riflessione realizzò che se lei da un lato non avrebbe avuto il coraggio di andarsene, lui, se così avesse fatto, avrebbe mandato in pezzi il suo onore. Però, per quanto non avrebbero potuto unirsi in vita, nessuno gli avrebbe impedito di farlo nella morte, così si avvelenò per primo. Lei invece non si risolveva, avendo troppo a cuore quella cosina che portava nel ventre. Così, mentre il padre barcaiolo, risaputa la cosa, continuava la sua placida vita senza mettersi in mezzo e facendo finta di essere all'oscuro di tutto, lei gli rimaneva al fianco divisa fra vergogna per sé e pietà per il genitore, fintantoché, nata la creatura, non andò a cercar la morte nel fiume, bevendone di proposito una spanciata di acqua ghiacciata. La povera orfanella diventò grande per miracolo, e in un batter d'occhio si trovò a tredici anni. Data la moltitudine di boschetti di bambù che vestivano le montagne di un verde abbagliante, il vecchio barcaiolo la chiamò Smeraldo. Cresciuta nel vento e nel sole, Smeraldo era scura di pelle; specchiandosi in monti e torrenti, aveva gli occhi limpidi come il cristallo. Madre natura l'aveva allevata rendendola innocente e viva come una bestiola selvaggia e docile come una cerva, cui erano sconosciute crudeltà, ansietà e collera. Se qualche volta uno dei forestieri in transito le mostrava attenzione, volgeva a lui di colpo quei suoi occhi splendenti facendo le mosse di volersi dare alla fuga, poi, compreso che nessuna minaccia sarebbe venuta da costui, riprendeva placidamente a giocare sul bordo del fiume. Il vecchio doveva badare al traghetto con ogni tempo. Quando v'erano passeggeri s'inarcava appena appena, impugnava la fune con ambo le mani e trainava la barca sull'altra riva. A volte, invece, stanco, andava a sonnecchiare sugli scogli presso il ruscello e, se sull'altra sponda qualcuno chiamava il traghetto, Smeraldo, per non svegliarlo, si precipitava in barca e traghettava con agilità e senza intoppo i viandanti in sua vece. Altre volte nonno e nipote salivano sul traghetto assieme al cane, e tiravano la corda in coppia. Prima che la barca approdasse, mentre il nonno gridava ai passeggeri: "O-hé, piano!", il cane addentava la corda e, come fosse addestrato, balzava a terra per primo tirando coi denti il mezzo verso riva. | << | < | > | >> |Pagina 42Era la festa del Dragone di due anni prima, mese di giugno. Il nonno aveva trovato un sostituto per il traghetto ed era sceso in città con Smeraldo e il cane a vedere le barche. La folla lungo fiume, quattro lunghe barche vermiglie che avanzavano increspando con la loro testa di drago l'acqua di un verde brillante, il sole alto nel cielo, il chiasso dei tamburi. Smeraldo guardava, le labbra serrate e una gioia indescrivibile nel cuore. Così tanti gli spettatori pigiati sulle rive, che dopo un po' al suo fianco c'era il cane, ma il nonno era sparito nella calca. Concentrata sulla gara, Smeraldo pensò che di lì a poco sarebbe arrivato. Ma poiché dopo un po' il nonno non era ancora tornato, fu presa da una vaga agitazione. "Avresti paura ad andare in città da sola, domani, se c'è tanta gente?", le aveva chiesto lui il giorno prima. "Certo che no," aveva risposto lei, "ma se ci vado da sola, che divertimento c'è?". Così, dopo averci pensato un pezzo, il nonno si era ricordato di un vecchio amico che abitava in città e gli aveva fatto visita quella sera stessa, chiedendogli di badare alla barca per un giorno, mentre lui e Smeraldo se ne andavano a spasso a Chadong. Inoltre, giacché quello era ancora più solo al mondo di lui, non avendo al suo fianco non un parente né un cane, l'aveva invitato ad andare in mattinata a mangiare un boccone e farsi insieme un bicchiere di vino del dragone. Il giorno dopo, una volta che il vecchio fu arrivato ed ebbero pranzato, il nonno e Smeraldo gli cedettero la barca e finalmente si avviarono in città. Lungo la via, però, qualcosa balenò nella testa del barcaiolo, che chiese a Smeraldo: "Piccola mia, sul serio hai coraggio di stare tutta sola in mezzo a quel baccano?". E Smeraldo rispose: "Certo! Ma da sola che gusto c'è?". Di fatto, arrivata che fu al fiume, le quattro barche fiammanti catturarono la sua attenzione, e la presenza del nonno divenne superflua. 'È ancora presto,' pensò allora lui, 'mancheranno minimo tre ore alla fine. Il mio compare non se la può proprio perdere, questa botta di vita. Se mi sbrigo a dargli il cambio fa ancora a tempo a venire!'. Così avvertì Smeraldo: "Tu sta' ferma qui, c'è troppa gente; io mi assento per una faccenda. Al più tardi ti vengo a prendere per riportarti a casa". Smeraldo annuì soprappensiero, incantata com'era a guardare un sorpasso. Il nonno, sapendo che il cane l'avrebbe vegliata anche meglio di lui, girò i tacchi e tornò dalla sua barca. Quando arrivò all'approdo, vide il vecchio amico che tendeva gli orecchi ai tamburi distanti, in piedi sotto la pagoda bianca. Il barcaiolo si fece venire a prendere, traversò il rivo assieme all'amico e con lui andò ad accomodarsi ai piedi della pagoda. A quello che domandava come mai fosse tornato, rispose che Smeraldo era già al fiume e che era ora che andasse anche lui a godersi la festa: "Se ti diverti non c'è bisogno che torni, basta che dici a Smeraldo di rincasare quando è ora. Se ha paura di tornare da sola, puoi accompagnarla tu". Solo che all'amico la voglia di vedere la regata era già bell'e passata; gli avrebbe fatto gola, piuttosto, restarsene lì, sugli scogli, a farsi un'altra bevutina col barcaiolo. Senza farselo ripetere, il vecchio tirò fuori l'otre e tutto contento lo porse all'amico, che infine, fra un sorso di grappa e un racconto di feste passate, si addormentò ubriaco sulle rocce. Il nonno dovette rimettersi a badare al traghetto, e non poté più tornare in città. Smeraldo cominciò a impensierirsi. Il vincitore era stato proclamato, l'intendente militare aveva già dato ordine a una barchetta di liberare le anatre nel fiume, ma il nonno non si vedeva ancora. Smeraldo, temendo che la stesse cercando altrove, si accalcò con il cane fra la folla, ma di lui nessuna traccia. Cominciò a far sera. I soldati sbaraccarono le panche portate dalla città poche ore prima. Le anatre rimaste si contavano sulle dita di una mano, così come i loro cacciatori. A monte, in direzione della casa di Smeraldo, calava il sole. Un'esile nebbia copriva il letto del fiume. Di fronte a tale paesaggio, un pensiero cupo le attraversò la mente: "E se il nonno fosse morto?". Le venne in mente che il nonno le aveva raccomandato di aspettarlo lì, e, per confermare l'infondatezza dei suoi timori, pensò che senz'altro non arrivava perché qualche conoscente l'aveva trascinato in strada o in casa propria per una bevuta. Sicché, essendo questa ipotesi più che probabile, decise che sarebbe tornata a casa solo quando fosse del tutto buio e si mise ad aspettare in piedi sul pontile di pietra. Poco più tardi, due barche-drago andarono ad attraccare presso un rivo di là dal fiume e disparvero. Quasi tutti gli spettatori se n'erano andati. Le luci si erano accese nelle case delle prostitute sul molo e si udivano le loro voci cantare al suono di yuegin e tamburelli. Da altre palafitte venivano i brindisi rumorosi di quelli che giocavano a morra. Su alcune barche ormeggiate sotto alle palafitte la tavola era imbandita; rape e cavoli sfrigolavano vivaci nell'olio bollente. La luce, intanto, si smorzava sopra il fiume, dove solo un'anatra pareva rimasta, dove solo una persona non desisteva dalla caccia. Convinta che il nonno sarebbe venuto a riprenderla, Smeraldo non se ne andava ancora. Il canto delle palafitte salì di tono. Da una barca poco discosto giunse la voce di un marinaio: "Jinting, hai sentito la tua puttana che fa festa ai mercanti del Sichuan? Ci metto il dito mignolo che quella è la sua voce!". "Lascia pure che gli faccia festa," rispose l'altro marinaio, "tanto è a me che pensa. Lo sa che sono qua in barca". "Questa è bella!", replicò il primo, "loro si prendono il suo corpo, ma il cuore è tutto tuo! Ne sei proprio convinto?". "Convintissimo", ribatté l'altro, e modulò uno strano fischio che fece cessare il canto quasi all'istante. I due scoppiarono a ridere, seguitando a discutere della donna con delle indecenze che Smeraldo ben di rado aveva sentito. Ma non se ne poteva andare. Nel sentir dire uno dei marinai che il padre della ragazza l'avevano ammazzato con diciassette coltellate vicino alla Collina del Cotone, di nuovo quel pensiero bizzarro le diede una stretta al cuore: "Che il nonno sia morto?". I marinai discorrevano ancora. L'anatra solitaria nuotava verso il pontile, puntando Smeraldo. "Avvicinati un altro po' che ti acchiappo!", pensò lei, e rimase silenziosa in attesa. Quando però l'anatra fu a una decina di metri dalla riva, si udì una risata e un grido all'indirizzo dei due marinai sulla barca. Un tizio, nell'acqua, aveva acciuffato l'anatra e si era messo a nuotare sguazzando piano piano verso riva. Nella penombra, i due gridarono a loro volta: "Ah, sei tu Secondo... sei una vera forza! Quante ne hai prese oggi, cinque?". Il tizio in ammollo rispose: "Questa ruffiana non si faceva prendere, ma adesso ce l'ho in pugno!". "Tu sei nato cacciatore: oggi le anatre, domani le donne!". Quell'altro, però, non disse più niente; in prossimità del pontile, batté mani e piedi sull'acqua e tutto zuppo salì a riva. Il cane abbaiò verso di lui in tono di minaccia, rivelando la presenza di Smeraldo. Sul molo non c'era nessun altro. "E tu chi sei?", chiese lui. "Sono Smeraldo". "Oh! E chi sarebbe mai questa Smeraldo?". "La nipote del barcaiolo del Rio Turchese". "Oh!... E che ci fai qui?". "Aspetto che ritorni il nonno". "Sta' sicura che il nonno non torna: si sarà ubriacato con qualche soldato in città e l'avranno portato a casa in spalla". | << | < | > | >> |Pagina 90Il giorno dopo, quando tornò per la seconda volta nell'orto dietro la pagoda e il nonno volle chiederle cosa aveva deciso, Smeraldo abbassò il capo col cuore in gola e senza badarlo si diede a strappare le erbacce. 'Meglio portar pazienza. Se insisto è capace di ripulirmi tutto l'orto', pensò lui. Per quanto quel silenzio gli sembrasse un po' balzano, tenne per sé le altre domande e con una finta risata portò il discorso da un'altra parte. Mano a mano che si avvicinava luglio, la stagione era sempre più calda e il barcaiolo, com'ebbe un po' di tempo, rimediò in un canto della casa un orcio tutto impolverato e lo andò a sistemare fra l'uscio e la riva del ruscello, dopo avervi fatto un coperchio rotondo, un treppiede di legno e un mestolo per il tè con una grossa canna di bambù scavata e imbastita con il vimini. Al mattino Smeraldo vi versava l'acqua fatta bollire in un pentolone, mettendovi talora le foglie di tè, e tal altra il fondo di riso bruciacchiato rimasto attaccato alla pentola. Il nonno, intanto, preparava dei toccasana a base di erbe e radici, buoni a curare ogni malanno, che teneva in casa per ogni evenienza. Quindi, quando gli pareva di vedere un viandante con una strana cera negli occhi, correva a tirarli fuori e si prodigava per farglieli prendere, spiegandogli i principi della medicina popolare che aveva appreso dagli sciamani e dai dottori militari di Chadong. Il nonno stava tutto il giorno in barca a torso nudo e a capo scoperto, i bianchi capelli corti inargentati dai raggi del sole. Smeraldo, non avendo perso la sua gaiezza di fanciulla, correva cantando tutt'intorno alla casa, o si metteva sotto l'ombra di un albero, sopra gli scogli, a suonare per gioco un flauto di bambù. La faccenda del matrimonio sembrava per entrambi del tutto acqua passata. L'intermediario, però, non tardò a rifarsi vivo. Il barcaiolo lo accomiatò di nuovo rimettendo la decisione a Smeraldo, ma poi, tornato a interrogarla, non cavò da lei alcuna risposta. Non capendo dove stava l'intoppo, quella notte s'immerse in un continuo rimuginare, finché non lo colse, vago, il sentore che Smeraldo forse non volesse bene al Primo, ma bensì al Secondo. Un sentore che si trasformò prima in certezza, quindi in una risata, cupa, di paura. Ciò che temeva, in realtà, era che Smeraldo tutt'un tratto si stesse facendo uguale alla madre, e che un unico destino dovesse accomunare le due. Assalito dai ricordi, perse del tutto la voglia di dormire. Corse fuori sugli scogli e sostò a lungo a guardare le stelle, ascoltando il trillare dei grilli e il fitto bisbiglio degli insetti. Smeraldo di tutto ciò era ignara. Né il gioco, né la fatica, né quelle misteriose vicende che le mettevano il cuore sottosopra, potevano turbare i suoi sogni di ragazzina. Ma le cose prima o poi dovevano cambiare; la tranquillità usata di quella vita era stata ormai spezzata dagli eventi di quei giorni. Nella casa del molo, infatti, quando il Secondo aveva saputo del gesto di Tianbao, si era premurato anch'egli di esternare al fratello i propri sentimenti: anche lui, come il Primo, si era innamorato della nipote del barcaiolo. 'Ovunque brucia il fuoco e scorre l'acqua, ovunque splende il sole e va l'amore', dice un detto di Chadong: niente di strano, pertanto, che un giovane di buona famiglia si innamorasse della povera figliola di un barcaiolo. L'unico dilemma era se, per stabilire chi dei due si sarebbe aggiudicata la ragazza, si sarebbe dovuto sparger sangue come volevano i costumi locali. Se i due non sarebbero arrivati al coltello, certo nemmeno si sarebbero fatti da parte con la risibile, cavalleresca codardia dei maschi delle grandi città. Il Primo vuotò il sacco in un piccolo cantiere lungo il fiume, di fianco alla barca nuova del padre, precisando che quell'idea gli si era piantata in testa da ben due anni. Nuosong lo ascoltava sorridendo. I due s'incamminarono lungo il fiume verso il nuovo mulino dei Wang. "Sei fortunato," disse il Primo, "sposando la Wang ti prenderai il mulino. Io, se tutto va bene, mi prenderò la barca del vecchio. Ma a me basta e avanza. Mi piacerebbe anche comprare le due cime che fiancheggiano Rio Turchese, circondarle di un muro di bambù e segnare i confini del mio piccolo regno!". Il Secondo ascoltava in silenzio, tormentando con un falcetto l'erba che cresceva sul ciglio della strada. Arrivato al mulino, si bloccò: "Primo, ci credi che quella ragazza vuol già bene a un altro?". "No". "Ci credi che quel mulino un giorno sarà mio?". "Nemmeno". I due entrarono nel mulino. "Bravo...", disse il Secondo, "ascolta: ci credi se ti dico che voglio un traghetto e non un mulino, e che lo voglio anch'io da ben due anni?". Il Primo rimase sbigottito. Guardando Nuosong seduto sulla trave della macina, capì che non mentiva. Gli si fece sotto, lo afferrò per le spalle, e fece il gesto di buttarlo a terra. "Sì," disse poi con un sorriso comprensivo, "ci credo, stai dicendo la verità". Il Secondo giurò, guardandolo negli occhi: "È tutto vero fratello, credimi. È tanto che ci penso. A casa sono contrari, ma se dall'altra parte acconsentissero diventerei barcaiolo dall'oggi al domani! E tu?". "Io ho già parlato col babbo, e lui ha mandato Yang, il cavallante del presidio, a fare da mediatore col barcaiolo". Poi, come se si aspettasse la derisione del fratello: "È stato il vecchio a dire che il carro e il cavallo fanno mosse diverse; così ho scelto il carro". "Risultato?". "Niente. Il vecchio cincischia, parla per non dire". "E il cavallo?". "Il vecchio ha detto che il cavallo deve andare sugli scogli sopra Rio Turchese a cantar la serenata a Smeraldo per tre anni e mezzo. L'avrà se le rerenate sapranno conquistarla". "Mica male come idea!". "Sì, magari per un balbuziente che canta meglio di quanto non parla! Peccato che non faccia per me. Io non so cantare... Ma cosa diavolo vuole quel vecchio? Sposarla a un uomo come il cielo comanda, o a un fringuello canterino?". "E allora?". "Allora voglio una risposta secca, tutto qui. Se è no, prendo la barca e scendo alle Sorgenti di Pesco, se è sì, mi metto a tirare il traghetto anche da subito". "E le serenate?". "Secondo, il campione di canto sei tu! Se hai voglia di andare a fare il fringuello va', vedrai che non ti metto la merda in bocca!". Il Secondo capì quanto il fratello era angustiato a causa di quella faccenda. Conosceva il suo carattere, quella burbera schiettezza della gente di Chadong, che ti mette il cuore in mano se ti ha in buona, ma patti chiari e amicizia lunga se non corre buon sangue. Per la verità il Primo ci aveva anche pensato, di tentare col cavallo se perdeva col carro, ma la confessione di poc'anzi gli aveva fatto capire che solo il fratello avrebbe vinto col cavallo: lui non avrebbe avuto speranze. Per questo non riusciva a nascondere la sua rabbia e il suo sdegno. Al Secondo venne allora un'idea. Tianbao e Nuosong sarebbero andati nottetempo al Rio Turchese e avrebbero cantato a turno senza farsi riconoscere; chi avesse ottenuto risposta per primo, avrebbe continuato a far la corte alla nipote del barcaiolo. Inoltre, giacché il Primo non eccelleva nel canto, sarebbe stato il Secondo a cantare per lui: questo il modo più giusto per conquistarsi la propria felicità. Il Primo, però, sapeva che non poteva chiedere al Secondo di fare il fringuello al posto suo; ma dato che il fratello, con quel suo spirito romantico, volle a tutti i costi risolvere così, insistendo che sarebbe stato più giusto, ci pensò un attimo, poi ridacchiò e disse: "Insomma vuoi proprio farmi fare il fringuello. Ebbene sia, che diamine, sfidiamoci nel canto! Ma che sia chiaro: io faccio da me. Il gufo avrà sì una brutta voce, ma è lui che canta, quando cerca moglie!".
Dopo aver combinato, i due fecero il calcolo dei giorni.
Oggi il 14, domani il 15, dopodomani il 16. Tre giorni di
luna piena. Si era nel pieno dell'estate e la notte non era né
calda né fredda: l'ideale, dunque, per andare su quegli scogli rischiarati dalla
luna, vestiti di bianco, a cantare col
cuore in mano alla propria bella secondo l'usanza, e poi
rincasare, scesa già la rugiada e con la voce ormai fioca,
sotto il chiarore incerto della luna, o andare nei mulini
della zona, rimasti all'opera tutta la notte, per aspettare il
giorno coricati nel tepore del granaio. Anche se nessuno
poteva dire a cosa avrebbe portato, la decisione fu considerata del tutto
normale, e i due decisero di dare inizio la
notte stessa a quella sfida sancita dai costumi locali.
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