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| << | < | > | >> |Pagina 7Venticinque anni prima che la Texas Tower n. 4 diventasse una delle imprese meno credibili della Air Force e una delle catastrofi più letali mai viste in tempo di pace, che avrebbe lasciato sole nel loro brodo di dolore e recriminazione diciannove mogli, fra cui Ellie Phelan, Betty Bakke, Edna Kovarick e Jeannette Laino, Ellie pensava di essere condannata a restare per sempre nel Kansas: aveva sei anni e non avrebbe probabilmente mai visto Chicago, per non parlare dell'oceano Atlantico. Suo nonno indossava un vecchio spolverino marrone con qualunque tempo e, quando saliva sulla decappottabile del figlio, si ostinava a sedersi al centro del sedile posteriore e ad afferrare la capote ai lati per mantenere l'auto in equilibrio. Questo accadeva ai tempi in cui l'esercito era a capo dei Civilian Conservation Corps, la marina esplorava il polo Nord con l'ammiraglio Byrd e l'aviazione svolgeva ancora il servizio postale in biplani dall'abitacolo aperto. Gordon aveva ricordato a Ellie il nonno e la cosa l'aveva turbata e innervosita. Lo aveva notato per la prima volta sulla ruota panoramica quando, prima che la ruota si mettesse in moto, lui si era assicurato che i bambini dell'ennesima famiglia avessero le cinture adeguatamente allacciate, e quando glielo avevano presentato gli aveva chiesto: "Come hai fatto a diventare responsabile della ruota?" Lui aveva sorriso e le aveva risposto: "È incredibile come io finga di sapere quello che faccio, eh?" ed Ellíe si era sconvolta ed esaltata nel vedere che qualcuno guardava il mondo esattamente come lei. | << | < | > | >> |Pagina 10Nel 1950 il ministero della Difesa era giunto alla conclusione che i radar collocati sulle navi-vedetta della marina e sugli aerei in ricognizione non erano abbastanza potenti da individuare i bombardieri russi a una distanza che permettesse ai caccia di intercettarli. Le stazioni radar dotate del sistema di primo allarme remoto che coprivano la parte più settentrionale del continente garantivano una certa sicurezza ma, dato che quasi tutti i bersagli di priorità elevata degli Stati Uniti si trovavano all'interno del corridoio metropolitano nordorientale, la protezione da un attacco proveniente dall'Atlantico risultava essenziale e totalmente assente. Per ovviare a tale mancanza, il Comando di Difesa Aerea aveva ordinato la costruzione immediata di cinque piattaforme lungo la costa, da Bangor ad Atlantic City. Le piattaforme erano state chiamate Texas Towers perché assomigliavano agli impianti petroliferi, erano state numerate da nord a sud ed erano costate undici milioni di dollari l'una.Per la loro costruzione si erano dovuti affrontare problemi ingegneristici senza precedenti, pari a quelli dei programmi spaziali. La Torre n. 4 in particolare costituiva una sfida molto più grande delle altre, perché le fondamenta andavano poste a 56 metri sotto il livello dell'acqua, a una profondità almeno tre volte maggiore rispetto a quella delle altre piattaforme. Nel 1955 la profondità massima a cui era stata costruita una struttura sottomarina ammontava a 18 metri, e il progetto era stato realizzato nel golfo del Messico. Per tali ragioni l'aeronautica aveva deciso che la Torre n. 4 dovesse essere nuova e audace nella concezione, e aveva affidato l'incarico a una ditta nota per la progettazione di ponti. La ditta non aveva alcuna esperienza nel settore dell'ingegneria oceanica. La Torre n. 4 poggiava su tre pilastri tubolari lunghi quasi 92 metri. I pilastri avevano un diametro di soli 3,6 metri, erano controventati da tre piani sottomarini di puntoni in acciaio di 76 centimetri e culminavano in una piattaforma triangolare a tre livelli che emergeva di 21 metri sopra le onde. Considerata nel suo complesso, dalle fondamenta di cemento poste nel fondale marino ai radome collocati in cima alla piattaforma, la torre era l'equivalente di un edificio di trenta piani in mezzo all'oceano. Sebbene le piattaforme di trivellazione avessero nella maggior parte dei casi retto alle burrasche e ai marosi del Golfo, quest'ultimo non era paragonabile, neanche nella sua veste peggiore, all'Atlantico settentrionale. E c'era già qualcosa che non andava nella Torre n. 4. A differenza delle altre, quando il tempo era cattivo o si levava anche solo un vento forte la torre si muoveva così tanto che tutti quelli che ci lavoravano la chiamavano la Malferma o l'Hilton Pendente. | << | < | > | >> |Pagina 39Eravamo a cena e i ragazzi stavano discutendo su cosa fosse peggio: la circoncisione o un calcio nelle palle. Uno ha dodici anni e l'altro nove, ma sanno già tutto. Io stavo finendo il mio chardonnay e tenevo testa a Maeve, mia figlia, che voleva sapere fino a che ora poteva stare fuori. Dall'altra parte del paese mia sorella stava crollando e aspettava che io la richiamassi, ma ovviamente non avevo ancora preso in mano il telefono. Maeve disse ai fratelli che le stavano dando sui nervi, ma i ragazzi non mollavano, così alla fine se ne uscì dicendo: "E il catetere dove lo mettiamo?" I ragazzi le chiesero cosa fosse e dopo che lei glielo ebbe spiegato si misero a gridare e a toccarsi all'altezza dell'inguine. Sean disse che era impossibile che i medici facessero una cosa simile e Neil disse che nessuno avrebbe infilato niente su per il suo Nolan. Ci fu un attimo di silenzio. Maeve chiese chi diavolo fosse Nolan. E vedendo la faccia del fratello, Sean disse: "Oh mio Dio, ho sentito bene? Hai chiamato il tuo uccello Nolan?" "Perché?" disse Neil. "Lo chiamo sempre così." Rimanemmo un attimo a bocca aperta. Il cane era sulla soglia e si chiedeva se fosse sicuro attraversare la cucina per andare a controllare la sua ciotola. "Ma perché lo chiami Nolan?" gli domandai. Erano quelli i miei weekend, in quel periodo. Neil cominciò immediatamente a piangere e si mise a guardarsi le parti basse come se le volesse uccidere. "Neil," dissi. Avrei potuto essere un po' più di aiuto. Ogni volta che si dispera penso: Ha solo nove anni. "Nessuno mi capisce in questa famiglia," disse Neil. "Nessuno ti capisce a questo mondo," lo incalzò il fratello. Mentre Neil si preparava per andare a dormire lo raggiunsi nel bagno e vidi che stava lavando Nolan con il mio spazzolino. "Cosa stai facendo?" urlai. "Cosa c'è?!?" gridò Neil. L'avevo spaventato. "Cosa stai facendo?" gli chiesi di nuovo. "Quello è il mio spazzolino." Glielo strappai di mano. Neil ricominciò a piangere. Ovviamente gli altri volevano sapere cosa stesse succedendo e si infilarono tutti in bagno. "Fuori di qui," dissi. "Non sono affari vostri." Neil si era già tirato su i pantaloni del pigiama, aveva scansato i fratelli ed era andato nel corridoio. Lo trovai nel letto con le coperte tirate su. Gli scoprii la faccia ma lui le tirò su di nuovo. "Sei una pessima madre," mi disse. Stava ancora piangendo. "Sei una pessima madre." "Perché sono una pessima madre?" gli chiesi. "Perché non ti permetto di lavarti il pisello con il mio spazzolino?" "E sei anche cattiva con me," mi rispose. "Cattiva," ripetei sconfortata. Gli tenevo le braccia per impedirgli di girarsi dall'altra parte. "E perché sarei cattiva con te?" "Perché sono stato adottato!" "Cosa succede?" chiese Maeve dalla sua camera. Passò un intero minuto prima che riuscissi a dire qualcosa. "Cosa ti fa pensare di essere adottato?" domandai infine a Neil. "Guardami e guardati," mi rispose lui. Mi guardai nello specchio sopra il cassettone. "Siamo uguali," gli dissi. Le mie parole lo fecero sentire ancora peggio. Mi ripromisi di chiedere spiegazioni a suo padre, ma mi addormentai mentre aspettavo la sua telefonata. Il lunedì andarono tutti a scuola come se non fosse successo niente, e quando Neil tornò facemmo due chiacchiere. Uscii apposta prima dal lavoro per poter parlare con lui. Lo presi per la manica dopo che aveva buttato a terra lo zaino, decisa a non farlo uscire fino a che non avessimo chiarito un paio di cose. Neil mi disse che non mi sapeva spiegare perché sentisse il bisogno di lavare Nolan, lo faceva e basta. Gli risposi che se aveva davvero bisogno di lavare Nolan gli avremmo preso uno spazzolino speciale, ma che non avrebbe usato il mio. "Be', il mio non lo voglio usare." "D'accordo, neanch'io voglio che tu lo usi. Compreremo uno spazzolino apposta per lui." La proposta fu di suo gradimento, anche se continuava ad avere il pianto facile. Quella sera, quando doveva essere già a letto, me lo ritrovai davanti mentre fissavo la posta elettronica con la testa fra le mani. "Ehi, quelle sono tutte per te?" Stava parlando della mia casella dedicata alle storie horror, impazzita al punto che mi ci erano voluti cinque minuti buoni per scorrerla tutta. Lavoro nel ramo pubbliche relazioni della compagnia di polizze sanitarie più grande d'America, e negli ultimi mesi l'intera costa orientale si era vista respingere le richieste di risarcimento con motivazioni tali che qualsiasi mezzo di informazione che si rispetti avrebbe fatto un balzo e preso nota. Io stessa avevo problemi a fornire spiegazioni in merito. Con alcuni clienti, se avevi un minimo di cuore, ti veniva difficile spiegare il perché di tutta quella sfiga. "Queste sono solo quelle di cui mi devo occupare io," gli risposi. "Alcune delle persone con cui lavoro ne hanno anche di più." Neil emise uno di quei mugolii che volevano dire: Sono contento di non essere te. Di nuovo pensai: Ha solo nove anni. | << | < | > | >> |Pagina 613 luglio 1845 È diffusa convinzione, nelle società scientifiche e fra gli ufficiali della marina, che i costi delle scoperte non siano mai così grandi da imporre di sottrarsi all'enormità dell'impresa. Sono stato sorretto da tale idea sin dall'infanzia. Una mattina di agosto, quando mancavano pochi giorni al mio ottavo compleanno, mio padre mi scoprì a oziare in un parchetto brullo accanto al suo negozio e mi annunciò seduta stante che avremmo fatto una gita a piedi. Vivevamo a Sleaford, una cittadina talmente minuscola che il massimo divertimento consisteva nel lanciare pietre agli asini riottosi che finivano negli orti delle cucine. Sleaford era anche il luogo in cui mio padre aveva un emporio in cui potevi comprare quello che volevi, posto che fosse uno sgabello da campeggio di seconda mano o una carriola rotta. Mi propose una camminata di una certa entità fino a Scrane End, sulla costa, dove come mi disse avremmo raccolto dati ai limiti estremi dell'umana conoscenza. Mi vedeva come uno di quei bambini solitari e dallo sguardo stupito che possedevano il dono della letargia al massimo grado, sebbene non fosse mai riuscito a cogliere l'esaustiva intransigenza del mio isolamento, e non perdeva mai occasione per darmi quelle che amava definire dritte morali per i giovani in merito al valore del tempo. Mia madre era morta di parto e, anche se non lo vedevo mai leggere, mio padre aveva l'aria dello studioso privo di moglie o figli a casa; e rivelava un'umanità di base così sollecita che la notte, a letto, tremavo in preda a una devozione nei suoi confronti che non riuscivo a esprimere appieno.
Quella mattina partimmo senza indugio, io con il bastone da
passeggio e mio padre ostentando un cappello che sembrava
un'antica rovina, e per un tratto seguimmo la ferrovia passando
da stazioni così piccole che non andavano oltre il binario e la
campanella. Mio padre mi parlava dei suoi affari come se io fossi
un amico intimo e sembrava non riuscisse a capire perché nessuno fosse
pienamente contento di lui. Giunti al tardo pomeriggio,
aveva cominciato a prendermi in giro dicendo che a ogni passo
che approvavo mi lamentavo di due. Mi si era a quel punto formata una serie di
orrende vesciche, ma ero fiero della decisione
presa di tenere l'informazione per me e del fatto che mio padre
non dovesse vergognarsi dello stato delle nostre scarpe. E quando finalmente
arrivammo, il litorale di Scrane End si aprì davanti
a noi, a levante, in una gloriosa distesa di mare e cielo. Al mercato
le scope erano fatte con un'erica talmente fresca che fra le setole
sbocciavano ancora i fiori viola. Insieme ci avventurammo fra i
gabbiotti delle pecore e dei maiali, dove un sottufficiale di reclutamento
navale si faceva cautamente largo fra la folla con i gomiti
alzati. E fu lì, vedendo la reazione di mio padre al passaggio del
sottufficiale nella cittadina e lo schooner a tre alberi ancorato al
porto, che concepii per la prima volta l'idea di una carriera in mare.
4 luglio 1845 Colui che troverà questo diario dovrebbe sapere che l'autore è Edward Little, al servizio del capitano Francis Crozier a bordo della HMS Terror come parte della spedizione Franklin, e che sebbene l'autore non sia l'addetto al diario ufficiale, le sue testimonianze e le sue osservazioni desterebbero un tale interesse, nel caso in cui la spedizione non riuscisse a fare ritorno, che l'Ammiragliato ha offerto cento sterline di ricompensa in anticipo per il loro recupero. Dato che il governo di Sua Maestà ha ritenuto conveniente fare un ulteriore tentativo per individuare, in virtù delle opportunità rappresentate dagli oceani Indiano e Pacifico, una via marittima a nord dei continenti americani, due navi, la Erebus e la Terror, sono state attrezzate a tale scopo e poste sotto il comando del capitano Sir John Franklin, cavaliere commendatore del Reale Ordine Annoverese dei Guelfi. Compito della spedizione è inoltre quello di correggere e rettificare le conoscenze geografiche altamente carenti in materia di regioni artiche, in modo particolare di quelle adiacenti alle Americhe, e di constatare la precisa ubicazione del polo magnetico settentrionale, dato che il miglioramento delle conoscenze nel campo della deviazione magnetica alle alte latitudini è essenziale per una cartografia e una navigazione precise. Il Polo non è chiaramente alla portata di spedizioni via terra e può essere raggiunto solo da navi in grado di superare l'inverno, che potrebbero a quel punto completare l'esplorazione del Passaggio a nordovest. Una volta raggiunta la latitudine di 74° 30' N, abbiamo l'incarico di spingerci a ovest fino alla longitudine di Capo Walker, che si trova a 98° O, e da lì quello di seguire la rotta più diretta che le circostanze consentano per arrivare allo Stretto di Bering. Al capitano Franklin è stato ordinato di trasmettere resoconti dei suoi progressi all'Ammiragliato tramite la gente del luogo e la Compagnia della Baia di Hudson, nel caso ve ne fosse la possibilità, oppure di gettare in mare cilindri di rame a tenuta stagna. Gli è anche stato affidato il compito di erigere cippi o pali segnaletici quando questo fosse possibile. Alla fine del primo inverno, o anche del secondo, potremmo trovarci in condizioni tali da desiderare di tentare un'altra via. Ma, data l'abbondanza di scorte e di carburante, dovremmo poterlo fare in tutta sicurezza. Non potremmo avere guida migliore. Il capitano Franklin ha visto la sua prima nave della marina, la Polyphemus, prendere parte all'attacco dei danesi a Copenaghen un paio di settimane prima di compiere quindici anni; e a Trafalgar, sulla Bellerophon, quaranta dei quarantasette uomini del cassero di poppa gli sono morti accanto. A quei tempi chiamavano il cassero di poppa il mattatoio, perché si trovava allo stesso livello delle bocche dei cannoni nemici. Il capitano ha partecipato alla prima circumnavigazione dell'Australia, e durante un naufragio si è cibato di buccini e granchi di terra per sei settimane. Da quando ha pubblicato il resoconto della sua spedizione nella Baia di Hudson, è noto come "l'uomo che ha mangiato i propri stivali" e al teatro di Leicester Square è stato allestito un ciclorama dell'Artico in cui c'era anche il suo ritratto. Mi ricordo che era contornato di orsi polari. Il capitano Crozier è un irlandese del Nord ed è presbiteriano, ma, come dice Tom, questo attesta solo che ha percorso le tappe da mozzo a comandante senza l'aiuto di sostenitori altolocati. Ha servito su ogni tipo di mezzo che galleggi, dalle navi ausiliarie ai cutter alle corvette ai brigantini alle fregate e alle navi di linea, e ha partecipato, come guardiamarina, alla prima spedizione di Parry in cerca del Passaggio, che si è avvicinata di molto alla meta. Ha più esperienza di vita fra i ghiacci di entrambi i Poli di qualsiasi altro uomo vivente. Che importanza ha se non è il tipo di persona che un ufficiale inviterebbe al proprio circolo? Noi siamo dalla parte di Cromwell, che ha detto: "Datemi uno di quei capitani semplici che sa per cosa combatte e a cui piace ciò che fa, invece di un ufficiale che possiamo definire gentiluomo e nient'altro." | << | < | > | >> |Pagina 105Domenica 1° gennaio Sereno e molto freddo. Stamane ghiaccio in camera da letto per la prima volta in tutto l'inverno, e nella cucina l'acqua si è gelata sulle patate non appena ho cercato di lavarle. Paesaggi brinati sui vetri delle finestre. Cominciamo il nuovo anno con poco orgoglio, meno speranza e sporadici e incerti sprazzi di felicità. Che io possa almeno imparare a lamentarmi meno e a essere meno egoista. Che io possa almeno essere contenta di per quello che ho: un po' di forza, un po' di motivazione, un po' di capacità di andare avanti. Un po' di stima, un po' di rispetto e un po' di affetto. Eppure non posso dire di essere migliorata in alcun modo, a meno che un maggiore bagaglio di sensazioni ed esperienze possa considerarsi un progresso.
Da quando abbiamo preso questa fattoria, mio marito ha cominciato a tenere
un diario: lo aiuta a vedere l'anno nel suo complesso e a pianificare e
scaglionare il lavoro. Nel suo taccuino
numera i campi e segna le spese sostenute per lo stallatico, la
manodopera, la semenza necessari per ognuno di essi e le entrate ricavate da
ogni raccolto. In questo modo sa cosa rendono
ogni raccolto e ogni campo un anno dopo l'altro. E, da quando
la primavera scorsa abbiamo perso la nostra Nellie, mi ha chiesto di annotare in
aggiunta, in un altro taccuino, questioni che
altrimenti rischiano di essere trascurate, dal noleggio di attrezzi
ai conti ancora da pagare. Ma non c'è testimonianza, in quelle
pagine semplici e incolori, degli eventi tumultuosi delle stagioni
passate, delle nostre emozioni e delle nostre paure, delle nostre
gioie più grandi e dei nostri dolori più strazianti.
Quando penso alla nostra vecchia fattoria, penso alle pietre.
Mio padre trascinava pietre con cui lastricare il passo carraio,
pietre con cui lastricare il cortiletto e pietre con cui costruire
la base su cui poggiava il camino. C'erano cumuli di sassi in
ogni punto in cui la staccionata formava un angolo, miglia di
muretti a secco che separavano i campi e ponticelli in pietra
che ci consentivano di attraversare i vari corsi d'acqua senza
bagnarci le scarpe. I cumuli di sassi comparivano e crescevano
di continuo, e ogni volta che aravamo facevamo nuove scorte.
Il primo compito che mi fu assegnato, da bambina, fu quello
di raccogliere pietre da un campo appena arato e metterle in
un cassone di legno. Prima di cominciare la sua giornata, mio
padre mi diceva: "Mentre io non ci sono, tu puoi raccogliere i
sassi in questo pezzo di terra, e quando hai finito puoi andare
a giocare." E quando al tramonto ritornava, io ero ancora carponi, in lacrime,
nel campo che mi aveva indicato: il lavoro non
era nemmeno a metà.
Mia sorella aveva lineamenti talmente belli che mia madre amava abbozzare suoi ritratti alla luce della lampada, ed era di carattere altrettanto accattivante; ma quando si trattava di affetti le circostanze mi condannavano alla lotta e all'ansia. Crebbi come una radice confinata in un vaso, ripiegata su me stessa. Mi sono ripromessa di recuperare un po' della pazienza che avevo. E di ricordare a me stessa che è una questione di esercizio. Nella maggior parte dei casi abbiamo solo bisogno di rendere ciò che già sappiamo una pratica consueta. "Benvenuto, caro giorno di riposo," dice l'inno, e la domenica è giorno graditissimo per le poche ore di tranquillità che ci concede. Alcune carrozze scoperte nonostante il freddo. Se non fosse per la funzione, tutte le signore dei dintorni rischierebbero di diventare delle perfette recluse. Quanto a me, alla funzione non vado più. Dopo la tragedia della perdita di Nellie, non è l'idea di un mondo che verrà, per quanto migliore, a infondermi quel poco di pace che riesco a trovare. Lontano, nel campo, volpi ritte sulle zampe posteriori che giocano a fare la lotta come ragazzini. Ogni tanto forti raffiche di vento. La neve cade dagli alberi intorno alla casa fino a che i rami più grossi non si ergono come uomini liberati da un debito. Il vecchio signor Manning, che nelle ultime settimane era molto giù, è morto questa mattina. Il tappo dell'inchiostro mi è rotolato addosso e ha rovinato metà di quello che avevo scritto. Perché l'inchiostro è come il fuoco? Perché è un buon servitore e un padrone difficile. | << | < | > | >> |Pagina 143Da bambino andavo sui pendii più alti che costeggiavano la città e guardavo i venti andarsene a mani vuote dalla valle e ritornare carichi di ricchi bottini, e imparavo che le distese superiori del cielo erano il regno di tempeste e trombe d'aria da cui scaturivano diluvi, grandinate e altri fenomeni, indice di una lotta della Natura contro se stessa. Plinio ci ha esortati a riflettere sulla meraviglia dei cieli, quello spazio immenso nel quale il fluido vitale cui noi diamo il nome di aria si diffonde e si dispiega in tutta la sua mobilità, e così io osservavo l'ascensione delle nuvole che si levavano come capitelli su invisibili colonne d'aria e già allora mi immaginavo una macchina aerea che approfittasse delle correnti prevalenti dell'atmosfera come le navi approfittano degli alisei. La vita di campagna e la solitudine mi avevano preparato bene allo studio dei fenomeni naturali. Ero di natura schiva, e né la conversazione con i miei simili né l'età che avanzava mi rendevano più baldanzoso. Mi sembrava che il resto del mondo mi considerasse un mistero, oppure, come gli anfibi, ero predisposto per vivere in due regni antitetici, quello della mia fantasia e quello che mi spingeva di continuo nelle braccia della società. Fin dai primi giorni, però, la mia attitudine alla speculazione e all'invenzione mi aveva spinto verso il cielo. Io e mio fratello siamo Joseph Michel e Jacques-Étienne Montgolfier, il dodicesimo e il quindicesimo dei sedici figli avuti da Pierre e Anne Montgolfier. Étienne è sempre stato affascinato da quello che lui considera lo spazio magico della mia immaginazione, e io ho sempre saputo che avrei sottoposto al suo vaglio ogni mia singola idea: nonostante abbia quattro anni in meno di me, è più maturo e il suo discernimento è maggiore. Tutti hanno sempre avuto grande stima di lui, per le sue capacità e la sua affidabilità, e hanno sempre trattato me con indulgenza per il mio scarso senso di responsabilità, con il risultato che abbiamo sempre invidiato uno la posizione dell'altro. Ma abbiamo anche sempre saputo che, per ogni compito o esplorazione che ci fossimo impegnati a intraprendere, non avremmo mai rifiutato il nostro tempo, lesinato le nostre considerazioni o negato la nostra dedizione. | << | < | > | >> |Pagina 162I sogni che prendevano forma nella solitudine del mio laboratorio – dove continuavo a rimanere, esiliato dall'invigorimento e dall'euforia dei grandi eventi cui tutta la Francia pareva aver assistito a eccezione del sottoscritto – riempivano fogli enormi con una prodigalità mai conosciuta prima: un pallone rettangolare alto duecento piedi e in grado di sollevare un cavallo e un carro. Una macchina cilindrica lunga seicento piedi che avrebbe volato grazie alla combustione di duecento libbre di legna al minuto. Bastimenti di dimensioni senza eguali nella storia del mondo.Con un'aria distratta percepibile persino nelle lettere, Étienne lodò la mia ambizione e mi consigliò di dedicarmi, nel frattempo, a modelli su piccola scala. Anche se temeva, aggiungeva scherzando, che il mio concetto di piccolo fosse un po' più grande di quello degli altri. Quando gli scrissi che la mia nuova macchina sarebbe ascesa molto più in alto di qualunque altra lanciata fino ad allora, mi rispose che le mie fantasie sarebbero andate benissimo se avessimo avuto ancora vent'anni e fossimo stati esenti da responsabilità, ma Thérèse gli aveva confessato alcuni dettagli della nostra situazione finanziaria e lui ci teneva a ricordarmi che non potevamo più contare su un approvvigionamento infinito di fondi. Nostro padre gli aveva reso noto in privato che non avrebbe fatto più nulla per alimentare i miei sperperi, aggiungendo che nemmeno in Inghilterra, ormai, i ricchi gettavano i loro patrimoni fuori dalla finestra. Étienne mi invitava piuttosto a concentrarmi sulle migliorie da apportare in materia di impermeabilità e di diminuzione del peso dell'involucro. Dopo la predizione del marchese d'Arlandes, mio fratello si era messo a considerare le applicazioni in campo militare della nostra invenzione, fra cui la possibilità di trasportare bombe al di là delle mura e lanciarle sulle fortificazioni. L'accusa mossa all'aviazione di alimentare unicamente la vanità degli scienziati, come se la famiglia reale ritenesse che la nostra impresa non andasse oltre gli spettacoli cui avevano assistito, lo angustiava da tempo. Grazie a noi, dopo tutto, i cieli potevano ora essere sfruttati tanto quanto i mari. La cosa che più lo entusiasmava, però, erano le opportunità che si aprivano per il commercio, la linfa del mondo ordinato, e in particolar modo la possibilità di trasportare grandi quantità di merci a costi ridotti. Gli risposi confessandogli che quello che mi spingeva ad andare avanti in quel momento era non tanto la prospettiva del monopolio di un sapere quanto quella di un sapere collettivo. Étienne trovava quell'idea così tristemente ingenua che nella lettera successiva scelse di non rispondermi affatto. Ma lo stesso commercio non è altro che una galassia dell'immaginazione che ruota oltre il mercato di prodotti e servizi. La sicurezza e l'ansia, entrambe assolutamente effimere, sono infinitamente più potenti di qualunque materiale solido. Basta pensare al credito, che con il suo potere fantasma mantiene a galla i suoi servitori e li fa andare avanti, anche se, quando cercano di afferrarlo, questi ultimi toccano con mano la sua diafana consistenza: quella di un vapore. Esprimo tale convinzione a Thérèse nel cuore della notte e Thérèse, strappata al sonno, si dichiara d'accordo solo per essere lasciata in pace. "Devi ancora saldare i tuoi debiti," mormora dandomi le spalle. In queste notti in cui rinuncio, ancora una volta, alle braccia di mia moglie, sono preda di una tristezza vigile e febbrile e mi colpisce il pensiero che le idee di questo mondo possano apparire sotto forma di sogni in quello contiguo, allo stesso modo in cui i fantasmi delle tenebre vengono dispersi dalla chiarezza del giorno. Thérèse sembra essere ancora più se stessa nel sonno, e ancora più degna della mia devozione, e io scruto la sua espressione a riposo e mi ripeto che, a dispetto di tutti gli ostacoli che ho disseminato lungo il nostro cammino, l'intimità non se ne è andata, come non se ne va il sogno agitato che al risveglio racconta alla mente la storia confusa e sconnessa di quello che può essere realmente accaduto. Continuiamo a non essere all'altezza, come gli oggetti che creiamo. Possiamo solo pregare, nelle nostre danze, e dire: "Fa' che io non leda la felicità degli altri." E aspettare che la tristezza si stanchi e ci dia tregua. E che la fatica faccia vibrare le corde dei nostri sentimenti con forza maggiore della più armonica delle musiche. Sveglio di nuovo Thérèse e lei si mette a sedere nel freddo della stanza, assonnata come una bambina ma sufficientemente preoccupata per il marito da raccomandarsi la pazienza. La sua capacità di sopportazione è di per sé un'indicazione di quell'intimità che mi spaventa nel suo continuo riproporsi. "Se vuoi andare a Parigi, fallo," mi dice pensando sia quella la causa della mia angoscia. Un uomo migliore la renderebbe partecipe di quello che sta per accadere, ma l'uomo che sono le mette un'altra coperta e resta accanto a lei fino a che non si calma e non si riaddormenta. Al punto che nemmeno la chiarezza con cui riesco a vedere come per l'ennesima volta mi ritraggo riesce a generare nel suo padrone un cambiamento. Ho spesso pensato che l'uomo, nel suo rapporto con il cielo, ricordasse gli organismi marini confinati nel fondale oceanico e che per scoprire le reali condizioni dell'atmosfera fosse necessario osservarle da altezze considerevoli. Viviamo negli abissi di un oceano d'aria. | << | < | > | >> |Pagina 169[...] La Burlington Northern è una compagnia di classe 1, una di quelle megaferrovie con una rete di cinquantamila chilometri che fattura trecento milioni l'anno e fa partire milleseicento convogli al giorno: per lo più treni merci di un centinaio di vagoni che ti bloccano al passaggio a livello per mezz'ora. E, se a livello di treni questa è la sfida più difficile, la sfida delle sfide è il trasporto di merci pericolose, quei convogli per cui se qualcosa va male salta in aria un'intera città com'è successo in Canada. L'ultima volta che l'argomento era venuto fuori, mia madre aveva detto che il tipo con cui lavoravo le sembrava a posto, mio padre aveva obiettato che i treni che trasportavano greggio volevano comunque dire troppo stress e troppe responsabilità e io avevo dato ragione all'una e all'altro. Mia madre mi aveva chiesto se i miei treni fossero davvero così pericolosi e mio padre le aveva risposto che tanto non voleva saperlo, ma lei aveva insistito che invece lo voleva sapere e quando aveva visto che non ero in grado di dirle altro mi aveva chiesto di nuovo del signor Robichaud. Le avevo risposto che era alla Burlington Northern dai tempi in cui i treni entravano in città con i ferrovieri che si affacciavano dalle passerelle semiaperte, che aveva una stanza in affitto vicino al piazzale di smistamento e che la prima volta che mi aveva invitato a prendere un caffè durante una sosta, quando gli avevo chiesto che odore avessi, mi aveva risposto: "Di formaggio e di polvere per scarafaggi." Avevo detto a mio padre che il signor Robichaud puliva sempre i maniglioni di ferro con uno straccio quando entrava in turno, perché diceva che alcuni dei ragazzi erano poco attenti quando andavano a fare pipì nei passaggi fra le carrozze. A mia madre avevo raccontato invece che era un tipo che piaceva a tutti, perché aveva l'occhio clinico per i guai: questo, diceva lui, era quello che succedeva quando passavi dalle dodici alle quattordici ore a guardare la strada che avevi davanti in cerca degli errori di qualcun altro. Mia madre mi aveva chiesto se fosse mai stato sposato e io le avevo risposto di sì, una volta, un sacco di tempo prima: la sua ex moglie viveva in città e dopo trent'anni passava ancora dall'altro lato della strada quando lo vedeva arrivare. Mio padre mi aveva domandato se avesse mai avuto problemi con un imbecille come me come braccio destro e io gli avevo risposto che gli piacevo. "Be', allora forse gli piacciono tutti," aveva detto lui ma io gli avevo spiegato che le cose non stavano così: il signor Robichaud diceva sempre che eravamo fortunati perché c'erano un sacco di coglioni che finivano a lavorare alle ferrovie e prima o poi te ne ritrovavi uno in squadra. Sui merci passi un sacco di tempo a controllare le cose di cui ti devi occupare, quindi spera di andare d'accordo col tuo macchinista perché sarete solo tu e lui in una cabina grande come un bagno. Devi lavorare con lui perché anche a livello base la sfida è grossa e devi controllare le forze in gioco: ogni giuntura fra i vagoni ha un agio di parecchi centimetri e se lo moltiplichi per centoventi vetture arrivi anche a una decina di metri, quindi se parti troppo veloce rischi di tirarti dietro solo metà del treno e se l'altra metà ti viene addosso l'urto di quindicimila tonnellate di roba farà rovesciare un bel po' di caffè. Questo significa che sei sempre lì a pensare con quindici chilometri di anticipo alle fermate, ai rettilinei, al traffico e a tutto quello con cui ti devi destreggiare. Ti possono richiamare in servizio ventiquattr'ore su ventiquattro sette giorni su sette con due ore di preavviso. Scordati di passare a casa le feste comandate o di prendere appuntamenti con una settimana di anticipo. Un sacco di dipendenti sono single. Le percentuali di divorzio sono alte. La paga è abbastanza buona, ma devi mettere in conto duecentocinquanta ore di lavoro al mese per arrivarci. Verrebbe da pensare che, per chi lo vuole, sui treni che trasportano greggio ci sia un sacco di lavoro, visto che negli ultimi dieci anni i carichi sono aumentati del 5000 per cento. Solo la Burlington Northern ne ha fatti circolare seicentomila barili al giorno sulla sua rete e la maggior parte dei convogli aveva un minimo di cento carrozze con centotrentamila litri a unità. Il greggio attraversava quasi ogni contea dai campi di produzione in mezzo al Canada fino alle Grandi Pianure e agli stabilimenti dove arrivava, dieci sulla East Coast, undici nel Golfo e dodici nel Pacifico. Treni su treni che passavano nelle stazioni accanto a casa tua. E per un sacco di tempo la produzione ha continuato ad aumentare. Non fosse per quello che succede quando un treno che trasporta greggio deraglia, nessuno penserebbe mai a tutto questo a parte i ragazzi che vagabondano per i negozi di modellismo con il loro berretto da macchinista in testa. Quello che è esploso in Québec tre anni fa ha incenerito quarantasette persone nei loro letti. E il greggio che trasportiamo noi è molto più volatile di quello che si trasporta nella media: ha un contenuto di gas più alto che genera una pressione di vapore maggiore e ha un punto di infiammabilità più basso. Ma ci limiteremmo comunque a guadagnarci la nostra paga, non fosse per lo stato in cui versa la maggior parte delle infrastrutture ferroviarie, che nei loro giorni migliori ricordano il peggio di basamenti e binari del Terzo Mondo. Otto anni fa, in un'apoteosi di deregulation, gli statisti di Washington hanno approvato quello che hanno chiamato, con grande senso dell'ironia, il Rail Safety Improvement Act, un decreto per il miglioramento della sicurezza in materia ferroviaria che prevedeva fra l'altro la cessione della competenza su oltre centomila ponti, fino ad allora federale, alle municipalità o ai privati: i limiti dei carichi, gli standard ingegneristici e i tempi di ispezione, manutenzione e riparazione sono stati da allora stabiliti da questi ultimi senza controlli da parte di nessuno. Per fare le ispezioni non è stato più necessario avere una laurea ed è cessato anche l'obbligo di riferire di eventuali problemi di sicurezza alle agenzie federali.
Indovinate un po' cosa è successo dopo. O, se non vi piace tirare a
indovinare, andate con una barca sotto il ponte ferroviario
più vicino e tirate su la testa. Vi troverete di fronte a palificazioni che
cadono a pezzi. A barre di rinforzo esposte. A traversine
spaccate. A bulloni e chiodi che mancano. A fratture nel profilato
d'acciaio. Vedrete anche fascette di metallo attorno a tiranti e
travi, come se qualcuno avesse avuto una nuova idea per una capriata. E se per
caso mentre siete lì dovesse passare un treno, fate
attenzione al cemento che si stacca.
Quando qualcosa va a compromettere quello che mantiene in linea le rotaie, lo slancio in avanti e il peso prendono il sopravvento e il treno abbandona i binari. E non si tratta di una teoria. Per un periodo questo è accaduto a un ritmo di dieci, massimo dodici deragliamenti l'anno. Poi sono cominciati a circolare molti più convogli di greggio, alcuni dei quali vanno annoverati fra i treni più pesanti mai visti da queste parti: i più lunghi arrivavano a pesare anche ventimila tonnellate. Alcune linee trasportavano dai venti ai trenta milioni di tonnellate di merce l'anno. Quello che succedeva al pietrisco delle massicciate, alle traversine in legno o alle rotaie stesse era sotto gli occhi di tutti: i binari cedevano anche nei tratti posati solo un anno prima. Quando i treni di greggio deragliavano c'erano per lo più perdite e incendi, ma non esplosioni. Ma ce n'erano sempre di più. E quando la Pipeline and Hazardous Materials Safety Administration, l'agenzia che si occupa della sicurezza di gasdotti e oleodotti e del trasporto di merci pericolose, ha fissato la soglia minima di evacuazione a 1,5 chilometri quadrati, venticinque milioni di americani si sono ritrovati all'interno di tale metratura. La divisione Merci pericolose del dipartimento dei Trasporti ha distribuito pieghevoli in cui si legge che il greggio è un materiale volatile e che a causa del volume dei trasporti e delle distanze percorse il rischio di incidenti significativi è aumentato. Almeno questo l'hanno fatto. Si potevano fare varie cose per rendere più sicuro questo lavoro, ma la deregulation le ha impedite tutte. Andare piano è sempre una garanzia, ma il limite di velocità per il trasporto di merci molto pericolose è stato alzato a sessantacinque chilometri l'ora. In caso di arresti di emergenza il sistema elettronico dei freni impedisce alle carrozze di addossarsi una all'altra, ma le compagnie hanno deciso che il sistema costava troppo. I convogli più corti deragliano molto meno, così il nostro sindacato ha chiesto che fosse posto un limite di trenta vagoni, ma la maggior parte dei treni ne hanno oggi da cento a centoventi. L'applicazione di valvole di sfioro ai vagoni cisterna riduce il rischio di esplosione, ma viene consigliata e non prescritta dal National Transportation Safety Board, l'agenzia che si occupa della sicurezza dei trasporti su scala nazionale. Per quanto riguarda i problemi dei binari, ispezioni più accurate sarebbero sicuramente di aiuto, ma si sa che è un grosso impegno: persino Amtrak, l'ultima ruota del carro, ha una rete di più di trentacinquemila chilometri. Poi, ovviamente, potremmo tagliare fuori le grandi città. Ma tempi di viaggio più lunghi vogliono dire costi maggiori e noi passiamo dritti dal centro. Accanto alle scuole. Vicino agli stadi. Nei quartieri in cui è cresciuta la gente come me, di cui nessuno si preoccupa troppo. La deregulation ha anche voluto dire che agli addetti al primo intervento non veniva detto cosa succedeva: la compagnia doveva solo dichiarare la spedizione "soggetta a segreto per motivi di sicurezza" e a quel punto la cosa non finiva nei loro registri. A causa di quello che è successo in Canada il dipartimento dei Trasporti ha emanato una disposizione di emergenza per cui tutti i treni che trasportavano più di tre milioni e mezzo di litri di greggio dovevano informare del loro carico ogni Stato da cui passavano, ma in molti posti la disposizione non è nemmeno stata codificata. E, dato che la maggior parte delle città non ha abbastanza attrezzatura antincendio per questo genere di casi, quando si verifica un incidente gli addetti al primo intervento si limitano a evacuare l'area e ad aspettare che gli incendi si spengano da soli.
[...]
Una delle cose che mandano su tutte le furie il sindacato è il
nuovo sistema antiscontro chiamato Positive Train Control, un
misto di GPS e tecnologia informatica concepito per eliminare
l'errore umano, che ha naturalmente fatto pensare a tutte le compagnie di poter
ridurre il personale a un solo macchinista. Lo eliminerebbero del tutto il
personale, se potessero, e guiderebbero
i treni via satellite. Sono anni e anni che abbattono il costo del
lavoro con legislazioni che in teoria si oppongono a norme e politiche aziendali
fatte per mantenere artificialmente alto il livello
di occupazione. Aggiungete a questo il diritto di abbandonare le
linee secondarie e comincerete a capire perché le compagnie di
classe 1 sono macchine per fare soldi e perché Warren Buffett sapeva cosa stava
facendo quando ha comprato la Burlington Northern. Una volta, al bar, un ubriaco
ha sentito cosa facevo e mi ha
chiesto che bisogno c'era di avere più di una persona per treno a
lavorare. "Cos'è che hai da fare?" aveva domandato rivolgendosi
a tutti quanti. "Parti, ti fermi. Non devi nemmeno sterzare. E che
cazzo, lo metti in moto, ogni tanto schiacci i freni e fai scorrere il
paesaggio."
Il treno canadese che ha ucciso tutte quelle persone era lungo quasi due
chilometri e il personale era composto da un solo
uomo, che durante una sosta aveva spento tutto tranne il locomotore davanti per
continuare ad alimentare i freni ad aria
compressa, aveva messo il freno a mano ed era andato nel suo
albergo a farsi un riposino. Una perdita di gasolio in un tubo del
locomotore aveva causato un incendio e i vigili del fuoco e un
addetto alla manutenzione dei binari avevano spento la macchina. Una volta
domato l'incendio, se ne erano andati tutti a casa.
A quel punto, però, i freni ad aria compressa non avevano più
pressione e un treno così grosso — in cui ogni vagone cisterna
pesa centoventi tonnellate – si muove anche con una pendenza
minima. Dopo che gli addetti al primo intervento avevano dato
un'occhiata veloce e se ne erano andati, le diecimila tonnellate
avevano cominciato a scivolare verso il basso. E quando avevano raggiunto la
curva a gomito che si trovava al centro della
città andavano a una velocità di centodieci chilometri l'ora. Le
locomotive con i loro baricentri bassi erano rimaste sulle rotaie,
ma la forza centrifuga aveva travolto i vagoni cisterna che avevano seguito il
cammino di minor resistenza: uno aveva deragliato
facendo ruotare la carrozza successiva e i due vagoni si erano
appiattiti uno sull'altro come una fisarmonica. Gli ispettori avevano detto che
era come se fossero esplose novecento tonnellate
di tritolo. Quaranta edifici del centro erano crollati su se stessi
come tende sgualcite da un uragano. Il greggio in fiamme aveva
raggiunto i novanta metri e si era abbattuto come napalm sulle
case ancora in piedi. Dalle foto del luogo, ogni edificio risultava
raso al suolo. I famigliari avevano dovuto identificare la maggior
parte dei cadaveri tramite l'esame del DNA o le cartelle mediche
degli studi dentistici.
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