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| << | < | > | >> |IndiceSarah Maloney 11 Morton Jimroy 83 Rose Hindmarch 147 Frederic Cruzzi 209 Il Simposio Swann 275 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Fino all'età di ventisei anni, quindi appena due anni fa, ero il tipo di ragazza che porta jeans sformati e felpe con grandi scritte sul petto. Ora ho sei paia di bellissime scarpe; quando non le indosso le tengo nella loro scatola originale, avvolte nella carta velina. Nessuna è costata meno di cento dollari. Nel mio armadio sono appesi tre abiti (delicati, solo lavaggio a secco), due costosi completi e otto camicette di seta dai colori tenui, come l'azzurro giacinto e il cognac. Forse non è un guardaroba enorme, ma è molto gratificante. Sì, ho letto anch'io Thoreau, so che la vera ricchezza è nel regno dello spirito, ma sono ancora il tipo di persona capace, nei momenti di depressione, di tirarsi su facendosi scivolare una sciarpa di cachemire tra le dita. Mi chiamo Sarah Maloney e vivo sola. Di professione – al giorno d'oggi la gente ci tiene a sapere questo genere di cose – scrittrice femminista e docente universitaria alle prese con alcuni ripensamenti sulla direzione assunta dalla scrittura femminile in America. Per venticinque anni non abbiamo fatto che gridare: La mia vita è mia. Un grido passionale, risonante, ma del quale ormai ignoro il significato. (Una volta sapevo con esattezza cosa volesse dire libertà, ora non ne ho idea. Naturalmente risento di questa perdita di consapevolezza.) La notte scorsa Brownie, dividendo come ogni martedì il mio letto, mi ha accusata di essere vittima di un tipico caso di esaurimento nervoso; insinuazione che respingo decisamente. Lo ammetto, a volte mi capita di essere inquieta e scorbutica. Certi giorni Virginia Woolf è l'unica persona al mondo con cui vorrei parlare; ma è morta, ovviamente, e comunque non le piacerei: sono troppo frivola. E poi c'è Mary Swann. Morta anche lei. Indiscutibilmente morta. Questi sbalzi d'umore vanno e vengono. Di solito Sarah Maloney è una donna brillante e piena di impegni. Sveglia alle sette, una corsa di tre chilometri a Washington Park – guardatela procedere con falcate decise e regolari – poi a casa per la colazione: pane integrale tostato e una vera spremuta d'arancia. Infine una doccia, ed eccola infilarsi nei suoi abiti bellissimi e provocanti. Un controllo allo specchio: buongiorno, mi dico agitando le unghie lunghe e lucide, senza smalto. Non uso mai trucco, non ne avrò bisogno per almeno altri dieci anni, credo. Poi prendo la mia borsa, italiana, trecento dollari, e mi metto in viaggio. Mi metto in viaggio, l'espressione mi riempie la bocca come una bolla di schiuma. Presto molta attenzione al modo in cui mi esprimo, a frasi come questa; direi addirittura di averne bisogno. Non possiedo un'auto. Esco a piedi, fendendo la dorata foschia ottobrina, seguo la Sessantaduesima fino a Cottage Grove, e lo percorro facendo oscillare la borsa a tracolla, per darmi coraggio. Gli scippi sono frequenti anche di giorno nel mio quartiere, quindi in genere cerco di non avere mai addosso più di cinque dollari, un falso orologio di marca e un mazzo di chiavi fasulle. Mentre cammino, tengo il walkman ad alto volume. Ma niente Mozart oggi, solo un cuscinetto di soft rock per aprire con qualche speranza la giornata e forse proteggermi dal male. Indosso uno strepitoso cappello a tesa larga, l'orlo del mio elegante impermeabile inglese fruscia come seta all'altezza delle ginocchia, e ho calze bellissime che ho imparato a coordinare con qualsiasi cosa. "Buongiorno, dottoressa Malonev" mi saluta con voce squillante la segretaria del dipartimento quando arrivo all'università. "Buongiorno, signora Lundigan" rispondo con cortesia. Questo scambio di saluti è solo cerimoniale. Per il resto del tempo io chiamo lei Lois o Lo, e lei mi chiama Sarah o Sare. Ha l'età di mia madre, unghie rosso sangue e riccioli talmente definiti e compatti da sembrare appena usciti da una fabbrica di parrucche. Scrive a macchina in modo magnifico. Chiaro, nitido, uniforme, con margini perfetti. Mi porge la posta e una copia dei miei appunti per la lezione. Tra dieci minuti, Signore aiutami, dovrò arringare cento studenti, novanta dei quali donne, sul soggetto Amy Lowell: un enigma americano. Alle due, dopo uno spuntino veloce, pane arabo farcito al formaggio, terrò il mio seminario settimanale su Donne nella narrativa del Midwest. Accanto a me, siederanno al tavolo sette volti luminosi, studentesse del corso di specializzazione, irradianti chilowatt di splendore femminile, tanto che l'intera stanza sembrerà piena di aspettative e di acume. Di solito, dopo, ce ne andiamo tutte a bere una birra. Nel bar della Sessantaduesima costituiamo un quadro, un dipinto a olio – donne sedute in cerchio, cappotti scuri gettati sugli schienali delle sedie, orecchini tintinnanti, gomiti e spalle ad animare la composizione, bicchieri poggiati pensosamente su labbra pensose, occhi in continuo movimento, licenziosità, erudizione.
Dimenticano l'ora. Dimenticano dove si trovano, di essere sedute in un bar
della Sessantaduesima nella città di Chicago, sul finire dell'anno, nel
ventesimo secolo. Sono troppo occupate a parlare,
pensare, dare definizioni, a rivedere la storia, progettare le ricerche
trimestrali, le loro tesi di laurea e le loro vite; e indipendentemente
da cosa accada, continueranno a seguire la lucente linea tratteggiata
che, hanno deciso, le porterà dritte verso il loro futuro.
Il mio caro amico Brownie – Sam Brown, per l'esattezza – ha trent'anni, si guadagna da vivere come commerciante di libri rari, abita in un appartamentino nella città Vecchia arredato in stile coloniale, ed è il figlio di un bracciante agricolo del Maine. Ieri sera ha fatto un salto da me per parlare del tema della castrazione nella letteratura femminile. Mentre sollevavo obiezioni sul modo in cui arriva ai suoi giudizi critici – come un rumoroso battitappeto che guizza nel buio per togliere la polvere sotto sedie e tavoli – ha lasciato cadere il prezioso nome di Mary Swann. "La tua Mary" ha proclamato "è un classico esempio di donna castrante."
La cosa mi ha sorpreso. Brownie aveva letto il libro di Mary
Swann, questo lo sapevo (gli avevo prestato la mia unica copia), e
gli ho chiesto su cosa basava la sua conclusione. Prevedeva la domanda – mi
conosce bene, troppo bene dopo tutti questi mesi – e ha tirato fuori dalla tasca
della giacca un foglietto ripiegato. Si è
schiarito la voce e, chinando la testa da un lato, ha declamato:
Un semplice albero la verità può dire – ma soltanto fin quando la radice non si taglierà. La foglia amara attacca lo stelo, esige un breve delirio. "È ridicolo!" ho risposto. "Lei parla di legami sociali e familiari e tu pensi alla cruda anatomia. Radici! Steli!" | << | < | > | >> |Pagina 85Jimroy si sentiva solo nel suo primo mese in California; una volta decise di andare a una rappresentazione studentesca del Malato immaginario. Perché decidesse di farlo rimane un mistero; le commedie di Molière gli erano sempre sembrate una perdita di tempo. Ma il suo umore si era improvvisamente incupito e aveva concluso che una serata fuori gli avrebbe fatto bene.Non era insolito per lui scegliere in questo modo i passatempi, come dosi di medicine. L'ossessione per i libri aveva ristretto i suoi interessi, o così si era lamentata la sua ex moglie. "Sembri un maledetto monaco" lo accusò una volta, infilando il lungo collo porpora nella porta dello studio del marito. Non aveva mai imparato a bussare. "Dovresti uscire di tanto in tanto" lo rimproverava. "Incontrare qualcuno. Divertirti di più. Farebbe bene alle tue afflizioni." Cara, vecchia Aud. Piena di buone intenzioni, sensibile, ma le sue stoccate intuitive avevano sempre ricordato a Jimroy le viti di uno scaffale di metallo quando penetrano nella parete. Tipico di lei pensare sempre di sapere cosa lo affliggesse. Sorrise al pensiero. Audrey, capelli rossi crespi, spalle strette, fronte piatta. E gomiti, che in inverno diventavano tanto ruvidi da doverli strofinare con la crema Jergens prima di andare a letto. La sua adorata, unta Audrey. Pensava spesso a lei, specialmente al crepuscolo, specialmente verso la fine dell'anno, ma era un ricordo indulgente, e lo colpiva con piccole frecce appuntite di sofferenza. Ma sì, lo ammetteva. Sentiva la mancanza delle tazze di tè forte che lei gli portava dopo cena, e anche del modo in cui le posava — bruscamente — sulla scrivania. Be', il tempo aveva attenuato le rivendicazioni meschine. Il tempo aveva perfino portato un perverso, delicato apprezzamento per gesti di Audrey considerati fastidiosi e ora, con nostalgia autunnale – certamente non con amore – gli tornava in mente la sua voce, chiassosa e rauca perché fumava troppo, e la grande tazza da tè bianca stretta nelle mani screpolate. In California l'autunno non esisteva, e Jimmy se ne sentiva disorientato. Ecco la terza settimana di settembre e attorno a lui alberi e cespugli mantenevano il loro verde brillante. Numerosi eucalipti davano un'azzurra pienezza all'aria, una pienezza spezzata dalle superstrade con i loro terrificanti raccordi ad anello e le rampe. Stanford era in fiore. Ovunque lungo le mura e i viali del campus prorompevano fiori; e che fiori! Bocche spalancate da cui uscivano piccole lingue. A Jimroy parevano opprimenti, ma si guardava dal sostenerlo ad alta voce. Almeno, diceva, non ci sarebbe stato da affrontare l'inverno; e di quello non avrebbe sentito la mancanza, nemmeno per un attimo. Lassù nel Manitoba gli veniva mal di testa a forza di sentire anno dopo anno i suoi conoscenti vociare per la bellezza degli alberi nel vestito invernale o per il musicale scricchiolio della neve sotto i piedi. Quell'anno si era sottratto ai sintomi della stagione e alle manifestazioni di cattivo gusto che sembravano ispirare. Un anno senza neve. Il suo annus mirabilis. Avrebbe potuto dormire dodici mesi con le finestre spalancate. Si congratulò con se stesso per questo privilegio. Pensando allegramente al pesante cappotto e ai guanti e alle soprascarpe lasciate a Winnipeg in un armadio della camera, chiuso a chiave, fuori dalla portata del giovane cui aveva affittato la casa. Gelasse pure! Quest'anno, il suo cinquantunesimo anno, si sarebbe risparmiato i vortici di neve attorno alle finestre e le tradizionali battaglie con l'antigelo, non ci si era mai trovato a suo agio. I californiani erano viziati e fortunati, questo luogo verde era chiaramente un paradiso, eppure, eppure... Quando guardava le persone incontrate nelle ultime settimane, non riusciva a immaginare come regolassero la loro vita o cosa desse loro slancio. La commedia di Molière al Centro Studentesco di Stanford iniziava alle nove. Non sarebbe andata allo stesso modo a Winnipeg, dove ogni cosa iniziava alle otto e trenta. E c'erano altre differenze. Qui la gente usciva volentieri e molte persone sorprendentemente arrivavano da sole, in abiti leggeri e con occhi insonnoliti e sognanti, come se si fossero appena alzate dal letto. Una ragazza lo accompagnò al suo posto. Indossava vecchi jeans sbiaditi e un cardigan da marinaio con i bottoni scompagnati. A Jimroy parve una bizzarra affettazione, e così la voce squillante dal dolce accento dell'ovest con la quale strillò a Jimroy "Qui" come se lui fosse uno della sua età. "Qui in fondo." Ricevette un programma stampato su quello che sembrava un pezzo di giornale, un immenso foglio floscio troppo grande per esser tenuto in grembo. L'inchiostro gli macchiò le dita, e quando le luci si spensero lo lasciò scivolare sul pavimento. Molière non aveva cuore. Perfino i francesi, gli era stato detto, riconoscevano a Shakespeare una sensibilità e una grandezza che a Molière mancavano; nelle sue opere non c'era una valida filosofia né vera intelligenza. Solo superficialità e pagliacciate, coincidenze e sciocchezze: tutto sembrava ridursi a trovare nascondigli dentro gli armadi o a cacciarsi sotto i letti. Eppure una volta o due verso la fine del primo atto si accorse di sorridere e ricliclando la sciocca frase di Audrey, avrebbe potuto dire che lo spettacolo, dopo tutto, faceva bene alle sue afflizioni. Durante l'intervallo Jimroy rimase al suo posto e studiò, con la coda dell'occhio, un uomo seduto alla sua sinistra, arrivato in ritardo. Prossimo alla trentina, forse anche superata, capelli castani ricciuti spazzolati all'indietro sulla fronte pallida. Aveva negli occhi un'espressione misteriosa, segreta – probabilmente aveva bevuto. Il naso era adunco, no, l'intera faccia era adunca. Sul mento un neo marrone, leggermente sporgente ma non abbastanza grande da deturparlo. La cosa sorprendente però era il fatto che indossasse un kilt scozzese. Jimroy osservò i morbidi rossi e verdi del tartan e rifletté: il tessuto sembrava vecchio e autentico, e dalla cintura gli pendeva un piccolo sacchetto di cuoio. (Avevano un nome, ma quale?) Jimroy considerò il significato del costume scozzese. Probabilmente non ne aveva. Metà delle persone a Palo Alto sembrava vestita come personaggi di una commedia. Il giorno precedente, attraversando il campus, aveva visto un giovane a petto nudo venirgli incontro su un monociclo con indosso solo pantaloni da corsa di satin: teneva in equilibrio una pila di libri e sorrideva nervosamente, come fanno alcuni attori. Il Creative Sandwich Shop, dove aveva mangiato oggi, era pieno di ragazze con lunghe gonne zingaresche, e una di loro, appena uscita dalla pubertà, aveva indosso qualcosa che sembrava decisamente una striscia di tappeto fissata attorno ai fianchi. Un'altra ragazza dietro il banco, intenta a scavare palline nella polpa di avocado per spalmarle su fette di pane, portava un grembiule a pettorina blu coperto di minuscoli fiori ricamati e un messaggio cucito su un seno: "Assaggiami." (Jimroy aveva guardato sfrontatamente il messaggio, per dimostrare di non trovarlo per niente scioccante – cosa, d'altra parte, non vera.) | << | < | > | >> |Pagina 149Per Rose Helen Hindmarch indossare sempre gli stessi panni è impensabile. "Lo so, sono troppi, lo riconosco anche io" è stata sentita dire. Ad esempio, se volete i dati catastali di una fattoria nel municipio di Nadeau, o sapere quando scadrà la rata di una tassa, dovete solo andare all'ufficio di zona al primo piano della vecchia scuola ogni mattino feriale tra le dieci e le dodici; Rose Hindmarch, nella sua veste di impiegata comunale, sarà lieta di interrompere il lavoro alla macchina da scrivere o alla contabilità, o qualsiasi cosa, per aiutarvi. All'ora di pranzo attraversa l'atrio diretta alla biblioteca (si porta qualcosa da casa, un sandwich di tonno o uova sode e insalata, e mangia alla scrivania della biblioteca. Poi si prepara il tè, mettendo l'acqua a bollire sul piccolo fornello nel ripostiglio sul retro. Si potrebbe quasi definire un destino prestabilito, per donne dell'età e della professione di Rose, finire accoccolate presso fornelletti da campeggio in ripostigli mal areati). In certe giornate invernali la biblioteca è incredibilmente tranquilla e Rose è costretta a bere tè tutto il pomeriggio per tenersi sveglia. La luce del sole che entra dalle finestre, l'aria secca, le esalazioni sulfuree dei libri spediti da un centro di distribuzione di Ottawa — tutto induce sonnolenza, ma fortunatamente il lavoro si fa più vivace dopo le due e mezza, quando gruppi di giovani donne, con indosso parka e jeans elasticizzati che le fanno sembrare più grasse, entrano nella sala con i bambini al seguito. Un certo numero (Cathy Frondice, ad esempio) si ferma sempre al banco per chiedere a Rose Hindmarch cosa abbia da consigliare, e solo di rado Rose non ha un suggerimento. Più tardi, tra le quattro e le cinque, si fermano numerosi scolari, e Rose cerca per loro le informazioni nell' Enciclopedia Britannica e localizza opuscoli nel suo famoso schedario. Questa parte del giorno può essere frenetica. Deve star dietro ai bambini, ai maschi in particolare, perché non gironzolino con gli stivali bagnati ai piedi, seminando in terra fango e foglie inzuppate; e deve stare all'erta perché non se ne vadano con i libri senza prima averli registrati; e ognuna di queste cose deve essere svolta in modo fermo ma cortese, cioè la maniera di comportarsi che la gente ha imparato ad aspettarsi da lei. Rose può anche presentarsi in veste di curatrice del Museo di Storia Locale di Nadeau. Il museo non ha un orario fisso; se arrivano visitatori, Rose si limita a lasciare la sua scrivania nell'ufficio municipale o il posto in biblioteca e ad accompagnarli al secondo piano, chiedendo prima di firmare il libro degli ospiti nel foyer. Ha anche la responsabilità di classificare le donazioni al museo – vecchie lampade al cherosene, piatti antichi e isolatori di vetro – e occuparsi dell'assicurazione e del piccolo contributo del governo federale. Quando la convulsa attenzione per Mary Swann ebbe inizio cinque anni prima, fu Rose Hindmarch a concepire l'idea della Sala in memoria di Mary Swann, e fu sempre Rose Hindmarch a trascorrere il tempo libero cercando in giro oggetti da esporre. La sua veste di ricercatrice. E se non bastasse, ogni mercoledì sera alle otto in punto deve apparire alla scuola domenicale della Chiesa Unita di Nadeau nel ruolo di decana della chiesa. Lei e la signora Hart, Daisy, sono le uniche donne nel consiglio, e Rose prende seriamente il suo compito. Si tratti di sostituire i vassoi per la comunione o i paramenti per l'altare, è sempre disponibile, sicuramente più degli altri; però deve stare molto attenta a non tradirsi: da tempo non ha più fede nel sacramento della comunione né, se è per quello, nell'esistenza delle milizie celesti. Da qualche anno la conversione all'ateismo di Rose si è definitivamente compiuta. Era ancora abbastanza giovane quando successe; una sera era in casa, e seguiva un dibattito filosofico alla radio, quando all'improvviso udì uno dei partecipanti dire: "Davvero qualcuno crede nell'esistenza di un Dio lassù, seduto a un centralino gigante ad ascoltare le preghiere di tutti?" Rose aveva trovato l'idea esilarante, e in quel preciso istante aveva capito di aver perso la fede, senza sofferenza; sentiva solo, e a fatica, una traccia di nostalgia. E il fastidio di doversi ricordare di tenere la faccenda per sé. I rapidi cambi delle vesti di Rose diventano ancora più frenetici il quarto lunedì di ogni mese, quando ritorna all'ufficio municipale, dopo aver cenato con zuppa e crostini, per ricoprire il ruolo di consigliere comunale. I consiglieri sono sette: lei riveste la carica da quindici anni. La sua posizione è complicata, perché in qualche modo deve riferire su se stessa; prima la relazione sulla biblioteca, dopo quella di impiegata, poi sul museo. Negli ultimi dodici anni ha anche servito il consiglio come segretaria-stenografa, e questo la colloca nella ridicola posizione di scrivere verbali di cui è una della protagoniste. Scrive: "I verbali sono stati letti e approvati da Rose Hindmarch, quindi Rose Hindmarch ha presentato la relazione provvisoria della biblioteca." Come se Rose Hindmarch fosse un'altra persona, con una faccia differente e diverse sfumature di sensibilità. La Rose di cui scrive è più audace di quanto lei stessa pensi di essere. "Un cuore intrepido", ecco come la vede, una donna attiva nel mezzo del percorso della propria vita. (In effetti è vero; Rose, a cinquant'anni, è a metà della sua vita; la nonna visse tino a cento anni e la madre a ottantacinque. Ecco le sue altre vesti, si potrebbe dire: di figlia e nipote; anche se non è più tenuta a portarle, ormai.) Per un breve periodo dopo la superiori Rose lavorò come centralinista locale, davanti a quel centralino su cui uomini (e donne) di buona volontà credono presieda l'inesistente Dio dell'Ontario. Scoprì con sorpresa quanto fosse difficile lavorare al centralino telefonico, e quanto poco, contrariamente alle convinzioni comuni, nascesse l'incontrollabile tentazione di curiosare nelle faccende altrui. Le capitava al massimo di ascoltare contadini ordinare pezzi di ricambio per le loro auto e casalinghe con ricette per insalate in gelatina da scambiare. Ancora ventenne, cominciò a invecchiare seduta sul rigido sgabello del centralino, mentre disinseriva e reinseriva spinotti. In quel periodo iniziò ad accorgersi di essere sempre sola. Si liberò un posto di impiegato municipale e fece domanda. Un simile lavoro le avrebbe dato rispettabilità. Adesso, infatti, perfino gli uomini a Nadeau stimano il suo modo ordinato di disporre file di cifre e la capacità di comprendere le recenti ordinanze. Il posto da bibliotecaria le ha dato qualcos'altro: una immeritata reputazione di intellettuale; la gente di Nadeau presume che Rose abbia letto ogni libro comparso sugli scaffali della sua biblioteca, tanto è abile nel trovare i testi richiesti, tanto capace si dimostra nello sfogliare lo schedario, tanto sicura appare quando dice, aggrottando la fronte "Ecco, proprio quello che stava cercando."
Ma se chiedeste a Rose in quale delle sue vesti si sente meglio,
sceglierebbe sicuramente il ruolo di curatrice del museo, perché l'ha
salvata dalle inspiegabili notti di disperazione di cui soffriva. In particolare
si è sentita sollevata negli ultimi anni, da quando ha preso a
occuparsi della vita di Mary Swann. Stranamente questo nuovo interesse storico
non ha aperto a Rose il passato, quanto il futuro. La
sua vita è cambiata. Ora ha contatti con il mondo esterno, il mondo accademico.
Un buon numero di studiosi e storici sono venuti a Nadeau per incontrarla.
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