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| << | < | > | >> |Indice3 Parte prima. Il mare delle parole 47 Parte seconda. I fiori dell'inizio 97 Parte terza. Il sonno e il cielo 137 Parte quarta. La temperatura del mondo 179 Epilogo 183 Glossario |
| << | < | > | >> |Pagina 51.
Era l'inizio della primavera, e quel giorno pioveva.
Una pioggerellina simile a foschia cadeva su di
me, mentre stavo sdraiato in una scatola di cartone
accanto al marciapiede. I passanti mi lanciavano
giusto una rapida occhiata prima di tirare dritto e
allontanarsi. Dopo qualche ora, non avevo nemmeno più le forze per sollevare la
testa. Mi ero arreso all'idea di non far altro che fissare il cielo
plumbeo con un occhio solo.
Tutt'intorno era tranquillo, sentivo solo lo sferragliare dei treni in lontananza che rimbombava come un tuono. Giungeva dalla sopraelevata, era un rumore intenso e regolare. Mi affascinava. Se la pulsazione debole nel mio petto era capace di animare il mio corpo, mi domandavo, quel frastuono che cos'era in grado di animare?
Doveva senz'altro essere il battito del cuore del
mondo. Un mondo energico, immenso e perfetto.
Un mondo del quale, tuttavia, io non ero parte.
Le piccole gocce di pioggia sottile continuavano a scendere silenziose. Io, la guancia incollata al fondo della scatola di cartone, ebbi come l'impressione di cominciare a levitare lentamente. Di sollevarmi sempre piú in alto, verso il cielo, lontano, lontano.
Sentivo che da un momento all'altro avrei udito
uno schiocco e sarei stato tagliato fuori da tutto.
La prima a donarmi una connessione con questo mondo era stata la mia mamma. Lei era gentile e il suo corpo era caldo. Mi dava qualsiasi cosa le chiedessi. Ma in quel momento non c'era piú. Cos'era successo? Che ci facevo in quella scatola di cartone bagnata dalla pioggia? Non ricordavo nulla. Non possiamo ricordare ogni singolo avvenimento della nostra vita, questo è ovvio, la nostra memoria conserva solo i momenti davvero importanti. Io però non avevo neanche un misero ricordo da custodire. La pioggia continuava a battere morbida.
Mi sentivo vuoto e continuavo a levarmi nell'aria, verso il cielo grigio.
Adagio, molto adagio.
Tutt'a un tratto mi sembrò che il rumore dei treni fosse diventato piú intenso. Quando aprii gli occhi, incontrai il volto di un'umana. Reggeva un ombrello di plastica trasparente e mi guardava dall'alto. Da quanto tempo era lí? Si accovacciò fino a toccare le ginocchia col mento e mi scrutò. I capelli lunghi le cadevano sulla fronte. Lo sferragliare che giungeva dalla sopraelevata era amplificato dall'eco creata dall'ombrello. Sia il mio corpo sia i capelli dell'umana erano bagnati e appesantiti. Intorno a noi aleggiava il profumo della pioggia.
Mi sforzai di sollevare la testa e guardarla dritta
in faccia. Le tremavano gli occhi, ma dopo aver
distolto lo sguardo per un attimo mi restituí un'occhiata decisa. Ci studiammo a
vicenda.
La Terra girava calma sul suo asse, mentre i
nostri corpi continuavano a perdere calore avvolti dal silenzio.
- Andiamo? Insieme. Mi toccò con le mani gelide come il ghiaccio. E mi sollevò. Mi prese in braccio con facilità. Visto dall'alto, il cartone dov'ero rimasto fino a quel momento appariva incredibilmente piccolo. Lei mi strinse a sé, tra la giacca e la felpa. Il suo corpo era caldo, stentavo a credere che potesse esistere un simile tepore. Sentivo il suo cuore battere. Quando lei s'incamminò, il fragore dei treni sulla sopraelevata si allontanò. Il mio e il suo battito riecheggiavano all'unisono con quello del mondo. | << | < | > | >> |Pagina 132.La casa era impregnata del suo profumo, mi tranquillizzava molto. La prima mattina insieme a lei rimasi molto sorpreso, non mi ero mai svegliato in un luogo tanto caldo. Lei era già in piedi e stava facendo bollire l'acqua sul gas. Mi diede il buongiorno mentre osservavo il vapore fuoriuscire dalla teiera, poi apri le tende. Il cielo del mattino era leggermente coperto da nuvole, ma era bellissimo. Abitava al primo piano di una palazzina lungo una salita, e dalla finestra era possibile osservare i treni che correvano sulla sopraelevata. Fu in quel momento che capii da dove proveniva il rumore che percepivo dalla mia scatola di cartone. Volevo dirglielo a tutti i costi, e quando le comunicai la mia grande scoperta mi rispose col sorriso sulle labbra. - Oh, che bello, vero, Chobi? Chobi? - Ho deciso che ti chiamerai Chobi! Era la prima volta che mi chiamava per nome. Chobi. Era un nome simpatico, mi piaceva. L'aveva scelto apposta per me. Giurai a me stesso che non avrei mai e poi mai scordato quella mattina. Mi ero innamorato di lei sin dal primo istante. Era bellissima e gentile. Quando si accorgeva che la stavo guardando si addolciva e ricambiava le mie attenzioni con un sorriso. Mi diede da mangiare prima ancora di prepararsi la colazione. Mi servi un piattino col latte, una scatoletta e delle squisite crocchette per gatti. Mentre leccavo il latte si accovacciò accanto a me stringendo tra le mani una grande tazza bianca piena di latte bollente. Era bello sapere che stavamo assaporando la stessa bevanda, l'uno accanto all'altra. Lei si muoveva con calma, e ogni suo gesto era pieno di grazia. Starle vicino mi dava un gradevole senso di pace. Dopo aver sbafato metà della mia pappa (l'istinto mi ordina di conservarne sempre una parte per un momento successivo, che non si sa mai) mi stravaccai e cominciai a stiracchiarmi. Lei mi accarezzò la pancia e io scossi la coda dalla felicità. Mi piaceva salirle addosso quando si stendeva sul pavimento. In genere Io faceva per leggere, e quando mi accomodavo su di lei mi riempiva di grattini sulla schiena. Amavo guardarla mentre preparava il bucato. I vestiti che si toglieva di dosso portavano il suo odore, e io mi ci tuffavo sopra, perché quel profumo mi mandava in estasi. E adoravo quando stendeva. La raggiungevo sul balcone, e quando finiva di sistemare tutte le mollette ci mettevamo a osservare l'enorme distesa di cielo azzurro sulle nostre teste, le persone che camminavano sul marciapiede o le macchine che passavano per strada. Nella mia cuccia c'era la felpa bianca che indossava il giorno in cui ci eravamo incontrati: dormivo lí sopra. I primi tempi facevo brutti incubi. Ora non li ricordo, ma per colpa loro piangevo e mi svegliavo spesso durante la notte, e quando accadeva la trovavo sempre al mio fianco, pronta a riempirmi di coccole. Era cosí dolce e premurosa, e calda. Lei si preparava da mangiare con le sue stesse mani. Andavo su di giri quando cucinava la zuppa di miso, perché potevo farmi dare le sardine essiccate. E quando preparava il tofu freddo, cosí mi facevo mettere il katsuobushi anche sulla mia pappa. Quando stava ai fornelli canticchiava, e io ovviamente andavo matto anche per la sua voce. Chobi. Ogni volta che sentivo il mio nome uscire dalle sue labbra sentivo di collegarmi a lei, e tramite lei anche al resto del mondo. | << | < | > | >> |Pagina 103Era arrivata la stagione piú fredda e temibile dell'anno. C'erano meno prede, non si trovavano cibo e calore a sufficienza e il freddo rubava impietosamente tutte le energie.L'inverno è la stagione in cui si muore, a partire dai piú deboli. Kuro non ricordava quanti inverni aveva già superato. Camminava facendo ciondolare il grasso della pancia sotto la spessa pelliccia. Il grasso non lo rendeva attraente, ma almeno lo proteggeva. Non rammentava neanche di che colore fosse in origine il suo pelo. Adesso aveva il manto di un colore indefinito tra il marrone e il nero (da qui il nome Kuro, "Nero"). Con quel freddo, un gatto non aveva nessuna voglia di uscire a pattugliare il territorio. - Anch'io, ormai, ho una certa età... - borbottava tra sé. Da quando Codamozza era passato a miglior vita, Kuro era diventato il boss della zona. Ma nessuna gatta voleva piú accoppiarsi con lui. I sovrani vivevano in solitudine. Anche gli altri gatti preferivano tenersi a debita distanza. Di tanto in tanto qualcuno provava a ronzargli intorno per cercare di sottrargli il trono, ma puntualmente perdeva la battaglia e fuggiva con la coda tra le zampe. Kuro aveva il muso pieno di cicatrici, ma il sedere e la coda erano soffici come quelli di un gatto domestico. Lui non aveva mai mostrato le spalle ai suoi rivali. Il suo territorio era enorme, e come se non bastasse doveva passeggiare anche nei territori degli altri gatti: gliel'aveva chiesto John, non poteva dirgli di no, era in debito con lui. Non aveva un posto fisso dove mangiare o dormire: tutta la zona era casa sua. - E oggi che mi pappo? - era solito domandarsi, mentre per la testa gli balenavano mille menu. Poteva scegliere tra le scatolette messe a disposizione da un'anziana gattara che si aggirava nel parco, le gentili concessioni del ristorante cinese dove ogni tanto sgattaiolava, o l'immondizia sul retro del ristorante italiano...
Quel giorno aveva voglia di mettere sotto ai
denti qualcosa di croccante, e si avviò verso la sua meta.
Lontano dalla stazione le strade si facevano piú larghe e gli edifici piú bassi. Kuro attraversò un viale alberato pieno zeppo di foglie cadute per terra e avvistò un santuario scintoista. Alle spalle del santuario c'erano diverse case prefabbricate, una identica all'altra, e a furia di vagare per quelle stradine tanto simili da non riuscire a distinguere quale fosse l'una e quale fosse l'altra, gli venne mal di testa. Ma poteva star certo che non gli si sarebbe avvicinato nessun altro gatto. Era diretto verso una casa prefabbricata in particolare. Ci era stato l'ultima volta l'estate precedente, dunque era un bel pezzo che non metteva zampa da quelle parti. Arrivato in prossimità della casa accelerò il passo senza staccare gli occhi da una disputa tra gattini che si contendevano un pezzo di territorio. La volta precedente l'erba era alta e rigogliosa, mentre adesso quel poco di vegetazione che restava era secco, ma doveva ammettere che la sensazione sotto i gommini delle sue zampe era più piacevole adesso che prima. Dopo aver zampettato per qualche minuto tra le foglie e l'erba secca, saltò su un muretto in blocchi di calcestruzzo da cui si lanciò sul tetto di un garage per raggiungere il balcone al primo piano della casa, la sua meta. Sul balcone c'erano un vaso di terracotta vuoto, un paio di forbici per le piante arrugginite e alcuni attrezzi per il giardinaggio. Ma soprattutto un piattino di alluminio posato tra il condizionatore esterno e una pianta grassa. Kuro balzò sul condizionatore sperando di sbirciare all'interno, ma le tende a fiori erano chiuse. Doveva farsi notare in un altro modo. Dopo essersi avvicinato alla finestra ghiacciata cominciò a miagolare. - Miaooo. Miaooo! Cercò di fare piano. Se gli altri gatti lo avessero sentito si sarebbe rovinato la reputazione da boss spietato. Nessuna risposta. Quando provò a toccare il vetro con la zampa, sulla condensa rimase l'orma del gommino: a quanto pareva, la finestra era chiusa da diverso tempo. In effetti, anche le piante sul balcone non sembravano affatto curate. Forse la casa era vuota. Strano, pensò, ogni volta che andava trovava due ragazze pronte a dargli da mangiare. Tutt'a un tratto senti i corvi gracchiare e gli salí il nervoso: era sicuro che lo stessero prendendo in giro. Nel piattino c'era solo acqua piovana, dunque nessun gatto era passato lí prima di lui. Rassegnato, sbadigliò e si mise ad aspettare il ritorno delle inquiline, ma le due ragazze non comparvero neanche a distanza di ore. Un vero peccato, considerando che era andato lí di proposito dopo tanto tempo. - Anch'io ho le mie cose da fare! - si lamentò dopo aver constatato di aver fatto un giro a vuoto. C'era poco da fare, doveva prepararsi a fare il prossimo giro di ronda con la pancia vuota. | << | < | > | >> |Pagina 111Quando tornai a casa, Mimi e Cookie mi corsero incontro. Mimi mi annusò e mi strofinò la testa contro le gambe.- Senti qualche odore nuovo? - le domandai. Cookie cercò di imitare la mamma e avvicinò il naso per annusarmi. Detto in tutta onestà, quella gattina era bella da impazzire. Ogni volta che la guardavo mi commuovevo come una bambina e non potevo fare a meno di sciogliermi. Abbracciai mamma e figlia e mi coricai con loro sotto al kotatsu. - Ho trovato una persona che si prenderà cura di Cookie! - annunciai. Chissà se mi capivano. Forse sí, perché Mimi rizzò il pelo. Ma vivendo da sola non potevo certo prendermi cura di due gatti: di giorno ero sempre a scuola, e a seconda degli esiti dell'esame di ammissione all'accademia avrei potuto traslocare in un'altra regione. - Non temere, Mimi, questa persona abita qui vicino, potrai incontrare Cookie tutte le volte che lo vorrai, - le dissi sperando di tranquillizzarla, ma Mimi mi ignorò, afferrò Cookie per il collo e si nascose sotto al kotatsu, proprio al centro. Le sentii miagolare da sotto la coperta. Forse Cookie non capiva quello che stava succedendo. Un attimo dopo, Mimi usci allo scoperto e mi morse un piede.
Interpretai il suo gesto come un avviso, credo
che avesse voluto informarmi che Cookie era ancora troppo giovane per cavarsela
da sola.
L'indomani si presentò la futura padrona di Cookie, una conoscente di mia zia che abitava nei paraggi. E cosí, alla fine, ero debitrice di mia zia per ancora un'altra cosa. Questa donna vestiva con grande gusto: all'apparenza doveva essere piú grande di mia madre, ma piú giovane di mia zia. Portò con sé alcuni biscotti fatti in casa, e quella coincidenza mi fece fare i salti di gioia. - La gattina si chiama proprio Cookie! - Oh, davvero? Mi sembrava una persona raffinata. - In tal caso, la chiamerò cosí anch'io. - Non si preoccupi, può chiamarla anche con un nome diverso. - No, no, Cookie mi piace! Mi fece davvero una bella impressione. - Lei ha già avuto un gatto, vero? - le domandai mentre le servivo il tè. - Quando mia figlia era piccola... Parlo ormai di dieci, venti anni fa. Quando era morta, mia figlia aveva pianto cosí tanto che mi ero ripromessa di non prendere piú gatti in vita mia. - Mi tranquillizza sapere che non è la sua prima gatta. Sistemai la copertina preferita di Cookie nel trasportino nuovo di zecca portato dalla donna e versai un po' di sabbietta in una busta. Cookie annusò il trasportino piena di entusiasmo e curiosità e ci entrò da sola. Ero certa che la piccola non avrebbe dato problemi. La signora si inginocchiò per guardare Mimi. - Mi prenderò cura della tua signorina. Mimi aveva gli occhi iniettati di ostilità, la presi in braccio prima che potesse reagire male. Aveva la coda dritta, come sempre quando era davvero arrabbiata. - Cookie, sono cosí felice che verrai a farmi compagnia! - continuò la donna parlando alla piccola che si guardava attorno dal trasportino. Mimi si liberò dalla mia presa e balzò sul pavimento, poi si avvicinò al tiragraffi e lo martoriò con gli artigli. Era chiaro che voleva sfogare il nervoso che aveva in circolo. Dopo aver riferito alla donna quali erano le pappe preferite di Cookie e le sue abitudini con la lettiera, accompagnai entrambe alla porta per salutarle. Mimi miagolò qualcosa e Cookie rispose con la sua vocina ancora acuta. Non avevo idea di cosa si fossero dette, ma mi sembrò che si fossero scambiate un saluto, del tipo: - Verrò a trovarti, Cookie! - L'hai promesso, mamma! E cosí, anche l'ultima cucciola di Mimi aveva lasciato la casa. - È andata, - le dissi cercando di essere dolce, e le accarezzai la schiena. | << | < | > | >> |Pagina 1391.Era una mattina d'estate. Kuro saltò su un muretto di calcestruzzo e si rannicchiò all'ombra in attesa di quel momento. Una radio in lontananza trasmetteva esercizi di aerobica. Quando si trattava di cacciare, Kuro era capace di rimanere in attesa per ore e ore senza perdere la pazienza. Dopo diversi minuti comparve la sua preda: polpette di carne a volontà servite su un piattino. Un'anziana signora le aveva messe davanti alla cuccia del suo cane. Era giunta l'ora della caccia. Kuro raccolse le forze per saltare, e dopo aver compiuto una piroetta in aria atterrò sulle quattro zampe. Respirò a pieni polmoni per darsi la carica e scattò in avanti. La preda era a una zampa da lui. Anche il suo rivale si mosse alla svelta, e in men che non si dica Kuro vide la sua ombra allungarsi sulle polpette. Se si fosse fiondato sul piatto sarebbe stato cacciato via con una zampata. Ma il suo obiettivo non erano le polpette, bensí la ciotola piena d'acqua accanto al piattino. Dopo essersi curvato su un fianco, allungò le zampe verso la ciotola, l'afferrò con gli artigli e la fece volare sul suo rivale cosí da rovesciargli l'acqua sul muso. Il rivale, a quel punto, chiuse gli occhi, e Kuro, approfittando del momento di distrazione, agguantò una polpetta. Era deliziosa. - Una mossa straordinaria, i miei complimenti. Sei riuscito a soffiarmene una, - commentò il rivale, il cane John, curvandosi a sua volta per pappare il resto. Kuro era orgoglioso di ricevere un complimento da John. Del resto, lui era il boss della zona, e si conoscevano da tempo immemore, sebbene i loro incontri fossero sostanzialmente battaglie in cui Kuro tentava in tutti i modi di impossessarsi della sua pappa. - Devo proprio essere invecchiato per farmi fregare cosí da te, Kuro. - Sono io che sono diventato piú forte. Se all'inizio erano veri e propri rivali, col tempo avevano instaurato una relazione piú complessa e sfumata, diciamo da nemici-amici, e oggi ognuno rispettava il ruolo dell'altro. Solitamente il cibo cucinato dagli umani era sempre troppo salato, ma l'anziana padrona di John aveva trovato un altro modo per insaporire le pietanze, che non dava fastidio agli animali. Era una cuoca provetta, e quando serviva i suoi manicaretti si divertiva a osservare da lontano John e Kuro che si contendevano il cibo. Dopo essersi riempito la pancia con la polpetta, Kuro si coricò su un fianco all'ombra della cuccia di John. - Ehi, lo sai perché gli animali mangiano? - gli domandò John dopo aver vuotato la ciotola. - Perché hanno fame, suppongo, - rispose Kuro, pensando che fosse una domanda fin troppo ovvia e scontata. - No, perché sono vivi. - Sí, be', certo. John agitò la coda felice. - Sai, tantissimi secoli fa, esistevano organismi viventi che prosperavano senza mangiare un bel niente. - E potevano nutrirsi senza muovere una zampa? Doveva essere il paradiso. - Ah ah! Sí, un vero paradiso.
John attaccò a parlare del paradiso perduto degli
esseri viventi. Raccontò che migliaia e migliaia di
anni fa gli organismi si nutrivano senza muoversi,
e che tutti vivevano felici e contenti senza contendersi i territori e tutto il
resto. Era o non era il paradiso? Era esistito: in un passato assai remoto e
per un tempo limitato, ma era esistito. Un mondo
in cui non c'erano umani, gatti, cani o piante. Era
un paradiso sulla Terra e vi prosperavano organismi grandi quanto una foglia che
però non erano né piante né animali. La Terra era abitata da una
sola specie, da organismi a forma di foglia che per
ottenere le energie scomponevano le sostanze nel
mare. Non c'era alcun tipo di catena alimentare,
nessuno mangiava o veniva mangiato.
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