Copertina
Autore Piernicola Silvis
Titolo Gli anni nascosti
EdizioneCairo, Milano, 2010, Scrittori italiani , pag. 380, cop.fle., dim. 15x21x2,7 cm , Isbn 978-88-6052-275-7
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe thriller
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Torino, marzo 2007

Antonio Lami fissò un punto della parete di fronte. Aveva i lineamenti tirati e stava in silenzio, non c'era niente di cui volesse parlare.

«Bevi il caffè» gli disse l'uomo seduto accanto a lui. Si chiamava Lorenzo Pasquini, era il suo avvocato. «E lascia perdere. Distraiti.»

Lami lo guardò, ma la tazza restò sul tavolino. Erano seduti nella sala interna del Gran Caffè San Carlo, nel centro di Torino, e non avevano molto da dirsi, quella mattina. Giusto una parola ogni tanto, mentre fuori la pioggia gelata frustava le vetrate del locale.

«A nessuno importa niente. Questo è il punto» disse Lami. I suoi occhi erano abbagliati a intervalli regolari dalla luce rossa di un faretto.

«A nessuno importa niente di cosa?»

«Di quello che facciamo in Iraq, per esempio. O magari in Afghanistan, o negli altri buchi di questo pianeta marcio dove ce ne andiamo a crepare mentre tutti se ne fregano di noi. Nicola è morto, gli altri sono in galera, il generale è nei guai. E di noi non importa niente a nessuno.»

«Non sentirti responsabile per colpe non tue, fratello.»

Mentre parlava, Pasquini sfogliava una copia del Corriere della Sera che aveva trovato sul tavolo.

«Ora ci sarà l'ennesima riforma e cambieremo ancora denominazione. L'abbiamo cambiata quattro volte in cinquant'anni, non basta? Sim, Sifar, Sid, Sismi. E adesso? Che diavolo si inventeranno, adesso?»

«Dovevate andarci piano con la storia dell'Imam. Pensavate di avere campo libero e che la Cia vi avrebbe coperti. Ma qui non siamo a New York, non c'è Rudolph Giuliani. Qui abbiamo magistrati che hanno fatto del garantismo una ragione di vita.»

Antonio Lami diede un'occhiata alla strada e sorseggiò il caffè. «Non so se ci resto, nel Servizio.» Il raggio luminoso lo colpiva creando ombre bizzarre sulle guance della sua faccia squadrata.

«Oh, ci resti, ci resti. Non potresti fare altro, fratello. Che fai, entri nelle Ferrovie? O nelle Poste? È la vita, Antonio. Prima di arrivare al capolinea, tutti spaliamo un bel po' di merda, lo sai.»

Pasquini si immerse nella lettura.

«Cosa leggi?» gli chiese Lami.

«Certe volte i giornali fanno riflettere.»

«E su cosa rifletti, adesso?»

«Guarda qua. In questo articolo si dice che il blocco sovietico, nato ufficialmente con il Patto di Varsavia nel '54, ha cominciato in realtà a costituirsi nel '46, subito dopo la guerra; e più sotto c'è un altro articolo in cui si ricorda che in Italia il potere democristiano è iniziato nel '48. A due anni di distanza.»

«Questo lo sanno tutti. Cosa ci trovi di interessante?»

«Be', l'Unione Sovietica si dissolve all'inizio degli anni Novanta e nel '92 Di Pietro dà l'avvio a Tangentopoli e la Prima Repubblica collassa e muore.»

«Allora?» Lami si era fatto attento.

«Se uno legge gli articoli di seguito e fa caso alle date, ha la sensazione che il regime democristiano sia nato dal blocco sovietico e che, finito l'uno, sia finito anche l'altro. Non trovi?»

«La storia è piena di coincidenze.»

«E se non fosse una coincidenza? E se in realtà non fosse stata la Cia a spadroneggiare qui da noi ma, almeno fino al '92, i comunisti?»

Lami distolse lo sguardo dal raggio che gli colpiva il viso e girò la testa verso la finestra. «Idiozie» disse.

«Però sarebbe una bella trama, per un film.»

«Lascia perdere i film. Sei una persona responsabile. Non cominciare anche tu a vivere di stupidaggini.»


Più tardi, dopo aver salutato Pasquini, Antonio Lami chiamò un taxi, doveva arrivare in fretta all'aeroporto di Caselle per tornare a Roma. A Forte Braschi lo aspettavano.

Quella correlazione che Pasquini aveva fatto leggendo il giornale era un'ottima idea per un film, certo. Lami avrebbe anche voluto sfogarsi un po' con lui, d'altronde Pasquini era un amico, oltre che il suo legale, e qualche volta sentiva il bisogno di confidarsi con qualcuno.

Ma non poteva. Non poteva dirgli che quella trama era stata già scritta. Non poteva dirgli che a scriverla ci aveva pensato la Storia e che per tirarla fuori dal sedime degli anni sarebbe stato necessario andare indietro nel tempo – ora dopo ora, ideale dopo ideale, cadavere dopo cadavere, lacrima dopo lacrima – fino a risalire a una qualunque mattina del 1928. In Puglia.

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Danilo Ferrandi era nel suo ufficio in compagnia di Mino Alessi quando squillò il telefono.

«Dottor Ferrandi, la cerca Alejandro Martinez da Buenos Aires» gli comunicò la segretaria.

Il presidente della Carfe guardò l'orologio: il consiglio di amministrazione era alle undici, aveva ancora una buona mezz'ora. «Buenas tardes, amigo. Ti disturbo?»

«Ciao, Alejandro. Aspettavo una tua chiamata.»

«Mi ci è voluto un po' di tempo, ho dovuto fare un'indagine discreta tra persone che non sentivo da parecchio, puoi immaginare...»

«Capisco benissimo, e ti sono grato.»

«Credo di aver trovato chi fa per te. Uno fidato.»

«Sei un amico.»

«Come faccio a mettervi in contatto?»

Ferrandi rifletté un attimo. «Fagli avere i miei recapiti telefonici e digli di chiamare la mia segreteria a nome tuo, io capirò.»

«D'accordo. È uno di quelli duri» disse abbassando la voce. «Capisci lo que entiendo?»

«Sì, certo. Grazie ancora, Alejandro.» Quando chiuse la comunicazione, Ferrandi fece l'occhiolino ad Alessi. Poi rialzò il telefono e chiamò lo Stato maggiore della Difesa.

Era il dicembre del 1987.


«Lami, sei tu?» chiese Julius.

«Sì. Novità?» Antonio Lami rispondeva dal suo ufficio, al secondo piano di Forte Braschi.

«Hanno trovato il loro specialista. Un argentino. Ma c'è una strana atmosfera.»

«Perché?» chiese l'agente del Sismi accarezzandosi la barba.

«A volte sono incerti, timorosi; altre volte invece li vedo in preda ad ambizioni folli, sono... sono altalenanti, capisci? Ondivaghi.»

«Sanno di aver iniziato una partita pericolosa e ne temono gli sviluppi. Niente di strano.»

«Questa faccenda dell'esperto non mi piace» disse l'informatore.

«È tutta questa storia che fa schifo. Teniamoci in contatto, Julius, e sta' tranquillo.»


Alle cinque del pomeriggio, vestito con abiti borghesi, il generale Olivadi faceva il suo ingresso nella hall di un residence anonimo sulla Cassia. Aveva preferito non coinvolgere gli altri membri del Margutta, da buon militare sapeva che la sicurezza dipende dalla riservatezza, e in quella fase, ancora preliminare, era meglio essere prudenti.

Riconobbe subito la persona che doveva incontrare: faccia ordinaria, statura media, stempiato, piccoli occhiali tondi e un paio di baffi sottili. Un uomo qualunque, stretto in un completo da grandi magazzini.

«Pablo Horacio Cassera?» chiese Olivadi avvicinandosi e porgendo la mano.

«Sono io.»

«Vogliamo sederci nel séparé in fondo? Parleremo con più tranquillità.»

Cassera fece solo un piccolo gesto di assenso con la testa, e seguì il generale.

«Signor Cassera, di lei ci hanno parlato in termini molto positivi persone la cui affidabilità è fuori discussione.»

«È troppo cortese. Sono solo abituato a fare fino in fondo quello che so fare. È il mio dovere. E con chi ho l'onore di parlare? I nostri comuni amici non si sono aperti molto, signore.»

Olivadi fece un gesto con la mano. «Curiosità legittima. Ma prima di dirle di me, la pregherei di darmi ragguagli sulle sue trascorse esperienze professionali.»

«È necessario che sappia con chi sto parlando. Altrimenti questo colloquio può chiudersi subito.»

«La capisco e la sua legittima curiosità verrà soddisfatta. Ma mi usi la gentilezza di iniziare lei.»

«Come vuole. Ho un bar nel centro di Omegna, in Piemonte» rispose l'argentino fissando il generale. «Questo è tutto.»

«Prima però ha prestato servizio come ufficiale nell'Esercito del suo Paese con il grado di colonnello. Giusto?»

«Forse.»

«La risposta è "forse" o "sì", colonnello?»

«Sì» concesse Cassera di malavoglia.

«Molto bene. Di cosa si occupava la sua unità verso la fine degli anni Settanta?»

Cassera si accese una sigaretta. Non poteva essere reticente, giunto a quel punto. «Ero nel Batallón de Inteligencia 601 dell'Esercito argentino: ufficiale di collegamento con i Servizi di informazione occidentali.»

«Ha avuto incarichi nel movimento del generale Videla?»

«Vuole sapere se ho avuto un ruolo nel golpe?»

«Esattamente.»

«Glielo dirò dopo, adesso tocca a lei, signore» rispose Cassera con aria tranquilla. «Stiamo parlando di cose troppo delicate perché questa conversazione possa continuare a senso unico.»

Olivadi lo squadrò severo. Non era abituato a essere trattato con quel tono di superiorità, ma si rese conto che l'argentino aveva le sue ragioni per essere cauto. «Sono il generale di corpo d'armata Giuseppe Olivadi» si presentò con la solennità che le circostanze richiedevano. «Capo di Stato maggiore della Difesa italiana.»

«Capo di Stato maggiore della Difesa?»

«Esattamente. Quindi comandante dell'Esercito, dell'Aeronautica e della Marina militare.»

L'argentino ebbe un impercettibile fremito, poi si alzò in piedi di scatto: «La divisa non si vede, signor generale. Me l'hanno strappata i comunisti. Ma le stellette sono ancora cucite sulla pelle».

«Parla un ottimo italiano, colonnello. Comodo, per favore.»

Cassera era visibilmente emozionato. «La mia famiglia è originaria di un paese della provincia di Brescia.»

Olivadi volle metterlo ancora alla prova. «E se io non fossi chi ho detto di essere?»

«Oh, lo è, signore. Non c'è dubbio.»

«Come fa a esserne così sicuro, colonnello?»

«Chi mi ha indirizzato a lei sa bene che non amo essere preso in giro. Potrebbe non avere il tempo di pentirsene.»

Il generale si sistemò sul divano. «Naturalmente io sono chi ho detto di essere, colonnello, stia tranquillo. Ma adesso veniamo a noi, poche parole e capirà tutto. Come saprà, questo Paese è governato da politici inetti che stanno mettendo in pericolo la patria. Io e il gruppo di persone che rappresento siamo fermamente convinti che gli italiani abbiano il diritto di tornare a essere orgogliosi della propria identità nazionale.»

«Un diritto sacrosanto, generale. È un ideale molto nobile.»

«Siamo anche convinti, però, che questo potrà avvenire solo quando il Paese si sarà liberato di chi lo sta indegnamente occupando da più di quarant'anni.»

Cassera era proteso in avanti con i gomiti sulle ginocchia e si accese una sigaretta. Olivadi continuò. «Abbiamo preso in considerazione molte soluzioni. Dalla discesa in politica di alcuni di noi fino alla necessità di fare intervenire in maniera pesante il governo statunitense nelle faccende italiane.»

«Non servirebbe a niente.»

«Concordo. Il dato certo è che il marciume della politica ha ormai invaso ogni settore della vita pubblica italiana e che siamo al punto di non ritorno, colonnello.»

«Ovvio. È necessario un passo concreto, signor generale.»

«Occorre restaurare l'ordine a tutti i costi.» Con un leggero colpo di tosse Olivadi si schiarì la voce. «In ultima analisi, abbiamo preso in considerazione la possibilità di risolvere il problema in modo diretto e definitivo. Il denaro non ci manca, gli uomini neanche. Ci difetta l'esperienza, però» continuò il generale. «E perciò potremmo commettere errori imperdonabili.»

«Qui entro in scena io, giusto?»

«Entra in scena lei, esatto. Certe cose non si imparano nelle accademie, colonnello.»

«Dipende. In quelle italiane no di certo, signor generale.»

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«Solo cautela. Vede, io e lei apparteniamo alla stessa specie. Conosco bene la luce che c'è nei suoi occhi» disse Maestri. «È la luce della giustizia, la stessa che c'è in me. Si accese tanti anni fa, a Santa Maria di Leuca, e da allora non si è più spenta. E quella luce ha un nome, si chiama "ideale".»

«Un ideale nato nel '46 e durato fino a oggi» replicò Lauri.

«No. Aiutare gli sfruttati è la mia missione dal gennaio del 1928.»

«E per tutelare i diseredati della terra ha pensato che schierarsi con i comunisti fosse l'unica concreta possibilità di applicare gli insegnamenti di Cristo. Il Vangelo secondo Stalin.»

«Niente Stalin. Io ho un solo vangelo, quello di Cristo, e un solo fine: impedire che i deboli vengano sfruttati dai ricchi. E solo il comunismo ha provato a mettere in pratica il Vangelo.»

«Quindi dio è rosso» intervenne Lami. «Nonostante il socialismo stia fallendo dovunque.»

«Una grande idea può perdere, ma non fallire.»

«Non si sente fuori tempo?»

«Oh, no, no, naturalmente. Questa non è una moda, Cristo e Marx hanno gli stessi valori e gli stessi punti di riferimento.»

«Ma in realtà sono antitetici. L'uno nega l'altro.»

«Ha letto Marxismo e cristianesimo, di don Giulio Girardi?»

«No.»

«Lo faccia. Girardi riteneva che marxismo e cristianesimo fossero due facce di una stessa medaglia che si chiama "umanitarismo". E riteneva fosse necessario lottare per cambiare la società, e lottare duro.» Maestri parlava con tono deciso.

«Non mi sembra ci sia stato molto umanitarismo in ciò che lei ha fatto gestendo la rete Ksenofont per tutti questi anni.»

«In termini assoluti ha perfettamente ragione, ma esistono disegni superiori che è necessario perseguire a tutti i costi. Lei sa del golpe Borghese, immagino.»

«Sette dicembre 1970. Nel Servizio lo insegnano ai nuovi assunti.»

«E sa anche perché fallì?»

«Be', so che mentre i nuclei golpisti stavano per entrare in azione, il principe Borghese ricevette l'ordine di annullare tutto. Nessuno ha mai saputo da chi e perché lo abbia ricevuto» disse Lami.

«Ora lo sa.»

«E lei come seppe del tentativo di golpe?»

Maestri sospirò. «I russi avevano servizi di informazione molto efficienti.»

«E come lo convinse a desistere?»

«Bastò fare riferimento ad alcune persone cui Junio Valerio Borghese teneva molto, fornendogli dettagli sulla loro vita privata. Lui comprese subito, da uomo intelligente, che sarebbe stato meglio rimandare a casa i nuclei interventisti.»

«Questo non cambia le cose. Nessun ideale, per quanto alto, può giustificare il sacrificio di innocenti, presidente.»

«A meno che non sia l'unico mezzo a disposizione per raggiungere il fine, gliel'ho detto» rispose Maestri. «Ricorderà la strage di Portella della Ginestra, immagino. Primo maggio del '47.»

«Undici morti, di cui due bambini. Fu eseguita da Salvatore Giuliano.»

«Quella strage venne organizzata dall'Oss, il Servizio segreto americano. Giuliano ne fu solo l'esecutore. Il piano era ripristinare in Italia lo Stato autoritario, cosa che noi non potevamo permettere, sia per motivi ideologici sia per amor patrio. Così come non potevamo permettere che gli americani di fatto governassero questo Paese.»

«E così pensaste di governarlo voi. E gli italiani in mezzo, schiacciati fra Cia e Kgb» replicò Lami.

«Ha mai sentito parlare dei dulciniani?»

«Non erano degli eretici medievali?»

«Esatto, almeno nel senso che allora si dava al termine "eretico". I dulciniani dicono: l'unico fine del cristiano è aiutare i bisognosi e i poveri, e con ogni mezzo. Spogliare i ricchi per rivestire i poveri. E dicono anche che esiste una forza del bene, cioè la parola di Cristo, e una del male, che è l'egoismo dell'uomo. Occorre che il bene batta il male, a qualunque costo. Semplice, no? La Chiesa di settecento anni fa li considerò eretici perché professavano il contatto diretto con Dio senza l'intermediazione dei preti, che i dulciniani ritenevano corrotti e troppo sensibili ai beni materiali. Così, non riconobbero l'autorità del papa, e da qui all'eresia il passo fu breve.»

Lami indurì la voce. «La sua è una logica assolutistica, pericolosa. Anche Hitler ragionava su schemi teorici molto simili quando diede a Himmler l'ordine di eliminare gli ebrei dai territori germanizzati.»

«Nessun terrorismo, niente Hitler. Nel 1930 avevo dieci anni quando ascoltai un discorso di Mario Cognasso, un dulciniano. Compresi subito che quella era l'unica forma di religione che un amante della giustizia potesse realmente accettare. Una religione pura, senza compromessi, una religione pratica e con uno scopo ben preciso. In altri termini, lo stesso scopo del comunismo marxista. Io ho seguito l'insegnamento di Dolcino e ho rifiutato l'eucarestia, il matrimonio e il sesso. Ma soprattutto ho combattuto il male con ogni mezzo possibile. Lei non è credente, dottor Lami, ma in fin dei conti la sua non è altro che morale cristiana, come la mia.»

«Questo è dogma.»

«Forse» rispose Maestri. «Ma di sicuro è un fatto.»

«Ma non... diffida di un regime che condanna i propri cittadini ai gulag al solo accenno al concetto di libertà?»

«Jean-Jacques Rousseau scrisse che il primo uomo che dopo aver recintato un terreno pensò di dire Questo è mio inventò la proprietà. Se altri non gli avessero creduto, l'umanità non avrebbe visto le guerre, le miserie e gli orrori che ha visto.»

«La proprietà privata è egoismo, è vero. Ma l'egoismo è uno degli istinti primari dell'essere umano. È ineliminabile... Infatti non è un caso che il blocco comunista stia crollando.»

Maestri si sistemò meglio sul divano. «Sa che dopo la Seconda guerra mondiale gli angloamericani proposero la deindustrializzazione della Germania per impedire che i tedeschi, dopo aver causato due guerre mondiali, ne causassero una terza?»

«Ne ho sentito parlare.»

«E sa chi fu a opporsi a quest'azione incivile? Stalin. Fu Stalin a insistere affinché a Norimberga venisse celebrato un processo internazionale con le garanzie processuali.»

«Lo fece per propaganda» disse Lami.

«Il fatto però è che lo fece. Capisce? Spesso si paragona Stalin a Hitler, ma è un errore storico commesso in malafede. Hitler decise a freddo di conquistare il mondo e di eliminare dalla faccia della terra la stirpe ebraica. Stalin invece si limitò a presentare in modo violento il conto ai suoi oppositori.»

«Si limitò, dice? I morti sono morti, non importa che parlino russo, polacco o inglese, o che siano oppositori o ebrei. E chiunque eserciti indiscriminatamente violenza dev'essere punito.»

«Lei è assolutista e pessimista, Lami.»

«Dopo Auschwitz c'è qualcuno che può permettersi il lusso di essere ottimista sulla natura dell'essere umano?» rispose Lami toccandosi la barba.

«A proposito di dogmi. Ne avrà uno anche lei, immagino.»

«Il mio dogma è non averne. Le religioni nacquero solo per il timore dell'uomo primitivo per i fulmini e hanno causato unicamente massacri, lutti e guerre.»

«Come li ha causati la proprietà.» Maestri inarcò le sopracciglia.

«Ha una dialettica sottile, signor presidente.»

«E lei è un buon socialista, ma non lo sa» disse Maestri.

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Roma, 12 maggio 1946

«Come sapete il 2 giugno si voterà per il referendum fra monarchia e repubblica» dice il giovane Maestri a un gruppo di persone riunite a casa sua. Tra loro c'è anche un uomo di una certa età, vestito con un abito di buon taglio. È una persona importante, che conta nel governo De Gasperi. Fuma il sigaro. Nunzia è seduta con gli altri, i suoi occhi sembrano più grandi del solito.

«Sapete bene perché siamo qui. L'appuntamento è di vitale importanza» prosegue Nicola.

«Ti ascoltiamo» dice Markus Keller, che tutti ormai chiamano Marco.

«Sapete bene quanto questa scelta sia fondamentale per il Paese, e sapete altrettanto bene cosa potrebbe avvenire se vincesse la parte sbagliata. Ci resta meno di un mese, quindi è necessario prepararci per tempo» spiega Maestri agli ospiti: molti sono ragazzi, più o meno suoi coetanei, che ascoltano attenti. «Secondo la procedura elettorale, le prefetture riceveranno i dati dalle sezioni della provincia per trasmetterle al ministero dell'Interno, che poi diffonderà i risultati parziali. La Corte di Cassazione, invece, sommerà i trentuno verbali degli uffici centrali circoscrizionali del ministero della Giustizia relativi alle 35.000 sezioni elettorali.»


Passano ventidue giorni, è il 4 giugno, e la votazione è in corso. Undici e mezzo di sera. In casa di Maestri c'è di nuovo una riunione.

«Purtroppo, stamattina il presidente del Consiglio ha comunicato al ministro della Real Casa che la monarchia è in vantaggio» dice Maestri.

«Dobbiamo fare qualcosa. Berlino non lo accetterà mai» replica l'uomo che fuma il sigaro.

«Allora, che si fa compagno?» gli chiede Maestri.

L'uomo sembra agitato. «I fascisti sono in vantaggio. Il popolo sta tradendo i morti della Resistenza, è inconcepibile. Agiamo subito, non aspettiamo oltre.»

«In questi mesi abbiamo creato una rete di quasi duecento persone. Funzionari pubblici, giudici, notai, avvocati... Potremmo mandarli nelle sezioni e nelle circoscrizioni elettorali con la scusa di dar manforte agli scrutatori, che sicuramente saranno stremati e avranno bisogno di aiuto. I compagni manometteranno i dati conclusivi, correggeranno le cifre finali e invertiranno la voce "Monarchia" con "Repubblica". Basteranno una ventina di ritocchi per sezione e il risultato finale si capovolgerà.»

L'uomo tira una boccata dal sigaro. «Se però dovessero rifare il calcolo potrebbero accorgersi dell'imbroglio.»

«No. I verbali fanno fede fino a querela di falso. E la legge non prevede il ricalcolo successivo.»

Qualcuno bussa alla porta. Uno dei ragazzi apre ed entra un giovane, è trafelato, ha il berretto storto sulla fronte e le lacrime agli occhi. «Compagni... La Gazzetta del Mezzogiorno ha diffuso dei dati secondo cui a Napoli, a Roma e a Torino la monarchia ha 327.540 voti e la repubblica 272.494. I giornalisti vogliono parlare con il ministro dell'Interno, ma lui si nega... Stanno vincendo i fascisti, capito?»

Maestri gli si avvicina. «Tranquillo, Pietro. Sistemeremo tutto.» Poi Nicola guarda l'uomo con il sigaro. «Ci prepariamo ad agire, compagno.»


Quella notte Maestri non dorme. Alle cinque del pomeriggio Marco Chelli entra in casa con l'aria stravolta. «Poco fa il governo ha proclamato la vittoria della repubblica. 12.182.855 voti contro i 10.362.710 della monarchia. Mancano ancora milleduecento sezioni, ma ormai è fatta, Nicola. È fatta. I compagni hanno ribaltato il voto. Abbiamo vinto!»

Nicola tira un sospiro di sollievo: il primo passo è fatto. Nunzia lo guarda, è felice, comprende l'importanza del momento. A mezzanotte il governo dà l'annuncio ufficiale: la repubblica ha ottenuto 12.718.019 preferenze e la monarchia 10.709.423.

I monarchici però non accettano il verdetto delle urne. Presentano ricorsi di tutti i tipi contro l'esito del voto. Maestri ritiene perciò che occorra intervenire al più presto con i giudici della Suprema Corte di Cassazione, e c'è una sola persona che può farlo con la massima autorevolezza.


Nella camera di consiglio, il presidente della Suprema Corte di Cassazione guarda l'uomo che fuma il sigaro: è il 10 giugno.

L'uomo fissa il magistrato. «È per l'Italia, signor presidente. Fatelo, per favore.»

«Ma, signor onorevole, come... come faccio a dichiarare il falso?» sospira l'alto magistrato.

«Nessun falso. Si è trattato solo di un errore nei conteggi, signor presidente. Un errore cui è stato posto rimedio. Dovete fidarvi di me. Rendete pubbliche queste cifre, perché altrimenti domani non basteranno le bare per portare al camposanto tutti i nostri connazionali che resteranno uccisi nella guerra civile che sicuramente scoppierà se prevarrà la monarchia. Tutti si aspettano la vittoria della repubblica. E voi non potete dichiarare altro che questo.» L'uomo lo guardò. «Che vi piaccia o no, signor presidente. Che vi piaccia o no.»


Quando il collegio della Suprema corte entra nell'aula, il brusio della folla di cronisti si zittisce di colpo. Il presidente si schiarisce la voce, poi con tono incolore legge:


La Corte procede alla somma dei voti conseguiti e proclama i seguenti risultati, secondo quanto attestano i verbali: repubblica 12.672.767; monarchia 10.688.905. La Corte, a norma dell'art. 9 del decreto legislativo del 23 aprile 1946 numero 219, emetterà, in altra ordinanza, il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i proclami presentati circa lo svolgimento delle operazioni relative al referendum, integrandoli con i dati delle 118 sezioni mancanti e indicando il numero complessivo degli elettori votanti e dei voti nulli.


L'ordinanza successiva preannunciata dal presidente è in realtà molto pericolosa: gli elettori votanti sono 21.000.000 e non 23.000.000, come invece ha dichiarato ufficialmente la Corte. E se ciò venisse reso pubblico, si darebbe in mano ai monarchici un importante strumento di contestazione.

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«Hai pensato a come risolvere il problema Lega Nord?» chiese Ferrandi al generale Olivadi.

«Vedremo dopo aver preso il potere, è inutile anticipare troppo le cose. Tuttavia, su Lega e problema meridionale ho qualche anticipazione. Ne parli lei, Cassera, per cortesia» disse Olivadi all'argentino.

Cassera ringraziò con un cenno del capo. Poi si girò verso gli altri. «Una volta che le Digos ci avranno fornito gli elenchi di tutti i dirigenti della Lega Nord, avremo due opzioni. Arrestarli tutti in quanto appartenenti a un movimento eversivo o trovare soluzioni tali da renderli innocui per un tempo ragionevolmente lungo» rispose Cassera.

«Il più lungo possibile» intervenne Ferrandi. «E che nessuno parli più di secessione o di federalismo.»

Cassera si schiarì la gola con un colpo di tosse. «Ci sarebbe una terza possibilità, però.»

«Quale?»

«Fare in modo che non compaiano più sulla scena, e farlo senza rumore.»

«Che significa?» disse l'industriale.

«Sparizioni. Un rimedio molto efficace.»

«Ah, be', questa ci mancava, in effetti. Quindi prima o poi ci ritroveremo a fronteggiare anche madri isteriche che inoltreranno ricorsi per sapere dove sono finiti i loro bambocci sovversivi. E il problema del Sud, di questi selvaggi che non sanno cos'è l'ordine e si ammazzano come cani, come lo risolviamo? Coi lanciafiamme?» chiese Ferrandi caustico, guardando Olivadi. «Come pensi di adeguare la rassegnata disorganizzazione del Meridione al dinamismo imprenditoriale del Centronord? Perché è ovvio che questa dovrà essere una delle priorità del nuovo governo.»

Olivadi sospirò. «Per il Sud sto pensando a un pacchetto di interventi. In Campania, Puglia, Abruzzo, Molise, Lucania, Calabria, Sicilia e Sardegna i vigili urbani saranno sostituiti da battaglioni dell'Esercito che imporranno il rispetto delle regole di convivenza civile. I bambini della nuova Italia cresceranno nel culto della legalità che avremo imposto ai loro padri. Così, nel giro di una generazione, i meridionali impareranno a fare la fila negli uffici postali e a non parcheggiare più le auto in mezzo alla strada o sui marciapiedi. In fondo, ci vuole poco. Basta essere efficienti e, soprattutto, determinati.» Olivadi fece una pausa. «Una cosa, signori. A quanto sembra, domani avremo il dossier. Lo leggeremo in fretta e alle due del mattino di lunedì 18 marzo daremo inizio alla fase finale dell'operazione. Qualche domanda?»

Gli altri lo fissarono senza parlare. «Bene. Colonnello, ricapitoli la parte finale della sua pianificazione, per cortesia» disse Olivadi.

L'argentino si schiarì la voce. «Domani inizieremo ad allertare i comandi intermedi che ci hanno espresso fedeltà, ma nonostante questo anche a loro non diremo nulla di più dell'essenziale. Il momento dell'intervento dovrà essere un segreto fino a due ore prima dell'inizio delle operazioni.»

«Ha portato una bozza del discorso di insediamento?»

«Certamente. L'ho scritto usando un tono democratico ma deciso, come mi ha chiesto lei, signor generale.»

«Ovvio. Non intendo far ridere il mondo con un discorso da dittatore subequatoriale. Serietà, equilibrio ed efficienza saranno le caratteristiche dei prossimi anni, in questo Paese.»

L'argentino proseguì. «È fondamentale che la gente creda che la sospensione delle libertà democratiche sia temporanea. E inoltre occorre far capire al mondo che il golpe non è stato appoggiato da potenze straniere.»

Ferrandi fissò l'argentino. Quell'uomo aveva le idee chiare, un vero professionista. «Con quali criteri ha costituito le squadre?»

«Il gruppo operativo di penetrazione sarà formato da uomini in abito civile e con armi ed esplosivi nascosti. Sembreranno visitatori e, quando scoccherà l'ora, opereranno dall'interno dei ministeri. Il gruppo di diversione, invece, attaccherà obiettivi secondari in modo da sviare l'attenzione dai principali, per operare con maggiore efficienza. Il gruppo operativo corazzato di copertura darà ai lealisti una dimostrazione di forza aprendo il fuoco nel caso ve ne fosse bisogno. I gruppi operativi d'assalto saranno composti da reparti d'élite con specifico addestramento al sabotaggio, come Lagunari e Battaglione San Marco. Penetreranno all'interno di Palazzo Chigi, del Quirinale e di altri obiettivi strategici, e costituiranno le teste di ponte per tutte le operazioni successive. Gli arresti eccellenti dovranno essere eseguiti dai nuclei di diversione e da quelli di copertura, così da lasciare mano libera ai gruppi di assalto.»

«Non converrà aspettare che il presidente del Consiglio sia fuori per un viaggio all'estero, magari durante una visita ad altri capi di governo? Avremmo un problema in meno» osservò il generale.

«In realtà avremmo un problema in più.»

«Perché?»

Cassera fece una pausa. «Se un capo di governo è all'estero, gli è più facile mettersi davanti ai riflettori, gridare il suo dissenso e cercare la solidarietà internazionale. Se invece lo abbiamo nelle nostre mani nessuno lo vede e lo sente, e la gente prima o poi dimentica. Si tratta di psicologia delle masse, signor generale.»

«L'esperto è lei, Cassera. Riepiloghi le altre necessità primarie, per cortesia.»

L'argentino si schiarì la voce. «Primo: dichiarare l'immediata sospensione della Costituzione e imporre la legge marziale, con la conseguente entrata in vigore del codice penale militare di guerra. Secondo: oscurare Rai e Fininvest. Le emittenti private sparse nel Paese dovranno essere chiuse nei giorni successivi. Le scuole elementari, medie e superiori saranno chiuse fino a nuovo ordine, e naturalmente questo varrà anche per le università.»

«Bene, vedo che tutto è perfettamente pianificato» disse Ferrandi.

«La giunta si denominerà Consiglio militare per le riforme amministrative. È poco aggressivo e suona bene. Ma la sostanza non cambia. È d'accordo?»

«Certamente» rispose Olivadi. «Ha messo nero su bianco la struttura di comando?»

«Certo. Ho stilato una relazione che le consegnerò nei prossimi giorni. Alle regioni saranno assegnati, in qualità di governatori, generali di divisione dell'Esercito. I prefetti resteranno al loro posto, ma prenderanno disposizioni dai comandanti militari provinciali, che avranno il grado di colonnello. Questi ultimi saranno, sotto la supervisione dell'Ufficio Superiore per la Sicurezza, i responsabili dell'ordine pubblico. I questori saranno aboliti.»

«Ha stabilito dove creare i posti di detenzione temporanea?»

«Ho individuato alcune località. Cento, vicino Ferrara, al Nord. Amelia al Centro e Trinitapoli al Sud. La gestione e l'organizzazione delle detenzioni e degli interrogatori sarà operativa subito dopo l'inizio dell'intervento» disse Cassera.

«Ovviamente i primi luoghi di detenzione provvisoria saranno lo Stadio Olimpico a Roma e il San Siro a Milano.»

«Bene. Siamo pronti, mi sembra.»

«C'è ancora una cosa, generale.»

«Cosa?»

«Non le piacerà.»

«Ce la dica lo stesso, Cassera» esclamò secco Ferrandi. «E sia chiaro.»

«Riguarda i politici, i sindacalisti e gli alti dirigenti che dovremo arrestare?»

«Certo. Allora?»

«Subito sarà necessario dimostrare al mondo che lei non è solo un grande presidente, ma anche un presidente attento ai diritti umani.»

«Vada avanti.»

«Il problema nasce dopo. Passato qualche tempo, il mondo ci avrà dimenticati, o perlomeno l'attenzione calerà. C'è altro cui pensare, in giro. E allora sarà necessario rendere definitivamente innocui gli arrestati. Come sa, in determinati casi il codice penale militare di guerra prevede ancora la pena di morte. Per risolvere il problema basterà quindi che i giudici militari applichino la legge con una certa discrezionalità, e questo non sarà difficile, perché lei glielo ordinerà. Inoltre, non sempre è necessario un processo per condannare qualcuno: basta che un prigioniero si ammali gravemente o sbatta accidentalmente la testa. Cose che capitano, no?»

Olivadi aveva l'aria perplessa. «Tutto questo è proprio necessario, come al solito?»

«È necessario, sì. Un colpo di Stato non è una serata a teatro. Le operazioni di eliminazione le faremo qui» disse Cassera indicando la Sardegna su una carta geografica dell'Italia.

«Capo Marrargiu?»

«Sì. Lontano da tutto e tutti.»

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