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| << | < | > | >> |Pagina 9L'intreccio fra la vita di tutti i giorni, i fatti e i gesti abituali, e l'avventura più incredibile era tanto stretto che il dottor Kuperus, Hans Kuperus, di Sneek (Frisia olandese) ne provava un'eccitazione quasi voluttuosa, che gli ricordava, per esempio, gli effetti della caffeina. Come tutti i primi martedì del mese si trovava ad Amsterdam. Si era in gennaio, e il dottore indossava il cappotto foderato di pelliccia con il collo di lontra e, poiché nevicava, sopra le scarpe portava le calosce. Dettagli senza importanza, ma sufficienti per dire che tutto era come ogni altro primo martedì del mese. Tutto: anche il fatto, insignificante, che Kuperus, una volta uscito dalla bella stazione in mattoni rossi, era entrato nel caffè di fronte a bersi un bicchiere di acquavite di ginepro, cosa che non raccontava mai a nessuno perché è sconveniente, alle dieci del mattino, recarsi da solo in un caffè vergunning. Aveva nevicato tutta la notte e nevicava ancora, ma l'atmosfera era allegra. I fiocchi scendevano lenti, rarefatti, senza mai rischiare di incontrarsi, e a tratti, nel cielo che cominciava a schiarirsi, spuntava il sole. Per terra la neve aveva attaccato. Gruppi di uomini la spalavano e ne facevano dei cumuli. Sui canali, vicino agli argini, si erano formati sottili strati di ghiaccio, e aghi di brina circondavano come un'aureola gli scafi delle barche. L'avventura iniziò con il secondo bicchiere di Bols, al quale Kuperus fece aggiungere un po' di bitter per togliere il sapore che non gli piaceva. Dopodiché pagò, si asciugò la bocca, sollevò il bavero del cappotto e uscì, con le mani in tasca e la borsa sotto il braccio. In teoria sarebbe dovuto andare in tram dalla cognata, nell'elegante quartiere del Giardino Botanico. Avrebbe pranzato lì e poi, alle due, avrebbe fatto a piedi trecento metri fino a un edificio nuovo in mattoni smaltati, dove ogni primo martedì del mese si riunivano i medici dell'Associazione di Biologia. Invece non andò né dalla cognata, la pingue signora Kramm, né all'Associazione, il che bastò a farlo sentire straordinariamente leggero, come se per la prima volta in vita sua si fosse spezzato il filo che lo teneva ancorato a terra. Prese la via principale che porta al quartiere dei teatri, e si fermò davanti a tutte le vetrine di armaioli. Sarebbe potuto entrare nel primo negozio, ma preferì scorrerne quattro, cinque, e mentre contemplava le armi si guardava nelle vetrine. Lo sapeva di avere un'aria provinciale, soprattutto quando si toglieva il cappello, perché non era mai riuscito a domare la chioma di un biondo rossiccio. Era alto e ben piazzato. Di lui, chi non ci capiva niente diceva: «È un colosso!». Ma lui, che si conosceva, che si accaniva a conoscersi, si era sempre trovato flaccido. Il viso, per esempio! Le palpebre troppo spesse, gli occhi sporgenti... E la piega della bocca, il naso leggermente storto... Era stanco. Sapeva di avere una carenza di fosfati, per usare una parola che impressionava i suoi pazienti. Presto, dopo aver camminato per un po', avrebbe sicuramente avvertito un dolore al petto. Ma che importanza aveva, ormai? Ebbe bisogno di prendere lo slancio, recalcitrò ancora davanti a tre vetrine ma poi entrò fulmineo in uno dei negozi, una piccola bottega dietro il cui bancone c'era un vecchietto con una calotta in testa. «Avrebbe delle pistole automatiche?». Che domanda idiota! Ce n'era uno scaffale pieno! Toccò l'arma con rispetto, con un lieve fremito, lo stesso che avevano i suoi pazienti quando toccavano lo strumento scintillante che il dottore avrebbe usato su di loro, per incidere un giradito o sondare uno stomaco. La fece caricare, se la infilò in tasca, guardò l'ora e pensò che, in teoria, in quel momento avrebbe dovuto bere un tè e mangiare panini al formaggio a casa di sua cognata, la signora Kramm. Siccome non gli andava di fare nulla del genere e il treno partiva soltanto alle tre, entrò in un buon ristorante, dove per risparmiare non andava mai, e ordinò un pasto completo, alla francese, con antipasto, vino, semifreddo e dolci. Aveva caldo. Pensava alla pistola che deformava la tasca del cappotto appeso all'attaccapanni. E si sorprese a sogghignare! Alla fine entrò in un cinema e guardò l'inizio di un film di cui non avrebbe mai conosciuto la fine. | << | < | > | >> |Pagina 46Tutto il resto non contava. Kuperus riceveva i pazienti, faceva le visite a domicilio, trascorreva il tempo con gli amici, mangiava leggendo il «Telegraaf», e la colonnina del termometro era ormai scesa a dieci gradi sotto zero. Non fu nemmeno sfiorato dall'idea di tornare laggiù a controllare che non fossero rimaste tracce.Dalla finestra scorgeva il canale gelato e i marinai che, ogni mattina, liberavano le barche dalle lastre di ghiaccio. I bambini portavano passamontagna colorati, sciarpe fino al naso e stivali di gomma. Sul selciato indurito i passi risuonavano da lontano. Niente lò interessava più. Un giorno venne a casa sua un commissario, ossequioso quanto il capo della polizia. Kuperus prese una bottiglia di Borgogna che aveva lasciato vicino al camino perché raggiungesse la giusta temperatura. Ne offrì un bicchiere al commissario; questi si munì di un taccuino per prendere appunti. Com'era vestita la signora Kuperus?... A che ora era uscita?... Di che colore era il suo cappotto?... «Vado a chiamare Neel» disse il dottore. Fu la domestica, più a disagio di lui, a rispondere alle domande. Quel giorno era nervosa: rigovernando aveva rotto un piatto — cattivo segno — e quando Kuperus, mentre mangiava, l'aveva attirata a sé, lei gli aveva risposto con stizza: «Via, cerchi di essere serio!». I suoi modi diventavano sempre più spicci. Quando il commissario se ne fu andato, entrò in salotto senza essere stata chiamata e lo scrutò di sottecchi, con quel suo sguardo da contadina. «Posso parlarle un attimo, signore?». «Cosa vuoi, Neel? ». «Avrei dovuto dirglielo prima... Ma è meglio se non passo la notte con lei... Il resto non conta, ma la gente finirà per sapere. che dormo nel suo letto... E a me mi dà fastidio... Ecco!». «Perché me lo dici proprio oggi?». «Perché sì! Non lo so, io...». «Perché non me l'hai detto ieri, o l'altroieri?». La ragazza alzò le spalle e le lasciò ricadere: «Ci tiene davvero a saperlo? A me non mi importa...». «Allora parla!». «Ma Karl non è d'accordo... E adesso che lo sa?... Karl è il mio uomo...». «E dovete incontrarvi oggi?». Una nuova alzata di spalle. «No!». «Lo sa che da qualche giorno stai con me?». «Certo!». «È per questo che non vuoi più...». La ragazza perse la pazienza e per poco non pestò un piede a terra. «Ma no! È completamente fuori strada. So che non mi metterà alla porta, quindi posso parlarle liberamente. Karl dorme qui già da cinque mesi...». « Qui in casa?». «In camera mia...». «Come fa a entrare e uscire senza essere visto?». «Be', gli...». La giovane arrossì, tentennò, quindi proseguì tutto d'un fiato: «Gli ho procurato una copia della chiave. Arriva la sera quando tutti dormono e se ne va la mattina di buon'ora...». «Anche in questi ultimi giorni?...». Lei annuì, lasciandolo di stucco. Kuperus sentì il colore sparirgli dalle guance e le gambe venir meno. Si versò un bicchiere di vino. «Ne vuoi?». «No, grazie. Non mi piace il vino rosso». «Chi è?». «Karl? È un tedesco di Emden...». «Cosa fa?». «Niente... Non trova lavoro... Dà una mano quando ci sono dei ricevimenti, se c'è bisogno di personale in più...». «Lasciami solo, per favore». «Mi lascerà libera, stanotte?». «Sì... Anzi, te lo dico più tardi...». Il dottore si accomodò nella poltrona davanti al fuoco; il paralume diffondeva una luce rosata. Tutti i mobili erano tirati a lucido. La cristalleria scintillava nella credenza, gli oggetti di rame luccicavano sontuosi. Sulla destra del camino erano impilate scatole di sigari, e la bottiglia di Borgogna non era finita. Kuperus non riusciva a stare seduto; a un certo punto aprì persino la bocca per gridare, ma si imbatté nella propria immagine allo specchio e si trattenne. Era incredibile! Le parole di Neel sconvolgevano completamente la sua esistenza. Era talmente assurdo che quasi non riusciva a crederle. Da cinque mesi un uomo passava le notti in casa sua! E loro non avevano mai sospettato di nulla! Si sentivano tranquilli, andavano e venivano all'oscuro di tutto! E per di più Kuperus, fino a pochi giorni prima, non aveva osato mai nemmeno sfiorare la camicetta della domestica! E quell'uomo, quel Karl, aveva la chiave! Ma la cosa più singolare e terribile era che costui avesse continuato a dormire da solo nel letto di ferro di Neel mentre lei... La chiamò a scampanellate, come si fa con la servitù. Intanto camminava avanti e indietro, passando da una stanza all'altra attraverso la doppia porta che separava salotto e sala da pranzo. «Lui ti ama?». «Credo di sì» rispose lei. «E non è geloso?». «Non lo so». «Però accetta che tu dorma con me, no? Che tu lo tradisca...». «Non è la stessa cosa». «In che senso?» «Nel senso che Karl è abbastanza intelligente da capire che così dev'essere...». «Fuori di qui... Puoi andare...». «E stanotte?». «Stanotte dormirai con me, hai capito? Così dev'essere, come dici tu! Ma adesso fuori, perdio!». Non ne poteva più. Non si sarebbe mai aspettato da sé una reazione simile: adesso era geloso di Neel! Soffriva perché lei aveva ammesso che la loro relazione le era indifferente... La cosa lo spaventava. Sentiva nell'aria un pericolo indefinibile. Dovette uscire per calmarsi: si mise a camminare lungo i canali, sulle banchine quasi deserte. E se fosse stato lui, Karl, l'autore della lettera anonima? Si trattava quasi certamente di un poco di buono, senza lavoro né fissa dimora. Cosa sperava di ottenere, e cosa stava aspettando per metterlo con le spalle al muro? | << | < | > | >> |Pagina 81«Hans, come lo ha saputo?».«Saputo cosa?». La guardava con espressione dura, aggressiva. Ci aveva preso gusto, a guardare in quel modo la gente, tanto che sembrava sempre determinato a suscitare paura. «Lo sa a che cosa mi riferisco...». «Ah, certo!» sghignazzò lui «Mi sta chiedendo come ho saputo che mia moglie mi tradiva con il nostro insigne amico, il conte de Schutter!». «Hans!...». «Hans cosa?». «È morta!». «E allora?». «Ha espiato... Conoscendo Alice, sono certa che non avesse troppa colpa... Chissà, forse era la prima volta che cedeva...». «Alla tua salute, Franz!... Non trovi che questo Borgogna sappia un tantino di tappo?». Per qualche istante ci fu silenzio: incapace di sopportarlo nell'immobilità, la signora Van Malderen ne approfittò per imburrare una fetta di pane che si sbriciolò nella sua bocca da roditore. Poi, all'improvviso, si alzò, e senza che fosse possibile capire cosa le fosse preso, si precipitò verso una poltrona in un angolo del salotto e fece ritorno con un gomitolo di lana celeste nel quale erano infilati i ferri da calza. In fondo al filo pendeva un quadratino di lavoro a maglia, dieci centimetri per dieci. «Sono stata io a insegnarle questo punto, la settimana prima...» gridò Jane palpando quel materiale incorporeo, di una tonalità davvero delicata. «Le avevo consigliato di farsi una leggera liseuse da indossare in casa... Era ancora pieno inverno, e lei non ne ha potuto vederne la fine...». «Come no! Da sotto il ghiaccio!». Era la voce di `Kuperus. Persino Franz ebbe un sussulto, scostò la testa dallo schienale della poltrona e guardò il dottore con un certo sgomento, mentre Jane esclamava: «Ma è abominevole!». «Lo è stato soprattutto quando li hanno tirati fuori... Pensate che Schutter è stato quasi tagliato in due dall'uncino della draga... Il suo volto era aperto come una finestra...». «La smetta, per favore!». «Non sono stato io a cominciare». «Posso dirle una cosa, Hans?». «Se proprio ci tiene». «Io la conosco bene... Siamo amici da dodici anni, per dodici anni lei e Alice siete stati i nostri unici veri amici. Ebbene, lei si sta ripiegando troppo sul suo dolore... Non lo neghi! La vedo passare ogni giorno...». La casa di Jane aveva infatti una veranda dove lei trascorreva gran parte delle sue giornate a osservare i movimenti della strada. «Ha un'aria talmente strana che la gente si volta a guardarla... Si capisce che non riesce a sfogare il dolore, e che questo dolore la consuma... Non è quello che ti ho detto la settimana scorsa, Franz?... E non ho forse aggiunto che desideravo venire a trovarlo per dargli qualche consiglio?...». Kuperus la guardava senza batter ciglio e Van Malderen era sempre più a disagio. «Lo sa che sono sincera, vero, Hans? Ebbene! Sono venuta a dirle che deve partire...». Quella frase lo fece quasi trasalire. I tratti del suo viso si irrigidirono e con i denti strinse l'estremità del sigaro. «Dovrebbe fare un viaggio... Vada nel Sud della Francia, o in Svizzera... Oppure a visitare i musei italiani... So che i mezzi non le mancano... La aiuterà a distrarsi...». La donna esitò un attimo, bevve un sorso di tè e proseguì abbassando lo sguardo sul tovagliolo: «Potrebbe incontrare una ragazza, o meglio ancora una giovane vedova che faccia al caso suo... Dio sa quanto mi è difficile dirle una cosa simile, con tutto il bene che volevo ad Alice... Ma alla sua età la vita non è ancora finita...». «Non avrebbe niente da propormi al momento?» le chiese Kuperus, e nessuno capì se stesse scherzando o meno. «Qui non conosco nessuno... E del resto sarebbe meglio che non fosse del luogo, che non sapesse...». Kuperus aveva gli occhi socchiusi. Faceva caldo. Il Borgogna gli imporporava le guance e il fuoco crepitava nella stufa, come all'Onder de Linden. Di tanto in tanto si udiva un camion passare per strada, o la sirena di una barca a motore che chiedeva di sollevare il ponte. A un metro di distanza Kuperus distingueva il viso irregolare di Jane, il suo collo esile e la leggera scollatura ornata da un cammeo. Avvertiva la presenza di Van Malderen alla sua sinistra e vedeva gli sbuffi di fumo che si sollevavano dalla poltrona ricamata. Era una scena nebulosa, dai contorni volutamente sfumati. Le luci della casa erano schermate da stoffe più o meno opache che creavano chiarori ora rosa ora azzurri, come nella camera da letto, oppure gialli, come in salotto. La poltrona sbiadita era un misto dei colori dell'arcobaleno che avevano però perso la loro vivacità. Tutto era evanescente... Per un attimo Kuperus si dimenticò che qualcosa era cambiato e riuscì a immaginare Alice con il lavoro a maglia in grembo, che per non disturbare la conversazione fra gli uomini, parlava a bassa voce con Jane Van Malderen, seduta accanto a lei. Ricordava per, esempio che mentre discuteva con Franz, all'improvviso udiva la voce ovattata di sua moglie mormorare: «Tre diritti e un rovescio, giusto?». Allora Jane prendeva in mano i ferri da calza... Ma tutto ciò era finito, perdio! Che cosa ci facevano lì quei due commedianti? Che cosa volevano? Stavano lì da meno di mezz'ora, ma a pensarci bene si erano già traditi: volevano convincerlo a partire! Farlo sparire! Farlo sparire dalla città, naturalmente! Franz non aveva aperto bocca, ma tutti sapevano che quando doveva portare a termine un compito sgradevole, cedeva l'incarico a sua moglie. Però quest'ultima era stata un po' precipitosa; all'improvviso Kuperus si alzò con un sospiro, si stiracchiò, gettò il sigaro nel contenitore del carbone e se ne accese un altro. I suoi modi erano diversi, più aspri. Lasciavano presagire che stesse per passare al contrattacco; Jane si versò del tè. «Cosa si dice in giro?» chiese, piantandosi davanti a lei. «Come? In che senso?». «Voglio sapere cosa si dice di me in città. Non vorrete farmi credere che nessuno dice niente. È la prima volta in trent'anni – da quando c'è stato l'omicidio di quelle due bambine – la prima volta, dico, che a Sneek capita un fatto tanto grave. Schutter, l'uomo più facoltoso, più elegante, più affabile della città, viene assassinato insieme alla moglie del dottor Kuperus!...». «Hans!...». «È vietato parlarne? Scusate tanto, ma se qualcuno ne ha il diritto, quello sono io. E così si apprende che il povero Kuperus era cornuto...». «La smettal...». «Ho detto cornuto!... E anche in questo caso, se qualcuno ha il diritto di pronunciare questa parola... Ma torniamo a noi: cosa dice la gente?». Van Malderen si agitò sulla poltrona e sua moglie riprese timidamente la parola: «Cosa vuole che dica? Sono tutti addolorati per lei...». «Non è vero». «Come sarebbe a dire?». «Non ci si addolora per un uomo caduto nel ridicolo...». «Il dolore non è mai ridicolo». «E se io non fossi addolorato?». «Lei è troppo nervoso, Hans... Lo vede che ho ragione e che farebbe meglio ad andarsene e cercare di dimenticare...». «No!». «Perché?». «Perché è quello che vogliono tutti!...». «E allora?». «E allora io, invece, voglio farli uscire dai gangheri. Cosa dicono? Credono che fossi a conoscenza della relazione di mia moglie con Schutter?». «Oh!» esclamò Jane indignata. «Risponda!». «Nessuno ha mai insinuato nulla del genere». Kuperus sapeva perfettamente dove voleva arrivare. Avrebbe potuto fermarsi lì, ma non gli andava. Era ancora in piedi, il suo viso si trovava all'altezza del lampadario rosa che illuminava il centrino ricamato sul tavolo, dove era posato anche il gomitolo di lana celeste. Come se Alice potesse andare a prenderlo e continuare il lavoro. «Chi è sospettato dell'omicidio?». «E che ne so?». «Non dovresti tormentare Jane a questa maniera» fece Van Malderen dalla poltrona. «Allora rispondi tu al posto suo». «Nessuno sa niente. Cosa vuoi che si dica?». «È proprio quando nessuno sa niente che si parla di più... Allora, cosa si dice?». «Che è stato un vagabondo...». Kuperus aveva i nervi a fior di pelle e avrebbe voluto farla finita una volta per tutte. Ma farla finita con cosa? Con quell'angoscia, quell'inquietudine, quella sorta di vertigine, quel malessere indefinibile. «E io?». «Cosa c'entri tu?». | << | < | > | >> |Pagina 113Erano le dieci del mattino e Kuperus stava ancora finendo di vestirsi quando, al momento di annodare la cravatta, si fermò a mezz'aria. A un tratto la musica di un pianoforte aveva invaso la casa. Dapprima qualche nota indolente, incerta, poi accordi via via più sicuri, che preannunciavano uno studio di Schumann. Il dottore ci mise un po' a capire cosa lo colpiva tanto profondamente, e non perché la sera prima aveva bevuto. Non fu colto da sorpresa, bensì da un'improvvisa nostalgia. Nello specchio vide un Kuperus diverso da quello degli ultimi giorni, un Kuperus commosso, quasi sconvolto. «Mia!...» balbettò. Era tornata Mia! Forse era guarita! Ed ecco che il dottore, fuori di sé, stava quasi per dimenticare l'ordine a comparire davanti al giudice istruttore. La casa a fianco, verso il ponte, era più piccola delle altre, ma ancora più pulita, più curata: dietro i vetri c'erano tendine inamidate, e la porta e le finestre venivano ridipinte ogni anno. Era la casa dei Brandt, gente che conduceva una vita tranquilla e regolare più di qualsiasi altro abitante della strada, poiché Brandt era professore al liceo maschile e la signora Brandt insegnava alla scuola superiore femminile. Uscivano e rientravano a orari fissi, e a casa con la governante restava solo la piccola Mia, che ormai aveva dodici anni. Mia non frequentava la scuola: studiava pianoforte. Era là, oltre il muro, e suonava un pezzo che Kuperus aveva sentito centinaia di volte mentre visitava i suoi pazienti. Mia era malata. Aveva trascorso l'inverno in Svizzera e il dottore l'aveva dimenticata al punto da non fare più caso alla mancanza della musica. Adesso però era tornata e le note invadevano di nuovo la casa! «La piccola signorina è tornata» fece una voce alle sue spalle. Era Neel, intenta a spazzolargli la bombetta. «Sì, è tornata» mormorò lui. E, anziché dirigersi direttamente alla porta seguendo il corridoio, deviò attraverso la sala da pranzo e il salotto, dove si trovava un pianoforte verticale ingombro di fotografie e soprammobili. Sullo sgabello girevole c'era un cuscino di velluto granata, confezionato appositamente per Mia quando era ancora troppa piccola per arrivare alla tastiera. La bimba, infatti, che la mattina prendeva lezioni da un insegnante, andava quasi tutti i pomeriggi a esercitarsi con la signora Kuperus, che suonava il piano anche lei. Chissà se nella credenza c'era ancora la sua scatola di cioccolatini... «Non si porta la borsa?» domandò Neel che aveva seguito il dottore fin sulla porta. «Non mi serve». Quella mattina si era sentito sollevato nel ricevere la convocazione ufficiale che lo invitava a presentarsi alle undici nell'ufficio del giudice; ma quelle poche note di pianoforte lo avevano completamente sconvolto, e adesso lasciava il salotto a malincuore, e a malincuore udiva il rumore familiare della porta di casa che si richiudeva alle sue spalle. C'era un altro dettaglio, ancora più peculiare del pianoforte e della cioccolata: quando i Brandt rientravano la sera, se Mia era ancora dai Kuperus, bussavano contro il muro e a quel segnale la bambina tornava di corsa a casa sua! Il tempo era grigio e Kuperus si sforzava di scacciare la tristezza che gli pesava sulle spalle; gettò uno sguardo indifferente alla veranda dove, come ogni giorno, era appostata Jane Van Malderen, e per poco non le fece una boccaccia! Come lo avrebbe chiamato Antoine? Il giudice, Antoine Groven, era un ex compagno di scuola di Kuperus. Si davano del tu, e se non si frequentavano molto spesso era solo perché la signora Groven aveva un pessimo carattere e non andava d'accordo con le altre donne di Sneek. L'autore della lettera anonima aveva infine parlato? Oppure l'impiegato della stazione era andato a riferire i propri dubbi alla polizia? Al risveglio Kuperus si era sentito agguerrito, risoluto, pronto a controbattere qualsiasi attacco. Ma quel dannato pianoforte era tornato a ricordargli tutto un mondo e a fargli rivivere anni interi, a cominciare dalle prime scale musicali di Mia, che allora aveva bisogno di due cuscini per arrivare alla tastiera. Il palazzo di giustizia era ancora più grigio del resto della città. Kuperus salì senza esitazione in Procura, bussò alla porta del giudice e, prima di ricevere risposta, udì un rumore di sedie che venivano spostate. Finalmente la porta si aprì: la mano sul pomello era quella del cancelliere, mentre Antoine Groven, in piedi dietro la scrivania, si sforzava di assumere un contegno dignitoso. «La prego di entrare e di accomodarsi». Il giudice non gli strinse la mano né gli diede del tu. Si sedette e, tormentandosi il pizzetto, si mise a sfogliare un fascicolo la cui mole stupì Kuperus. «Mi è corso l'obbligo di convocarla per rivolgerle alcune domande prima di concludere l'istruttoria. Ho qui numerosi rapporti e non posso esimermi dal tentare di far luce su alcuni punti ancora poco chiari...». Un discorso inappuntabile. Anche troppo. Faceva pensare a uno scolaro che reciti una poesia imparata a memoria. Il giudice non osava nemmeno sollevare lo sguardo dal fascicolo. «Leggo, per esempio, che al momento degli avvenimenti di cui lei è a conoscenza, ospitava a casa sua, in un locale riservato alla servitù, un certo Karl Vorberg, cittadino tedesco dalla reputazione tutt'altro che limpida. Il Polizei Präsidium di Emden ci comunica infatti che tale Vorberg è fortemente sospettato d'omicidio, ma che, per mancanza di prove, è impossibile richiederne l'estradizione...». Antoine sollevò finalmente la testa, incerto, quasi temesse di trovarsi di fronte a uno spettacolo doloroso. «Era al corrente della presenza di questo Vorberg in casa sua?» chiese. «No!». «In questo caso mi vedo costretto a far riferimento a un altro rapporto, in cui è precisato che nel corso della giornata di ieri lei ha incontrato per ben due volte tale individuo in una via malfamata di Amsterdam. Lo nega?». «No!». Kuperus scacciò le ultime note di pianoforte che ancora indugiavano nella sua testa. Tutt'a un tratto si rendeva conto che, se anche fino a quel momento l'avevano lasciato in pace, cionondimeno avevano svolto un'inchiesta approfondita a suo carico. L'avevano persino fatto pedinare, e lui non se n'era accorto! Guardava il fascicolo, sbigottito all'idea che ogni pagina nascondesse una nuova trappola. «Mi duole coglierla in contraddizione. Ha appena dichiarato di non conoscere Vorberg... Adesso invece ammette di averlo incontrato due volte nello stesso giorno ad Amsterdam...». «È così». «Si spieghi». «Al momento della tragedia non conoscevo Vorberg... Ignoravo che in casa mia si nascondesse un uomo...». «Come l'ha scoperto?». «Diventando l'amante della mia domestica». Il cancelliere esitò a trascrivere questa risposta e il giudice guardò Kuperus con aria interrogativa. Fu il dottore a rompere gli indugi: «Mi assumo la piena responsabilità delle mie dichiarazioni. Sono diventato l'amante della mia serva e poco dopo ho appreso che costei nascondeva un uomo su in soffitta... Allo scopo di liberarmi di questo individuo gli ho offerto del denaro, a condizione che partisse per Amsterdam...». «Lui l'ha ricattata?».
«Era abbastanza logico che mi chiedesse qualcosa
in cambio. Ieri sono andato a portargli altro denaro...».
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